Pëtr Kropotkin (1891)
Breve nota introduttiva
Nato come conferenza di propaganda, questo libretto viene, nella seconda edizione italiana, restituito alla sua originaria agilità.
Per molti aspetti teorici il testo tiene presente e riassume l’ampia trattazione sviluppata ne Il mutuo appoggio, ma lo scopo qui è diverso, tende a dimostrare l’insana follia dello Stato, il suo progetto mortale con cui avvinghia e stritola qualsiasi iniziativa di base, qualsiasi organizzazione che non lo affronta risolutamente e tiene lontane le sue proposte di perfezionamento razionalizzante.
La mia Introduzione, (pp. 5-23 alla prima edizione del 1981) non è qui inserita, per non appesantire la fruizione diretta dell’opuscolo. La pubblicherò nella raccolta dei miei scritti dedicati a Kropotkin, in corso di approntamento.
Buona lettura.
Trieste, 15 dicembre 2008
Alfredo M. Bonanno
I
Studiando lo Stato nella sua funzione storica ho creduto di rispondere ad un bisogno vivamente sentito: quello di approfondire l’idea stessa di Stato, di studiarne l’essenza, la funzione nel passato e la parte che potrà rappresentare nell’avvenire.
Prima di ogni cosa è la questione stessa dello Stato che divide i socialisti. Fra le diverse frazioni che esistono fra noi e che rispondono ai vari temperamenti, alle differenti maniere di pensare, e soprattutto al grado di fiducia che ognuno ha nella rivoluzione, due correnti si possono distinguere: da un lato esistono coloro che sperano di compiere la rivoluzione sociale nello Stato stesso; conservando la maggior parte delle sue attribuzioni, anzi aumentandole e utilizzandole per la rivoluzione. Vi sono poi coloro i quali, come noi, nello Stato vedono, non solo nella sua forma attuale ma sotto tutte le possibili forme che in futuro esso potrebbe assumere, un ostacolo alla rivoluzione sociale, anzi l’impedimento massimo alla formazione di una società basata sull’uguaglianza e sulla libertà, la forma storica più perfezionata per impedire questo avvenimento. Conseguentemente essi lavorano non a riformare lo Stato ma a distruggerlo.
La divisione è come si vede determinante. Essa corrisponde a due correnti divergenti che ritroviamo in tutta la filosofia, la letteratura e l’azione della nostra epoca. Per altro restando oscure le idee che oggi corrono sullo Stato, una volta che le lotte si intensificheranno su tale argomento, non c’è dubbio – come io spero ben presto – che ciò accadrà a seguito del fatto che le idee comuniste cercheranno la loro realizzazione pratica nella vita sociale.
È necessario pertanto, dopo essersi soffermati tanto spesso sulla critica dello Stato attuale, ricercare il perché della sua apparizione, approfondire la parte che ha rappresentato nel passato, paragonandolo con le istituzioni delle quali ha preso il posto.
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Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo con la parola Stato.
La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere lo Stato con la Società, ha dato vita a notevoli lavori dovuti ai migliori pensatori tedeschi come pure a molti francesi, i quali non possono concepire la società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva il solito rimprovero rivolto agli anarchici di voler “distruggere la società”, di predicare il ritorno ad una “guerra perpetua di ciascuno contro tutti”.
Eppure ragionare così significa ignorare completamente i progressi compiuti nel campo della storia durante gli ultimi trent’anni; significa ignorare che l’uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima di aver conosciuto lo Stato, significa dimenticare che per le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando appena dal XVI secolo; significa disconoscere infine che i periodi più gloriosi dell’umanità furono quelli in cui le libertà e la vita locale non erano ancora state distrutte dallo Stato, e grandi masse di uomini vivevano in comuni e in libere federazioni.
Lo Stato non è altro che una delle forme che la società ha assunto nel corso della storia. Ogni confusione fra queste due entità non è assolutamente possibile.
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Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo. Non essendo possibile avere Stato senza governo, si è detto, bisogna mirare all’assenza del governo e non all’abolizione dello Stato.
A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si debbono identificare due nozioni di ordine diverso. L’idea di Stato indica una cosa ben diversa dall’idea di governo. Essa comprende non solo l’esistenza di un potere collocato al di sopra della società, ma anche una concentrazione territoriale e una concentrazione di molte funzioni della vita sociale nelle mani di pochi. Essa comporta l’esistenza di nuovi rapporti con i membri della società. Si tratta, come si vede, di una distinzione che a prima vista può sfuggire, ma che appare chiara quando si studiano le origini dello Stato.
Per altro volendo comprendere lo Stato non c’è che un mezzo, quello di studiarlo nel suo sviluppo storico, la qual cosa tenteremo di fare nel presente lavoro.
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L’impero romano fu uno Stato nel vero senso della parola. Esso fino ai giorni nostri resta un punto di riferimento per l’uomo di legge.
I suoi organi coprivano di una rete fittissima un vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita economica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze, l’educazione, e persino la religione. Da Roma provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere il territorio, i prefetti, gli dèi. Tutta la vita dell’impero risaliva al Senato, più tardi a Cesare, l’onnipotente, l’onnisciente, il dio dell’impero. Ogni provincia, ogni distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua piccola porzione di sovrano romano che dirigeva tutta la sua vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma regnava sull’impero; e questo non era una confederazione di cittadini, ma soltanto un gregge di sudditi.
Fino ad oggi il legislatore e l’autoritario ammirano l’unità di questo Impero, lo spirito unitario delle sue leggi, la bellezza – a loro dire – e l’armonia di questa organizzazione.
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Ma lo sfacelo interno, secondato dalle invasioni barbariche, la morte della vita locale, l’incapacità di resistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna, spezzarono l’Impero. Dalle sue rovine nacque una nuova civiltà che oggi è la nostra.
Mettendo da parte lo studio delle civiltà antiche, ed esaminando le origini e gli sviluppi della giovane civiltà barbara, sino ai periodi in cui essa, a sua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, noi possiamo comprendere meglio l’essenza dello Stato. Si tratta di porre in atto uno studio molto più efficiente di quello che sarebbe possibile fare immergendosi nell’esame dell’impero romano o in quello di Alessandro, oppure nell’esame delle dispotiche monarchie dell’Oriente.
Prenderemo quindi come punto di partenza questi potenti demolitori barbari dell’impero romano, tentando di rintracciare l’evoluzione di ogni nostra civiltà dalle sue origini fino alla sua fase di Stato.
II
La maggior parte dei filosofi del Settecento si era fatta un’idea molto elementare dell’origine delle società.
All’inizio, essi dicevano, gli uomini vivevano in piccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro. Questa guerra rappresentava la situazione normale. Un bel giorno, però, si accorsero degli inconvenienti di queste lotte senza tregua, allora decisero di mettersi in società. Un contratto sociale fu concluso tra le famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una autorità la quale – ho bisogno di sottolinearlo? – divenne il punto di partenza e l’iniziatrice di ogni progresso. Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l’abbiamo appreso a scuola, che i nostri governi attuali si sono mantenuti in questa loro attribuzione simpatica di sapienti pacificatori e civilizzatori della specie umana.
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Questa idea, concepita in un’epoca in cui non si sapeva ancora molto intorno alle origini dell’uomo, dominò tutto il XVIII secolo; e, bisogna riconoscerlo, nelle mani degli enciclopedisti e di Rousseau, l’idea del “contratto sociale” diventò un’arma potente per combattere la monarchia di diritto divino. Però, malgrado i servizi che essa ha potuto rendere nel passato, questa tesi deve essere riconosciuta per falsa.
In effetti, tutti gli animali, salvo alcuni carnivori ed uccelli di rapina, nonché alcune specie che vanno scomparendo, vivono in società. Nella lotta per la vita sono le specie socievoli che vincono quelle che non lo sono. In ogni classe di animali esse occupano il vertice della scala, e non può esserci alcun dubbio che i primi esseri d’aspetto umano vivessero di già in società.
Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma questa era preesistente all’uomo.
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È noto al giorno d’oggi, avendo l’antropologia chiarito perfettamente questo problema, che il punto di partenza dell’umanità non fu la famiglia ma il clan, la tribù. La famiglia patriarcale, quale noi la conosciamo, o quale ci viene dipinta nelle tradizioni ebraiche, non fece la sua apparizione che molto più tardi. Decine di migliaia di anni trascorsero, durante i quali l’uomo visse nella fase di tribù o clan, e durante questa prima fase – chiamiamola pure, se ci piace, tribù primitiva o selvaggia – l’uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e di costumi, molto anteriori alle istituzioni della famiglia patriarcale.
In queste tribù la famiglia separata non esisteva, come non esiste presso tanti altri mammiferi socievoli. La divisione in seno alle tribù si aveva piuttosto per generazioni; e sin da un’epoca remotissima, la quale si perde nel crepuscolo del genere umano, si erano fissati dei limiti per impedire i rapporti di matrimonio tra le diverse generazioni, mentre erano permessi all’interno della stessa generazione. Tracce di questo periodo si riscontrano presso alcune tribù contemporanee e anche nel linguaggio, nel costume e nelle superstizioni di popoli molto più progrediti nello sviluppo della civiltà.
Tutta la tribù si dedicava alla caccia o alla raccolta in comune, e soddisfatta la fame si dava con passione alle danze e alle rappresentazioni. Fino ad oggi è possibile trovare ancora delle tribù, molto vicine a questa fase primitiva, costrette a rifugiarsi ai confini dei grandi continenti o nelle regioni alpestri meno accessibili.
L’accumulazione della proprietà privata non poteva effettuarsi, perché ogni cosa che era stata di proprietà di un membro della tribù andava distrutta o bruciata nel posto dove veniva seppellito il suo cadavere. Ciò si verifica ancora, anche in Inghilterra, fra gli zingari; mentre i riti funebri delle genti cosiddette “civili” ne portano l’impronta: i Cinesi, per esempio, bruciano i modelli in carta di ciò che possedeva il morto; e noi portiamo fino alla tomba, insieme al corpo del capo militare, il cavallo, la spada, le decorazioni. Il senso dell’istituzione è perduto, ne rimane la forma.
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Gli esseri primitivi avevano un sacro rispetto della vita umana mentre disprezzavano ed avevano in orrore l’assassinio e il sangue. Versare il sangue – non solo dell’uomo ma anche di certi animali – era per essi colpa così grave da dover essere scontata col sangue dell’aggressore goccia per goccia.
Così, all’interno delle tribù, un omicidio era assolutamente sconosciuto; cosa che si può anche oggi verificare presso gli Esquimesi, questi superstiti dell’età della pietra che abitano le regioni artiche. Presso gli Aleoiti, ed altri popoli primitivi, si sa per certo che non accade mai un solo omicidio all’interno della tribù, durante cinquanta, sessanta anni e più.
Ma, quando le tribù di origine, colore e lingua differenti si incontravano nel corso delle loro migrazioni, la guerra era inevitabile. È vero che fin d’allora gli uomini cercarono di rendere meno aspri gli scontri. La tradizione, come hanno dimostrato Henry Maine, Post e il prof. E. Nys, elaborava già in germe quello che poi sarebbe diventato il diritto internazionale. Non si poteva, per esempio, assalire un villaggio senza preavvertire gli abitanti; non si poteva uccidere sul sentiero percorso dalle donne per recarsi ad attingere l’acqua; e, per concludere la pace, bisognava spesso pagare il controvalore in denaro per gli uomini uccisi da ambo le parti. Comunque, tutte queste preoccupazioni, e molte altre, erano insufficienti: la solidarietà non si spingeva al di là del clan o della tribù; il sorgere delle contese, il passaggio da queste ai riferimenti e alle uccisioni fra gente di diversi clan e tribù era assai frequente.
Fin d’allora una legge fondamentale primeggiava sulle altre: “i vostri hanno ferito o ucciso uno dei nostri, noi abbiamo dunque il diritto di uccidere o ferire con uguale strumento uno dei vostri”, non importa quale, perché è sempre la tribù che è responsabile di ogni atto compiuto dai suoi membri. I versetti notissimi della Bibbia: “sangue per sangue, occhio per occhio, dente per dente, ferita per ferita, morte per morte” – ma non di più come hanno ben notato M. e Jannette Königswarter – ebbero la loro origine da questi costumi. Era la loro concezione di giustizia… e noi non abbiamo molto di che inorgoglirci, poiché il principio di vita per vita che prevale nei nostri codici, non è che una di quelle numerose sopravvivenze.
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Come si vede, una serie di istituzioni, senza contare le altre che è inutile ricordare, tutto un intero codice morale, di origine tribale, fu elaborato durante questa fase primitiva. Per mantenere questo nucleo di costumi sociali in vigore, erano sufficienti l’usanza, la tradizione, il costume. Nessuna autorità li imponeva.
Senza dubbio i primitivi avevano anche i loro capi temporanei. Il mago, facitore di pioggia – l’intellettuale di quel tempo – cercava di approfittare di queste sue conoscenze o di quello che lui credeva conoscere della natura, per dominare i suoi simili. Allo stesso modo, colui che sapeva meglio ricordare a memoria i proverbi e i canti, coi quali si tramandava la tradizione, riusciva a guadagnare un certo prestigio sugli altri. Egli recitava nelle feste popolari questi proverbi e questi canti, nei quali si trasmettevano le decisioni prese un giorno dalla assemblea del popolo in quella o quell’altra occasione. Fin d’allora questi “dotti” cercavano di assicurarsi un proprio dominio trasmettendo le loro conoscenze a persone scelte da loro, cioè a degli iniziati. Tutte le religioni e tutte le arti e i mestieri derivano da questa fase “misterica”.
Il coraggioso, l’audace e soprattutto il prudente, diventavano spesso capi temporanei nei conflitti contro le altre tribù o nel corso delle migrazioni. Ma non esisteva alcuna alleanza tra il depositario della legge, il capo militare e lo stregone; non si può parlare di Stato in queste tribù, come non se ne parla di una società di api o di formiche, o presso i Patagoni o gli Esquimesi di oggi.
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Questa fase durò nondimeno diverse migliaia di anni, e i barbari che invasero l’impero romano, l’avevano attraversata. Essi ne uscivano appena allora.
Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni si produssero nelle tribù e le confederazioni di tribù che abitavano l’Asia centrale e boreale. Grandissime fiumane di popolazioni, spinte da popoli più o meno civili, discesi dagli altopiani asiatici, probabilmente scacciati dalla rapida essiccazione di questi altopiani, si riversarono sull’Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tentativo di indirizzarsi verso l’Occidente.
Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante tribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive che esistevano ancora presso la maggior parte degli abitanti selvaggi dell’Europa, dovettero necessariamente scomparire. La tribù era basata sulla comunanza di origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva più esistere alcuna comunanza di origini in quelle agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle migrazioni, delle scorribande, delle guerre fra tribù, durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersi l’origine della famiglia patriarcale, il nucleo formato dal possesso che alcuni erano riusciti ad accaparrarsi delle donne conquistate o rapite alle tribù vicine.
Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena di dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù ormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso comunale della terra, cioè del territorio sul quale una certa agglomerazione aveva finito per fermarsi.
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Il possesso comune di un certo territorio – di valli e di colline – divenne la base di un nuovo accordo. Gli dèi degli antenati avevano ormai perduto il loro significato, gli dèi locali, della vallata, del fiume, della foresta, diedero la consacrazione religiosa alle nuove agglomerazioni, sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più tardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.
Il comune di villaggio, composto in parte o interamente di famiglie separate – unite tutte però dal possesso in comune della terra – divenne per i secoli futuri il necessario punto di congiunzione.
Esso esiste ancora negli immensi territori dell’Europa orientale, in Asia, in Africa. I barbari che distrussero l’impero romano – Scandinavi, Germani, Celti, Slavi – vivevano sotto questo tipo di organizzazione. Studiando i codici barbari del passato, come pure le confederazioni di comuni di villaggio che esistono anche oggi presso i Kabili, i Mongoli, gli Indi, gli Africani ecc., è stato possibile ricostruire nella loro interezza certe forme di società che rappresentano il punto di partenza della nostra attuale civiltà.
Diamo quindi un’occhiata a questa istituzione.
III
Il comune di villaggio si componeva, come si compone ancora, di famiglie separate. Ma le famiglie di uno stesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse la consideravano come loro patrimonio comune e la ripartivano in base alla grandezza delle famiglie ai loro bisogni e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini, nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava, ecc., vivono ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito liberamente dai contadini russi, quando nell’epoca attuale, lo Stato permise loro di occupare l’immenso territorio della Siberia.
Oggi, la coltura della terra nei comuni di villaggio si fa separatamente per ogni famiglia. Tutta la terra arabile è divisa tra le famiglie, ciascuno coltiva il suo campo come può. Ma al principio, la coltura si faceva in comune e questa costumanza si mantiene ancora oggi in molti distretti, almeno riguardo la terra. In quanto al disboscamento, al diradamento delle foreste, alla costruzione dei ponti, all’innalzamento di piccoli forti e torricelle, da servire come rifugio in caso di invasione, tutto ciò si faceva in comune, come lo fanno ancora centinaia di milioni di contadini dove il comune di villaggio è resistito all’invasione dello Stato. Però il “consumo”, per servirmi di una espressione moderna, aveva già luogo famiglia per famiglia, ciascuna delle quali aveva il proprio bestiame, il proprio orto, le proprie provviste, nonché i mezzi per accumulare e trasmettere i beni in eredità.
In tutti i suoi affari il comune di villaggio era sovrano. L’usanza locale faceva legge e l’assemblea plenaria di tutti i capi delle famiglie, uomini e donne, era il giudice, il solo giudice, in materia civile e penale. Quando un abitante si querelava contro un altro, piantava il suo coltello nel luogo dove di regola il comune si riuniva, il comune doveva “trovare la sentenza” secondo il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle due parti era stato chiarito dai giudici.
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Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa fase offre di interessante. Mi basterà ricordare che tutte le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tardi a vantaggio delle minoranze, tutte le nozione di diritto che noi troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze) nei nostri codici, nonché tutte le forme della procedura giudiziaria, in quanto offrono garanzie per l’individuo, ebbero la loro origine nel comune di villaggio. Così, quando noi crediamo di avere fatto un grande progresso introducendo, per esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che riportare alla luce una istituzione dei barbari, dopo averla modificata a vantaggio delle classi dominanti. Il diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto d’usanza.
Nello stesso tempo si sviluppava il sentimento di unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni libere di comuni di villaggio.
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Fondato sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione in comune della terra, sovrano come giudice e come legislatore di diritto d’usanza, il comune di villaggio rispondeva alla maggior parte dei bisogni dell’essere sociale.
Ma, molti di questi bisogni, restavano ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non era portato a richiamarsi ad un governo non appena un nuovo bisogno si faceva sentire; ma tendeva al contrario a prendere da se stesso l’iniziativa per unirsi, federarsi, creare un’intesa, grande o piccola, numerosa o ristretta, che rispondesse a questo bisogno. La società di allora si trovava letteralmente coperta di una rete di fraternità giurate, cooperazioni per il mutuo appoggio, di “congiurazioni”, sia nel villaggio che fuori, nella federazione.
È possibile ancora oggi osservare questa fase e questo spirito, presso molte federazioni barbare rimaste al di fuori degli Stati moderni che sono ricalcati sul tipo romano o piuttosto bizantino.
Ad esempio, fra gli altri, i Kabili hanno mantenuto il loro comune di villaggio con le attribuzioni che abbiamo menzionato: la terra in comune, il tribunale di villaggio, ecc. Ma l’uomo avverte la necessità di muoversi fuori dai limiti ristretti del suo villaggio. Gli uni corrono il mondo in cerca di avventure come mercanti; gli altri si dedicano ad un mestiere, ad un’arte qualsiasi. Questi negozianti, questi artigiani, si uniscono in “fratellanze”, anche quando appartengono a villaggi, tribù o confederazioni differenti. Occorre essere uniti per aiutarsi reciprocamente nelle avventure lontane, o per affidarsi i segreti del mestiere; e quando si associano giurano fratellanza e la praticano in un modo che colpisce l’europeo, cioè in modo concreto e non soltanto a parole.
E poi, a chiunque può accadere una disgrazia. Chissà se domani, forse, in una lite, il tale individuo, di solito così dolce e tranquillo non uscirà fuori dai limiti dell’educazione e della socievolezza? Chissà se non percuota o ferisca? Bisognerà allora pagare un compenso molto grave al colpito o al ferito; bisognerà difendersi davanti all’assemblea del villaggio e chiarire i fatti in base alla dichiarazione di sei, dieci o dodici “congiurati”. Ragione di più per entrare in una fratellanza.
L’uomo sente, inoltre, il bisogno di darsi alla politica e anche agli intrighi, di diffondere una certa opinione morale o un certo costume. Inoltre vi è la pace esterna da salvaguardare, delle alleanze da concludere con altre tribù, delle federazioni da costituire in Paesi lontani, delle nozioni di diritto fra le tribù da propagare. Ebbene, per soddisfare a tutti questi bisogni d’ordine emotivo o intellettuale, i Kabili, i Mongoli, i Malesi, non si rivolgono al governo, essi non ne hanno alcuno. Uomini seguaci del diritto basato sulle costumanze, e delle iniziative individuali essi non sono stati pervertiti dalla corruzione di un governo e di una Chiesa capaci di ogni cosa. Essi si uniscono direttamente, stabiliscono delle fratellanze giurate, delle società politiche e religiose, delle unioni di mestiere, – delle gilde, come si diceva nel Medioevo, dei cofs come dicono oggi i Kabili. E questi cofs varcano i confini dei villaggi, si diffondono lontano nel deserto e nelle contrade straniere, e la fratellanza viene applicata in queste unioni. Rifiutarsi di aiutare un membro del cof anche a rischio di perdervi tutto il proprio avere e la vita stessa, è considerato un atto di tradimento verso la “fratellanza”, significa essere trattati come l’assassino del fratello.
Ciò che noi troviamo oggi presso i Kabili, i Mongoli, i Malesi, ecc., costituiva l’essenza stessa della vita di quelli che definiamo barbari nell’Europa dal V al XII e perfino al XV secolo. Sotto il nome di gilde, di amicizie, di fratellanze, di università, ecc., le unioni si diffondevano per la mutua difesa, per vendicare le offese fatte ad un membro dell’unione, per rispondervi in maniera solidale, per sostituire alla vendetta dell’“occhio per occhio” il compenso, seguito dall’accettazione dell’aggressore nella fratellanza, per la pratica dei mestieri, del soccorso in caso di malattie, per la difesa del territorio, per impedire le prepotenze dell’autorità incipiente, per il commercio, per i rapporti di buona vicinanza, per la propaganda…; in una parola per tutto ciò che l’Europeo educato dalla Roma dei Cesari e dei papi, domanda oggi allo Stato. È molto dubbio anzi che al quel tempo possa essere esistito un solo uomo, libero o servo che non appartenesse, oltre al proprio comune, ad una fratellanza o gilda qualsiasi, escluso coloro che erano messi fuori dalla legge delle loro fratellanze.
Le saghe scandinave ne decantano le gesta, parlano dell’abnegazione dei fratelli giurati che costituisce il tema delle loro più belle poesie, mentre la Chiesa e i re nascenti, rappresentanti del diritto bizantino (o romano) che ricompare, scagliano contro di esse i loro anatemi e i loro decreti che, fortunatamente, rimangono lettera morta.
L’intera storia dell’epoca perde il suo significato e diventa completamente incomprensibile, se non si tiene conto di queste fratellanze, di queste unioni di fratelli e di sorelle, che nascono dappertutto per rispondere ai bisogni diversi della vita economica e passionale dell’uomo.
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Per ben comprendere l’immenso progresso raggiunto sotto questa doppia istituzione delle comuni di villaggio e delle fraternità libere e giurate – al di fuori di ogni influenza romana, cristiana o statalista – prendete l’Europa così come fu all’epoca delle invasioni barbare e comparatela con quella che diventerà al X e all’XI secolo. La foresta selvaggia è conquistata, colonizzata; villaggi e paesi la sostituiscono, essi sono circondati da campi e da aie, protetti dai fortini, legati fra di loro da sentieri che attraversano le foreste e le paludi.
In questi villaggi si trovano in germe le arti industriali e tutta una serie di istituzioni per mantenere la pace interna ed esterna. In caso di omicidio o di ferimenti, non si cerca più tra gli abitanti del villaggio, di uccidere la persona dell’uccisore, uno dei suoi parenti o un compaesano, oppure di infliggergli una ferita equivalente così come avveniva per il passato. Questo costume resta quello dei signori-briganti che attenendosi a questo principio fecero tutta una serie di guerre senza fine. Fra gli abitanti del villaggio si diffonde la compensazione, fissata da arbitri, che in breve diventa la regola generale. A seguito di questa compensazione la pace è ristabilita e l’aggressore viene spesso adottato dalla famiglia che fu lesa dalla sua aggressione.
L’arbitraggio per tutte le dispute diventa un’istituzione profondamente radicata, una pratica giornaliera – malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti che vorrebbero che ogni disputa venisse portata davanti ad essi o davanti ai loro agenti, per approfittare della fred, un’ammenda che viene pagata dal villaggio d’origine dei violatori della pace pubblica.
Infine, centinaia di villaggi si uniscono in potenti federazioni – germi delle nazioni europee – che hanno giurato la pace interna e che considerano il loro territorio come un patrimonio comune essendosi alleate per la reciproca difesa. Fino ad oggi è possibile studiare queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mongole, turco-finniche, malesi.
Nonostante tutto ciò nebbie si addensano all’orizzonte. Altre unioni, quelle unioni delle minoranze dominanti, si costituiscono e cercano di trasformare a poco a poco questi uomini da liberi in servi, in sudditi. Roma è morta, ma la sua tradizione vive tramite la Chiesa cristiana, aggravata dalle visioni delle teocrazie orientali. Quest’ultima accorda il suo potente appoggio ai nuovi poteri che cercano di consolidarsi.
Lungi dall’essere la bestia sanguinaria che si è voluta dipingere allo scopo di trovare la necessità del potere, l’uomo ha sempre amato la tranquillità e la pace. In certi momenti più battagliero che feroce, egli preferisce il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi. È per questo che non appena le grandi migrazioni barbariche cominciano a fissarsi, non appena le orde e le tribù si stabiliscono più o meno nei loro rispettivi territori, noi vediamo come le cure della difesa territoriale contro le possibili nuove invasioni degli immigrati, vengono affidate a qualche individuo che arruola una piccola banda di avventurieri, di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame e a coltivare il suolo. Questo difensore comincia ben presto ad accumulare delle ricchezze: presta cavalli e ferro (allora costosissimi) al povero, asservendolo; comincia a conquistare i primi embrioni del potere militare.
Per altro, la tradizione, che fa legge, viene a poco a poco dimenticata dalla maggior parte degli individui. Resta appena qualche vegliardo che ha potuto ritenere a memoria le strofe e i canti che raccontano i “precedenti” di cui si compone la legge d’usanza, e le recite nei giorni delle grandi feste davanti al comune riunito. E così, a poco a poco, alcune famiglie si formano una specialità, trasmessa da padre in figlio; quella di ritenere a memoria questi canti, questi versetti, di conservare insomma la “legge” nella sua purezza. Presso queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio per giudicare le loro questioni più difficili, soprattutto quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano di accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.
L’autorità principesca o reale è già in germe in queste famiglie, e più mi approfondisco nelle istituzioni dell’epoca, più mi accorgo che la conoscenza delle leggi dell’uso e della consuetudine contribuì molto più alla costituzione di questa autorità che non la forza delle armi. L’uomo si è lasciato sottomettere più per il suo desiderio di punire secondo la “legge” che per la diretta conquista militare. Infatti la prima “concentrazione dei poteri”, il primo accordo reciproco per il dominio fu quello tra il giudice e il capo militare, accordo che venne fatto contro il comune di villaggio. Un solo uomo rivestì queste due funzioni circondandosi di uomini armati per fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi nel suo ridotto, accumulando per la propria famiglia le ricchezze dell’epoca – pane, bestiame, terra – ed estendendo a poco a poco il suo dominio agli abitanti dei dintorni.
L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete, non tardò a prestargli il suo appoggio e a dividerne il dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo potere di mago temuto, se ne impadronì per proprio conto.
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Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento, trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti, che ci fa apprendere come degli uomini liberi diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare per il padrone, laico o religioso, del castello; come l’autorità si costituisca, man mano al di sopra dei villaggi e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando questa dominazione crescente, come queste lotte si infrangano contro le robuste mura del castello, contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendevano.
Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo, l’Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei regimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore dell’Africa, o di quelle teocrazie come si conoscono studiando la storia dell’Oriente. Tutto ciò non avvenne ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e delle piccole teocrazie, già esistevano e si affermavano.
Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sassone, celtico, germanico, slavo, – che aveva spinto gli uomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfazione dei loro bisogni nell’iniziativa individuale e nella libera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunatamente dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare, lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di libera intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro fratellanze vivevano più che mai e le crociate non avevano fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tutto l’Occidente.
Fu allora che la rivoluzione dei comuni urbani, usciti dall’unione tra la comune di villaggio e la fraternità giurata – rivoluzione che lo spirito federativo dell’epoca preparava da lungo tempo – scoppiò tra l’XI e il XII secolo con un mirabile accordo.
Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici universitari preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla minaccia che gravava su di essa. Arrestò l’evoluzione dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostra civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa sarebbe stata sommersa come furono sommerse le civiltà della Mesopotamia, dell’Assiria e di Babilonia. Questa rivoluzione schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei comuni liberi.
IV
Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati allo spirito romano e preoccupati di fare risalire le origini di tutte le istituzioni fino a Roma, stentino tanto a capire lo spirito del movimento comunalista del XII secolo. Questo movimento fu una forte affermazione dell’individuo, il quale giunse a costituire la società per mezzo della libera federazione degli uomini, dei villaggi, delle città. Esso fu anche una assoluta negazione dello spirito unitario ed accentratore romano, col quale si cerca ancora oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento universitario. Questo movimento non si ricollega a nessun personaggio storico di particolare rilievo e a nessuna istituzione centralizzata.
Fu uno sviluppo naturale, appartenente, come la tribù ed il comune di villaggio, ad una certa fase dell’evoluzione umana, e non a questa nazione o a quella regione.
È per questo che la scienza universitaria non lo comprende, è per questo che Augustin Thierry e Sismondi, che avevano compreso lo spirito dell’epoca, non hanno avuto continuatori in Francia, dove Achille Luchaire è ancora oggi solo a continuare più o meno la tradizione dei grandi storici delle epoche dei Merovingi e dei comuni. In Inghilterra e in Germania, il risveglio degli studi su tale periodo, nonché una vaga comprensione del suo spirito, sono di origine recentissima.
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Il comune del Medioevo, la città libera, ha origine, da un lato, dal comune del villaggio e dall’altro da quelle mille fratellanze e gilde che furono costituite al di fuori dell’unione territoriale. La federazione tra queste due specie di unioni, si andò affermando sotto la protezione delle zone fortificate e delle relative torri di difesa.
In molte regioni essa si sviluppò naturalmente, in altre – e questa fu la regola per l’Europa centrale – avvenne come risultato di una rivoluzione. Quando gli abitanti di una certa borgata si sentivano abbastanza protetti dalle loro mura, formavano una specie di accordo giurato: giuravano cioè reciprocamente di abbandonare tutte le questioni concernenti insulti, percorse o ferite e promettevano di non ricorrere ad altro giudice fuorché ai giudici nominati da loro stessi. In ogni gilda di mestiere di buon vicinato, in ogni fratellanza giurata, ciò accadeva da lungo tempo per pratica regolare. In ogni comune di villaggio, ciò si era praticato altre volte, prima che il vescovo o il signorotto locale riuscissero ad introdurvisi e, più tardi, ad imporvi il loro giudice.
Così le frazioni, le parrocchie, delle quali si componeva la borgata, nonché tutte le corporazioni, fratellanze che in essa si erano sviluppate, si consideravano come una sola amitas, nominavano i giudici e giuravano di mantenere l’unione tra questi gruppi.
Uno statuto era presto compilato ed accettato. Se occorreva si facevano copiare quelli di qualche comune vicino (oggi si conoscono centinaia di questi statuti) ed il comune era bello e costituito. Il vescovo o il principe, che fino a quel momento erano stati i soli giudici nel comune, e spesso ne erano diventati più o meno i padroni, non avevano allora che da riconoscere il fatto compiuto, oppure combattere tale accordo con le armi. Spesso il re, cioè il principe che voleva dimostrarsi superiore agli altri prìncipi e che in definitiva aveva i forzieri vuoti proprio per questo, “accordava” la costituzione contro un compenso finanziario. Rinunciava così ad imporre il proprio giudice al comune, sebbene continuasse a darsi dell’importanza nei confronti degli altri feudatari. Ma ciò non era sempre la regola generale: centinaia di comuni vivevano senz’altra sanzione che la loro volontà, le loro mura e le loro lance.
In cento anni questo movimento si diffuse con mirabile insieme in tutta l’Europa – quasi sempre per spirito d’imitazione. La Scozia, la Francia, i Paesi Bassi, la Scandinavia, la Germania, l’Italia, la Polonia, la Russia, erano così organizzate. Quando oggi paragoniamo gli statuti e l’organizzazione interna dei comuni francesi, inglesi, scozzesi, irlandesi, scandinavi, tedeschi, polacchi, russi, svizzeri, italiani o spagnoli, siamo colpiti dalla quasi identità di tali costituzioni e dall’organizzazione che si sviluppò all’ombra di questi “contratti sociali”. Che lezione mirabile per i romanisti e per gli hegeliani, i quali non conoscono altro mezzo per ottenere la somiglianza delle istituzioni, che la schiavitù dinanzi la legge!
Dall’Atlantico fino al corso medio del Volga, dalla Norvegia all’Italia, l’Europa si coprì di numerosissimi comuni. Alcuni divennero città popolose come Firenze, Venezia, Norimberga o Novgorod; gli altri restarono borgate di un centinaio o anche di una ventina di famiglie, ma sempre trattati da pari a pari dai loro fratelli più prosperi.
Organismi ricchi di vita, i comuni differiscono nella loro evoluzione. La posizione geografica, il carattere del commercio esterno, le resistenze da vincere al di fuori, davano una storia particolare ad ogni comune. Ma per tutti vigeva il medesimo principio. Pskov in Russia e Bruges in Olanda, un villaggio scozzese di trecento abitanti e la ricca Venezia con le sue isole, una borgata del Nord della Francia o della Polonia e la bella Firenze, rappresentavano la stessa amitas, la stessa amicizia dei comuni di villaggio e delle gilde: la loro costituzione è, nelle linee generali, sempre la stessa.
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Generalmente, la città, il cui recinto si ingrandisce con la popolazione e che si circonda di torri sempre più alte, una ogni quartiere o corporazione, era divisa di regola in quattro, cinque o sei sezioni o settori che si irradiavano dalla cittadella verso le mura. Questi quartieri erano abitati, di preferenza, ognuno da un’arte o mestiere; le “arti giovani” occupavano i sobborghi che vennero ben presto fortificati per mezzo di una nuova cerchia di mura.
La strada o la parrocchia, rappresenta l’unità territoriale corrispondente all’antico comune di villaggio. Ogni strada o parrocchia ha la sua assemblea particolare, il suo foro, il suo tribunale popolare, il suo prete, la sua milizia, la sua bandiera e spesso il suo sigillo, simbolo di sovranità. Federata con altre strade essa conserva però la sua indipendenza.
L’unità professionale che spesso si confonde a poco a poco con il quartiere o il settore, è la corporazione o gilda, l’unione di mestiere. Questa ha pure i suoi santi, la sua assemblea, il suo foro, i suoi giudici, la sua cassa, la sua proprietà fondiaria, la sua milizia e la sua bandiera. Ha anche il suo sigillo e rimane sovrana. In caso di guerra, se il giudice lo riterrà conveniente, la sua milizia marcerà a fianco di quella delle altre gilde e la sua bandiera verrà posta accanto alla grande bandiera e al carroccio della città.
La città, infine, è l’unione dei quartieri, delle strade, delle parrocchie e delle corporazioni, ed ha la sua assemblea plenaria nel gran foro, il suo campanile maggiore, i suoi giudici eletti, la sua bandiera per riunire le milizie delle corporazioni e dei quartieri. Essa tratta da sovrana con le altre città, stringe federazioni con chi le piace, conclude alleanze al di fuori del territorio. Così vediamo i “Cinque Porti” inglesi intorno a Dover federarsi con i porti francesi e olandesi dell’altra parte della Manica; la Novgorod russa allearsi con la Hansa scandinavo-germanica, e via di seguito. Nelle sue relazioni la città possiede tutte le attribuzioni dello Stato moderno, e fin da quest’epoca si costituisce a mezzo di liberi contratti, ciò che più tardi sarà riconosciuto come diritto internazionale, posto sotto l’opinione pubblica di tutte le città e più spesso violato che rispettato dagli Stati.
A volte una città, non potendo “trovare la sentenza” in un caso complicato, si rimetteva “per cercare la sentenza” ad una città vicina. Spesso questo spirito dominante dell’epoca – l’arbitrato piuttosto che l’autorità del giudice – si manifestava nel fatto di due comuni che nominavano un terzo come arbitro.
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I mestieri si regolavano allo stesso modo. Essi trattavano gli affari di commercio e di mestiere indipendentemente delle loro città e facevano i loro trattati senza tener conto della nazionalità. Quando, nella nostra ignoranza, parliamo con un certo orgoglio dei nostri congressi internazionali di operai, dimentichiamo che congressi internazionali di operai ed anche di apprendisti si tennero già nel XV secolo.
Per ultima, la città, o si difendeva da se stessa contro gli aggressori e conduceva guerre accanite contro i feudatari dei dintorni, nominando ogni anno uno o piuttosto due comandanti militari delle proprie milizie; oppure accettava un “difensore militare”, un principe, un duca, che sceglieva per un anno e congedava quando meglio gli piaceva. Essa gli consegnava, generalmente, per il mantenimento dei soldati, il prodotto delle ammende giudiziarie, ma gli proibiva di immischiarsi negli affari dei cittadini. Infine, poteva accadere che sentendosi troppo debole per emanciparsi completamente dai vicini, i cosiddetti avvoltoi feudali, prendesse come difensore militare il vescovo o un principe di una certa famiglia – guelfa o ghibellina in Italia, di Rurik in Russia o d’Olger in Lituania – vegliando però gelosamente perché l’autorità del principe o del vescovo non andasse oltre gli uomini acquartierati nel castello. Essa proibirà loro persino di entrare in città senza permesso. Ad esempio ancora oggi il re d’Inghilterra non può entrare a Londra senza il permesso del Lord sindaco di quella città.
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Vorrei parlare lungamente della vita economica delle città del Medioevo, ma sono costretto a sorvolare questo argomento. Essa fu varia e complessa e richiederebbe una lunghissima trattazione. Basterà ricordare che il commercio interno veniva sempre svolto per mezzo delle corporazioni e non direttamente dagli artigiani isolati; i prezzi venivano fissati con un mutuo accordo, il commercio estero lo esercitava esclusivamente la città. Solo più tardi il commercio internazionale divenne monopolio della corporazione dei mercanti e, più tardi ancora, di individui isolati. Nei comuni non si lavorava mai la domenica e nei pomeriggi del sabato (giorni destinati ai bagni); l’approvvigionamento delle derrate principali era sempre fatto dalla città. Quest’uso si mantenne in Svizzera fino alla metà del XIX secolo. Insomma, una gran quantità di documenti di ogni specie, dimostra che l’umanità non ha mai conosciuto, né prima né dopo, un periodo di benessere relativo così bene assicurato a tutti, come nel periodo delle città libere del Medioevo. La miseria, l’incertezza e lo sfruttamento del lavoro attuali vi furono del tutto sconosciuti.
V
La libertà, l’organizzazione dal semplice al composto, la produzione e lo scambio per mezzo delle corporazioni di mestiere, il commercio estero e l’acquisto di derrate compiuto dalla città, furono tutti elementi caratteristici delle città del Medioevo durante i due primi secoli della loro vita libera. Esse diventarono centri di benessere per gli abitanti, di opulenza e di civiltà, come non se ne sono più visti fino ad oggi.
Consultando i documenti che permettono di stabilire le tariffe di compenso del lavoro, comparandole ai prezzi delle derrate – come ha fatto Thorold Rogers per l’Inghilterra e moltissimi altri scrittori tedeschi per la Germania – si vedrà che il lavoro dell’artigiano e anche del semplice manovale, era remunerato a quel tempo con una tariffa che ai nostri giorni non hanno raggiunto nemmeno i più privilegiati operai. I libri dei conti dell’Università di Oxford e di certi proprietari inglesi, quelli di molte città tedesche e svizzere ne fanno testimonianza.
Le arti rifioriscono come pure aumenta la quantità del lavoro decorativo che l’operaio metteva in atto, non solo nelle opere d’arte da lui prodotte, ma nelle cose più semplici della vita domestica, quali un cancello, un candeliere, il vasellame, ecc. In questo modo l’operaio lavorava con calma: la fretta e l’ansia di produrre di oggi gli erano estranee; poteva fondere, scolpire, ricamare a suo agio, come oggi può fare solo un piccolo numero di operai-artisti.
Esaminando finalmente i doni fatti alle chiese e alle case comunali della parrocchia o della corporazione o della città, doni costituiti da pannelli decorativi, sculture, metallo fuso e lavorato, come pure doni in denaro; si comprenderà quale grado di benessere queste città avessero realizzato al loro interno; si concepirà lo spirito di ricerca e di invenzione che vi regnava, il soffio di libertà che ispirava le loro opere, il sentimento di solidarietà fraterna che si stabiliva nelle corporazioni, in cui gli uomini dello stesso mestiere erano uniti non solo dall’aspetto tecnico del mestiere, ma da legami di socievolezza e di fratellanza. Non dipendeva infatti dalla legge della corporazione, che due confratelli vegliassero al letto di un confratello malato, cosa che in quei tempi di malattie contagiose e di peste, richiedeva molta abnegazione: oppure seguirlo fino alla tomba prendendosi cura della vedova e dei figlioletti.
La miseria nera, l’avvilimento, l’incertezza del domani per i più, l’isolamento nella povertà che caratterizza le nostre città, erano assolutamente sconosciuti in queste “oasi libere sorte nel XII secolo, nel bel mezzo della foresta feudale”.
In queste città, protetta dalle libertà conquistate, sotto l’influsso dello spirito del libero accordo e della libera iniziativa, sorge una nuova civiltà, che raggiunge una tale espansione che fino ai nostri giorni non è possibile trovarne di simile nella storia.
Tutta l’industria moderna proviene da quelle città. In tre secoli, le industrie e le arti raggiungono una tale perfezione che il nostro secolo non ha saputo superare, tranne che per quanto riguarda la rapidità della produzione, ma raramente riguardo la qualità e più raramente ancora riguardo la bellezza del prodotto. Tutte le arti, che vivamente ci sforziamo oggi di risuscitare: la bellezza di Raffaello, l’audacia e la robustezza di Michelangelo, la scienza e l’arte di Leonardo da Vinci, la poesia e la lingua di Dante, l’architettura alla quale dobbiamo le cattedrali di Laon, Reims, Colonia, delle quali, come ben disse Victor Hugo “il popolo fu l’artefice”, i tesori di bellezza di Firenze e di Venezia, i palazzi di città di Brema e di Praga, i tesori di Norimberga e di Pisa, e così di seguito all’infinito, tutto ciò fu prodotto in quell’epoca.
Per rendersi conto del progresso di questa civiltà, basta paragonare la cattedrale di San Marco a Venezia con l’arco rustico dei Normanni, i quadri di Raffaello con i ricami e i tappeti di Bayeux, gli strumenti matematici e fisici e gli orologi di Norimberga con gli orologi a sabbia dei secoli precedenti, la lingua sonora di Dante col barbaro latino del secolo X. Un nuovo mondo si trova tra i due.
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Mai, se si eccettua l’altro periodo glorioso delle città libere della Grecia antica, l’umanità aveva fatto un tale passo avanti; mai in appena tre secoli, l’uomo aveva subito una trasformazione così profonda, né esteso tanto il suo potere sulle forze della natura…
Facendo correre il pensiero, per analogia, alla civiltà del nostro secolo, di cui non facciamo altro che vantarci, in ogni sua manifestazione quest’ultima non è che la figlia della civiltà sviluppatasi in seno ai comuni liberi. Tutte le grandi scoperte compiute dalla scienza moderna: il compasso, l’orologio, la stampa, le scoperte marittime, il pendolo, le leggi della caduta dei corpi, la pressione dell’atmosfera (di cui la locomotiva non è che un’applicazione), i rudimenti della chimica, il metodo scientifico indicato da Ruggero Bacone e praticato nelle università italiane; tutto ciò proviene dalle città libere, dalla civiltà che si sviluppò all’ombra delle libertà comunali.
Alcuni mi accuseranno di dimenticare i conflitti e le lotte intestine, dei quali è piena la storia di questi comuni, i tumulti nelle strade, le battaglie accanite sostenute contro i signori, le insurrezioni delle “arti giovani” contro le “arti antiche”, il sangue versato e le rappresaglie sviluppatesi da queste lotte…
Ebbene io non dimentico nulla, ma, come Carlo Botta, lo storico dell’Italia medievale, come Sismondi, Giuseppe Ferrari, Gino Capponi e tanti altri, mi accorgo che queste lotte furono la garanzia stessa della vita libera nelle città libere, vi vedo un rinnovarsi di vita, un nuovo slancio verso il progresso dopo ciascuna di queste lotte. Dopo avere esaminato nei particolari queste lotte e questi conflitti, dopo aver misurato così l’immensità dei progressi realizzati mentre essi insanguinavano le strade – il benessere assicurato a tutti gli abitanti, la civiltà rinnovata – Botta concludeva con questo pensiero che così spesso mi viene in mente:
“Un comune non presenta l’immagine di un insieme morale, non si mostra universale nella sua maniera d’essere, come lo spirito umano stesso, che quando ha accolto in sé il conflitto, l’opposizione”.
Il conflitto, liberamente dibattuto, senza che un potere esterno, come lo Stato, intervenga per gettare il suo immenso peso nella bilancia a favore d’una delle forze in lotta, è un fatto positivo.
Come il precedente autore, io penso pure che “si sono spesso causati mali maggiori imponendo la pace, perché si vuole allevare insieme cose contrastanti, in vista di creare un ordine politico generale, sacrificando le individualità e i piccoli organismi che finiscono assorbiti in un vasto corpo senza colore e senza vita”.
Ecco perché i comuni, finché non cercarono da se stessi di diventare Stato, finché non cercarono d’imporre intorno a loro la sottomissione “in un vasto corpo senza colore e senza vita”; si svilupparono, uscirono ringiovaniti da ogni lotta e rifiorirono al cozzo delle armi nelle strade; mentre, dopo due secoli, questa stessa civiltà si disgregava al rumoreggiare delle guerre fatte dallo Stato.
Nel comune la lotta era per la conquista ed il mantenimento della libertà dell’individuo, per il principio federativo, per il diritto di unirsi e di lavorare; le guerre volute dagli Stati avevano lo scopo di annientare questa libertà, sottomettere l’individuo, nullificare il libero accordo, unire gli uomini sotto la stessa schiavitù di fronte al re, al giudice, al prete, allo Stato.
Qui risiede tutta la differenza. Vi sono lotte e conflitti che uccidono, ve ne sono che spingono avanti l’umanità.
VI
Nel corso del XVI secolo, i barbari moderni distrussero questa civiltà delle città medievali, ma non riuscirono ad annientarla. Tuttavia, ne impedirono il progredire per due o tre secoli e la indirizzarono verso un nuovo sviluppo.
Costoro assoggettarono l’individuo, gli tolsero ogni libertà, gli imposero di dimenticare le unioni che prima aveva basato sulla libera iniziativa e sul libero accordo, il loro scopo era quello di livellare l’intera società sotto il dominio dello stesso padrone. Distrussero i legami tra gli uomini, dichiarando che solo lo Stato e la Chiesa dovevano per il futuro formare l’unione dei sudditi, che solo la Chiesa e lo Stato avevano la missione di tutelare gli interessi industriali, commerciali, giudiziari, artistici, passionali, per i quali gli uomini del XII secolo si erano regolati direttamente.
Questi barbari si identificano nello Stato: la Triplice alleanza, finalmente costituitasi del capo militare, del giudice romano e del prete. I tre formarono una mutua associazione per dominare, uniti dalla stessa potenza che per il futuro comanderà in nome degli interessi della società, schiacciandola e distruggendola.
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Naturalmente ci si può chiedere come mai questi barbari abbiano potuto avere ragione dei comuni già così potenti, e da dove attinsero la forza per portare a compimento tale conquista?
Questa forza essi la trovarono dapprima nel villaggio di campagna. Non diversamente dai comuni della Grecia antica, i quali non riuscirono ad abolire la schiavitù, i comuni del Medioevo non avevano potuto emancipare il contadino dalla schiavitù, cosa che invece avevano fatto per il cittadino.
È vero che, in un certo senso, accanto alla propria emancipazione, artigiano e coltivatore al tempo stesso, aveva cercato di trascinare le campagne per farsi aiutare nella propria opera di emancipazione. In Italia, in Spagna, in Germania, durante due secoli, i cittadini sostennero una guerra accanita contro i feudatari, nella quale i borghesi dettero prova di eroismo e di perseveranza. Essi si facevano uccidere per impadronirsi dei castelli feudali e abbattere la foresta feudale che li circondava.
Ma non ci riuscirono che a metà. Stanchi della lotta conclusero finalmente la pace, sacrificando la testa del contadino, il quale rimase in balia del signorotto al di fuori del territorio conquistato dal comune. In Italia e in Germania anzi finirono per accettare il signore semiborghese tra di loro, a condizione che fissasse la sua residenza nel comune, in altre parole finirono per partecipare al suo dominio sopra i contadini. I signori da parte loro si vendicarono di questa plebe odiata e disprezzata, insanguinando le strade della città con le lotte e le vendette di famiglia, le cui questioni non potevano essere portate davanti al sindaco e ai giudici comunali, ma dovevano decidersi col ferro sulla strada, lanciando una parte degli abitanti dei comuni contro l’altra.
I signori infine portarono la demoralizzazione in mezzo al popolo, con i loro sfarzi e i loro intrighi, con le loro abitudini signorili e con la loro educazione ricevuta alla corte del vescovo o del re. Finirono per rendere il popolo solidale nelle loro lotte; in questo modo il borghese finì per imitare il signore, diventando signore a sua volta, diventando ricco sul lavoro dei servi e dei contadini.
A seguito di ciò i contadini finirono per prestare naturalmente man forte ai re, agli imperatori, agli zar nascenti, ai pari, quando costoro si diedero a costruire i loro reami per dominare la città. Dove non si misero ai loro ordini li lasciarono indisturbati.
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Fu così che la monarchia si venne lentamente formando nella campagna, nei castelli situati in mezzo a popolazioni campagnole. Nel XII secolo essa non esisteva che di nome, e noi oggi sappiamo bene ciò che si può pensare di quei pezzenti, capi di piccole bande di briganti, i quali si fregiavano del nome di re, il quale del resto – come ha ben dimostrato Augustin Thierry – non voleva dire gran cosa a quell’epoca.
Lentamente, procedendo per tentativi, un barone più potente o più furbo degli altri, riusciva ad elevarsi al di sopra degli altri. La Chiesa si affrettava subito a sostenerlo e così con la forza, con l’astuzia, col denaro, con la spada e in caso di bisogno col veleno, uno di questi baroni feudali s’ingrandiva alle spalle degli altri. Ma l’autorità regale non riuscì mai a stabilirsi nelle città libere che avevano il loro foro chiassoso, la loro rupe Tarpea, o il loro fiume per i tiranni, essa si fondò sempre sulle campagne.
Dopo avere invano tentato di costituirsi a Reims o a Lione, questa autorità regale si formò invece a Parigi – agglomerazione di villaggi e di borghi circondati da ricche campagne che non avevano conosciuto la vita delle città libere; e si formò a Westminster, alle porte della popolosa Londra; al Cremlino, costruito in mezzo ai ricchi villaggi sulla riva della Moscova, dopo aver fallito a Souzdal e a Vladimir; mai però riuscì a formarsi a Novgorod o a Pskov, a Norimberga o a Firenze.
I contadini dei dintorni fornirono ai nuovi re il grano, i cavalli e gli uomini, mentre il commercio – regale e non comunale – aumentò le loro ricchezze. La Chiesa li circondò delle sue cure, li protesse, venne loro in aiuto con i suoi tesori, inventò il santo protettore della località e i suoi miracoli.
Circondò della sua venerazione Nostra Signora di Parigi e la Vergine di Spagna a Mosca. Mentre la civiltà delle città libere, emancipate dai vescovi, perdeva il suo slancio giovanile, la Chiesa lavorò tenacemente a ricostruire la sua attività per mezzo del principato allora nascente, circondandolo di cure, di omaggi e di denaro, vegliando sulla culla della famiglia di chi aveva scelto a ripristinare finalmente la propria autorità. A Parigi, a Mosca, a Madrid, a Praga, essa era china sulla culla della monarchia con una fiaccola in mano.
Restava nella sua impresa, forte nella sua educazione statalista, pratica dell’intrigo e del diritto romano e bizantino, diretta incessantemente verso il suo ideale: il re israelita, assoluto, il quale però obbedisca al gran sacerdote e non altro sia che il braccio secolare del potere ecclesiastico.
Nel XVI secolo, questo lento lavoro dei due congiurati è già in pieno vigore. Un re domina altri baroni, suoi rivali, e questa forza piomberà sulle città libere schiacciandole.
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D’altro canto, le città del XVI secolo, non erano più quelle dei secoli XII, XIII e XIV.
Benché nate dalla rivoluzione libertaria, non avevano più il coraggio di propagare le loro idee di uguaglianza nelle campagne vicine, e nemmeno fra coloro che erano venuti più tardi a stabilirsi all’interno dei recinti comunali, asilo di libertà, al fine di impiantarvi le arti industriali.
In tutte le città si riscontra una distinzione tra le vecchie famiglie che avevano fatto la rivoluzione del XII secolo – dette “le famiglie” – e quelle che erano venute a stabilirsi più tardi nelle città. La vecchia “gilda dei mercanti” non intende ricevere i nuovi venuti e rifiuta di incorporare le “arti giovani” per il commercio. In questo modo da semplice intermediaria nel commercio estero, quando si limitava a fare da tramite per conto dei cittadini, diventa interessata in proprio, importa il fasto orientale e più tardi si allea col signore borghese o col prete, oppure cerca appoggio presso la nascente potestà regale per mantenere il suo diritto all’arricchimento e al monopolio. Diventato personale il commercio uccide la città libera.
Le gilde degli antichi mestieri, che costituirono al suo inizio il governo della città, non vogliono riconoscere gli stessi diritti alle gilde giovani, formate successivamente dai mestieri più giovani. Costoro debbono conquistarsi i loro diritti per mezzo della rivoluzione. Ed è proprio questa che attuano dappertutto. Ma, se questa rivoluzione diventa quasi sempre, il punto di partenza di un rinnovamento di tutta la vita e di tutte le arti (come ben si vede a Firenze), spesso, in altre città, essa finisce con la vittoria del popolo grasso sul popolo basso, attuata con le oppressioni, le deportazioni in massa e le esecuzioni, specialmente quando se ne immischiano i signori e i preti.
Il re prenderà la difesa del popolo basso quando vorrà schiacciare il popolo grasso e approfittando della contesa tra i due, rendersi padrone della città.
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Le stesse città però, erano destinate a morire, in quanto le idee degli uomini erano cambiate. L’insegnamento del diritto canonico e del diritto romano le aveva pervertite.
L’europeo del XII secolo era essenzialmente federalista. Uomo di libera iniziativa, di libera intesa, di unioni spontanee e liberamente consentite, egli vi vedeva il punto di partenza di tutta la società. Non cercava la sua salvezza nell’obbedienza, non domandava un salvatore della società. L’idea di disciplina, cristiana o romana, gli era sconosciuta.
Ma sotto l’influenza della Chiesa cristiana, desiderosa d’autorità e, soprattutto, gelosa nell’imporre la sua dominazione sulle anime e sulle braccia dei fedeli; sotto l’influenza del diritto romano che già nel XII secolo era entrato alla corte dei potenti signori, re e papi, diventando ben presto lo studio favorito nelle università; sotto l’influenza di questi due insegnamenti che vanno così bene d’accordo benché nemici accaniti alla loro origine; gli spiriti si corrompettero e si depravarono, via via che il prete e il legislatore prendevano il potere.
L’uomo divenne amante dell’autorità. Quando una rivoluzione delle arti basse si verificava in un comune, questo chiamava un salvatore, si dava un dittatore, un Cesare municipale, al quale accordava pieni poteri per sterminare il partito opposto. Questi ne approfittava, con tutte le raffinatezze della crudeltà suggerite dalla Chiesa e dagli esempi dei reami dispotici dell’Oriente.
La Chiesa lo favoriva e l’appoggiava. Essa ha sempre inseguito il sogno del re biblico che s’inginocchia davanti al grande sacerdote, diventandone il docile strumento. Essa ha odiato con tutte le sue forze le idee di razionalismo che si sviluppavano nelle città libere del primo rinascimento (quello del XII secolo) e, pertanto, odiava anche le idee “pagane”, che sotto l’influenza della nuova scoperta della civiltà greca, riconducevano l’uomo alla natura; le idee che più tardi, in nome del cristianesimo primitivo, solleveranno gli uomini contro il papa, il prete e il culto in generale. Il fuoco, la ruota, la forca, queste armi così care in ogni tempo alla Chiesa, furono messe in opera contro gli eretici. Quale che sia stato lo strumento esecutore: papa, re o dittatore, poco importava. Ad essa bastava che il fuoco, la ruota e la forca funzionassero contro gli eretici!
E intanto, sotto questo doppio addomesticamento operato dal legislatore romano e dal prete, lo spirito federalista, lo spirito d’iniziativa e di libero accordo si spegneva per dare posto allo spirito di disciplina e di organizzazione autoritaria. Tanto il ricco che il plebeo desideravano un salvatore.
E quando questi si presentava, quando il re, arricchitosi lontano dal rumore del foro, in qualche città da lui creata, con l’appoggio della Chiesa ricchissima e seguito dai nobili conquistati e dai contadini, bussò alle porte delle città libere, promettendo al popolo basso la sua alta protezione contro i ricchi e ai ricchi obbedienti la sua protezione contro i poveri insorti, la città, rosa dal cancro dell’autorità, non ebbe più la forza di resistergli.
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Da canto loro i Mongoli, nel XIII secolo, avevano conquistato e devastato l’Europa Orientale e un impero si veniva formando a Mosca sotto la protezione del Can dei Tartari e della Chiesa cristiana russa. I Turchi si erano stabiliti in Europa spingendosi nel 1453 fin sotto Vienna, devastando tutto al loro passaggio. Stati potenti si costituivano in Polonia, Boemia, Ungheria, al centro dell’Europa… All’altra estremità europea, la guerra di sterminio condotta contro i Mori in Spagna, permetteva ad un altro impero potente di costituirsi, in Castiglia ed Aragona, con l’appoggio della Chiesa romana che metteva al suo servizio l’Inquisizione.
Queste invasioni e queste guerre portarono forzatamente l’Europa in una nuova fase storica, quella degli Stati militari.
Gli stessi comuni divennero dei piccoli Stati, per la qual cosa doveva necessariamente accadere che i piccoli Stati fossero inghiottiti dai grandi.
VII
La vittoria dello Stato sui comuni e sulle istituzioni federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata da sembrare messa in dubbio.
Un immenso movimento popolare – religioso rispetto alla forma e all’espressione, ma sostanzialmente ugualitario e comunista quanto alle aspirazioni – si produsse nelle città e nelle campagne dell’Europa centrale.
Già nel XIV secolo (nel 1358 in Francia e nel 1381 in Inghilterra), due grandi movimenti tra loro simili si erano sviluppati. Le due potenti insurrezioni della Jacquerie e di Wat Tyler, avevano scosso la società fin dalle fondamenta. Tutte e due queste insurrezioni, erano dirette contro i signori. Benché entrambe vinte, la sollevazione dei contadini d’Inghilterra aveva posto fine alla servitù, mentre la Jacquerie in Francia l’aveva talmente ostacolata nel suo sviluppo che da quel momento essa non poté fare altro che vegetare senza mai raggiungere la forma e lo sviluppo che invece arrivò a toccare in Germania e nell’Europa Orientale.
Un movimento simile si andava sviluppando nel centro dell’Europa, sotto il nome di movimento hussita in Boemia, di anabattismo in Germania, in Svizzera e nei Paesi Bassi, e di tempi sconvolti in Russia (nel secolo seguente); esso oltre alla rivolta contro i signori, concretizzava una rivolta contro lo Stato e contro la Chiesa, contro il diritto romano e canonico in nome del cristianesimo primitivo.
Questo movimento, per tanto tempo male interpretato dagli storici dello Stato e della Chiesa, comincia oggi ad essere capito più profondamente.
La libertà assoluta dell’individuo, che non deve obbedire che alla propria coscienza e il comunismo, furono le parole d’ordine di questa insurrezione. Solo più tardi, dopo che lo Stato e la Chiesa, riuscirono a sterminare i suoi ferventi partigiani, e a sfruttare il movimento a proprio profitto, rimpicciolito e privato dal suo carattere rivoluzionario, esso divenne la riforma di Lutero.
L’insurrezione cominciò con l’anarchismo comunista, predicato e messo in pratica in alcune località. Se si passa sopra alle formule religiose, che furono un tributo reso all’epoca, vi si può trovare l’essenza stessa della corrente di idee che noi rappresentiamo in questo momento: la negazione di tutte le leggi dello Stato e delle leggi divine; il comune, padrone assoluto dei suoi destini, che riprende ai signori tutte le terre e rifiuta ogni pagamento di tributi allo Stato; il comunismo infine e l’uguaglianza messa in pratica. Così, quando si chiedeva ad Hans Denck, uno dei pensatori del movimento anabattista, se riconoscesse l’autorità della Bibbia, egli rispondeva soltanto che la regola di condotta che ognuno trova da sé nella Bibbia, solo quella, è obbligatoria. Tuttavia, queste formule stesse, così vaghe, prese a prestito dal gergo ecclesiastico, questa autorità del “libro”, alla quale si richiedono gli argomenti favorevoli e contrari al comunismo o favorevoli e contrari all’autorità; questa indecisione quando si tratta di fare precise affermazioni di libertà, questa tendenza religiosa, non poteva non racchiudere in se stessa la sicura sconfitta del movimento stesso.
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Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire a chiunque e, montando una vecchia scarpa su di una picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre ai signori, spezzavano i legami della servitù, scacciavano prete e giudice e si costituivano in comune libero. Solo a mezzo del rogo, della ruota e della forca, a mezzo di massacri di centinaia di migliaia di contadini, compiuti in pochi anni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesa papale o riformata – giacché Lutero incitava al massacro dei contadini ancora più violentemente dello stesso papa – mise fine a questo movimento che aveva per un istante minacciato la costituzione dei nascenti Stati.
Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo luterano, appoggiato dallo Stato, massacrò il popolo e schiacciò il movimento dal quale aveva avuto origine. I resti di quest’immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei “Fratelli Moravi”, le quali, a loro volta, furono, circa un secolo dopo distrutte dalla Chiesa e dallo Stato.
I superstiti di questo sterminio andarono a cercare asilo, alcuni a Sud-est della Russia, altri in Groelandia, dove continuarono a vivere, fino ai nostri giorni, rifiutando di rendere qualsiasi servizio allo Stato.
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Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza. Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, costituiti in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d’ora innanzi, compiere la loro opera di distruzione.
Moltissime, su questo periodo, sono le menzogne accumulate dagli storici stipendiati dallo Stato.
Abbiamo tutti appreso a scuola, per esempio, che lo Stato aveva reso il grande servizio di costruire, sulla rovina della società feudale, le unioni nazionali, rese precedentemente impossibili dalle rivalità cittadine. L’abbiamo imparato a scuola e quasi tutti lo crediamo nell’età matura.
Invece oggi possiamo capire che malgrado tutte le loro rivalità, le città medievali avevano lavorato, durante quattro secoli, a costruire queste unioni per mezzo della federazione volontaria, liberamente consentita e, in pratica, vi erano riusciti.
L’unione lombarda, ad esempio, comprendeva le città dell’alta Italia, e aveva la sua cassa federale custodita a Genova e a Venezia. Altre federazioni coprivano l’Europa, quale l’unione toscana, l’unione renana (che comprendeva sessanta città), le federazioni della Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia, delle città russe. Nello stesso tempo l’unione commerciale dell’Hansa, comprendeva le città scandinave, tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi di larghe agglomerazioni umane liberamente organizzate.
La prova vivente di tali raggruppamenti si può vedere in Svizzera. L’unione, in questo Paese, si affermò dapprima fra i comuni di villaggio (i vecchi cantoni), non diversamente essa si costituì in Francia, nello stesso periodo, nel lionese. E poiché in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio non fu mai così profonda come le città lontane commerciali, accadde che le città prestarono man forte all’insurrezione dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che l’unione risultasse più forte e si mantenesse fino ai giorni nostri.
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Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare la federazione libera, che rappresenta una cosa orrenda per l’uomo di legge: “lo Stato nello Stato”. Lo Stato non riconosce un’unione liberamente consentita che funzioni nel suo seno, esso non riconosce che sudditi, per cui soltanto esso, insieme alla Chiesa, può accampare il diritto di servire da unione tra gli uomini.
Conseguentemente lo Stato deve per forza distruggere le città basate sull’unione diretta tra i cittadini; deve abolire ogni unione nella città, abolire la città stessa, sostituire, infine, al principio federativo il principio di sottomissione e di disciplina. Questa è la sostanza stessa dello Stato, senza tale principio esso cesserebbe di vivere.
Il XVI secolo, secolo di massacri e di guerre, si riassume interamente in questa lotta dello Stato nascente, contro le città libere e le loro federazioni. Le città vengono assediate, prese d’assalto, date al saccheggio, i loro abitanti decimati ed espulsi.
Lo Stato riporta vittoria su tutta la linea. Ed eccone le conseguenze.
Nel XV secolo l’Europa era coperta di ricche città, i cui artefici, muratori, tessitori, cesellatori, producevano meravigliose opere d’arte; le cui università ponevano le fondamenta della scienza, le cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toccavano tutti i mari e i fiumi.
Due secoli dopo ben poco resta di tutto questo. Città che avevano fino a cinquanta e centomila abitanti, che avevano posseduto – come Firenze – più scuole e più letti d’ospedale per abitante di quelli oggi posseduti da città sotto questo rapporto meglio fornite, sono diventate borgate in rovina. Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Stato si impadronisce delle loro ricchezze. L’industria, sotto la tutela minuziosa degli impiegati dello Stato, si spegne. Il commercio, muore. Le strade stesse che una volta collegavano queste città tra loro, diventano assolutamente impraticabili nel XVII secolo.
Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa, finendo di rovinare le città che lo Stato non ha rovinato direttamente.
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Nemmeno i villaggi guadagnarono qualcosa dalla concentrazione statale. Leggendo ciò che riportano gli storici sulla vita di campagna della Scozia, della Toscana, della Germania, nel XIV secolo, paragonando queste descrizioni con quelle della miseria in Inghilterra all’approssimarsi del 1648, in Francia sotto il “Re Sole” Luigi XIV, in Germania, in Italia, dappertutto, dopo cento anni di dominazione statale; si ha un’idea di questo processo.
La miseria dappertutto. Tutti sono unanimi nel riconoscerla, nel segnalarla. Dove la servitù era stata abolita, viene ricostituita sotto mille forme nuove, dove non era stata ancora distrutta essa si modella sotto l’egida dello Stato, in un’istituzione feroce, la quale conserverà tutti i caratteri della schiavitù antica, forse peggio.
E che cosa poteva venire fuori, se la prima preoccupazione dello Stato fu quella di annientare, dopo la città, il comune di villaggio, di distruggere tutti i legami che esistevano tra i contadini, di abbandonare le loro terre al saccheggio dei ricchi, di sottometterli individualmente al funzionario, al prete, al signore?
VIII
Annientare l’indipendenza delle città, saccheggiare le ricche corporazioni di mercanti e di artigiani, accentrare nelle proprie mani il commercio esterno delle città e rovinarlo, impadronirsi di tutta l’amministrazione interna delle gilde e sottomettere il commercio interno nonché la fabbricazione di ogni cosa ad un nugolo di funzionari; uccidere in questo modo le arti e l’industria, impadronirsi delle milizie locali e di tutta l’amministrazione municipale, schiacciare il debole a vantaggio del forte a mezzo delle imposte, rovinare i Paesi con le guerre: questi furono i compiti dello Stato nascente nei secoli XVI e XVII e questa la sua attività di fronte alle agglomerazioni cittadine.
La stessa tattica, evidentemente, fu adottata nei confronti dei villaggi e dei contadini. Non appena lo Stato si sentì forte, s’affrettò a distruggere il comune di villaggio, a rovinare i contadini liberi caduti in sua balìa, a mettere le terre comunali a saccheggio.
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Gli storici e gli economisti a servizio dello Stato ci hanno insegnato che il comune di villaggio, diventato una forma superata di possesso del suolo, una forma che ostacolava i progressi dell’agricoltura, dovette sparire sotto l’azione delle forze economiche naturali. I politici e gli economisti borghesi non si stancano anche oggi di ripeterlo, e vi sono perfino dei rivoluzionari e dei socialisti – quelli che pretendono di chiamarsi scientifici – che recitano questa favola convenzionale imparata a scuola.
Ebbene, la scienza non ha mai affermato più odiosa menzogna. E menzogna voluta, in quanto la storia abbonda di documenti per provare a chi vuole conoscerli – per la Francia, ad esempio, basterebbe consultare M. D. Dalloz – per provare, dicevamo, come il comune di villaggio fu dapprima spogliato dallo Stato di tutte le sue attribuzioni, della sua indipendenza, del potere giuridico e legislativo e, in seguito, le sue terre furono o rubate senza colpo ferire dai ricchi, sotto la protezione dello Stato, oppure direttamente confiscate dallo Stato stesso.
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In Francia, il saccheggio cominciò nel XVI secolo e continuò, sempre in aumento, fino al secolo successivo. A cominciare dal 1659, lo Stato prendeva i comuni sotto la sua alta tutela, basterebbe consultare l’editto emanato da Luigi XIV nel 1667, per prendere conoscenza di quale saccheggio di beni comunali fosse caratterizzata l’epoca. “Ognuno si è regolato secondo il suo interesse… sono stati divisi… per spogliare i comuni si è fatto uso di debiti simulati” – diceva il “Re sole” – in quell’editto… e due anni dopo confiscava a proprio profitto tutte le rendite dei comuni. Ciò è quello che nel linguaggio cosiddetto scientifico si chiama “morte naturale”.
Nel secolo seguente, si ritiene che la metà circa delle terre comunali caddero sotto la protezione dello Stato, dei nobili e del clero. Eppure fino al 1787 il comune continuò ad esistere. L’assemblea del villaggio si radunava sotto l’olmo tradizionale, assegnava le terre, ripartiva le tasse. I documenti relativi si trovano in Albert Arsène Babeau, Le Village sous l’ancien régime. Turgot, nella provincia di cui era intendente, aveva però trovato troppo numerose le assemblee di villaggio e le aveva abolite nella sua intendenza per sostituirvi delle assemblee elette fra i maggiorenti del villaggio. Tale misura venne resa generale dallo Stato nel 1787, alla vigilia della Rivoluzione. Il mir (comune di villaggio) fu abolito e gli affari decaddero così nelle mani di sindaci eletti tra i più ricchi borghesi e contadini.
La Costituente si affrettò a confermare questa legge nel dicembre del 1789 e i borghesi si sostituirono allora ai signori per spogliare i comuni di ciò che restava loro delle terre comunali. Furono necessarie insurrezioni su insurrezioni per convincere la Convenzione, nel 1793, a ratificare ciò che i contadini insorti avevano compiuto nella parte orientale della Francia. La Convenzione ordinò cioè che le terre comunali venissero restituite ai contadini – cosa che si attuò solo dove essa era già stata attuata dalle insurrezioni. Purtroppo è questa la sorte di tutte le leggi rivoluzionarie che entrano in vigore solo nel posto dove il fatto è già stato compiuto.
Tuttavia la legislazione è riuscita a mettere il suo piede borghese anche in questo. Ordinò infatti che le terre prese ai signori venissero divise in parti uguali tra i “cittadini attivi” soltanto, cioè fra i borghesi del villaggio. In questo modo, con un tratto di penna, venivano spogliati i “cittadini passivi”, cioè la massa dei contadini impoveriti, i quali avevano maggiormente bisogno di quelle terre comunali. In seguito, fortunatamente, abbiamo nuove sommosse e una nuova legge della Convenzione, la quale autorizza, nel 1793, la divisione delle terre fra tutti gli abitanti, cosa che non fu mai fatta ma che diede pretesto a nuovi ladrocini compiuti a danno delle terre comunali.
Queste misure sarebbero state più che sufficienti a determinare quello che i signori chiamano “morte naturale” del comune. Eppure, quest’ultimo, continuava a sopravvivere; tanto è vero che il 24 agosto 1794, la reazione, giunta al potere, effettuò il gran colpo. Lo Stato confiscò tutte le terre dei comuni e le mise a garanzia del debito pubblico, mettendole all’asta e consegnandole alle proprie creature, cioè ai termidoriani.
Il 2 aprile, anno V, dopo tre anni di saccheggio, questa legge fu fortunatamente abrogata. Contemporaneamente venivano aboliti i comuni e sostituiti con i consigli cantonali, affinchè lo Stato potesse più facilmente introdurvi le sue creature. Ciò durò fino al 1801, quando i comuni di villaggio furono ripristinati; ma allora il governo s’incaricò esso stesso di nominare i sindaci in ciascuno dei 36.000 comuni! Tale assurdità si prolungò fino alla rivoluzione del luglio 1830, dopo la quale la legge del 1789 venne rimessa in vigore. Nel frattempo, le terre comunali vennero nuovamente confiscate per intero dallo Stato nel 1813 e saccheggiate di nuovo per un periodo di tre anni. Quello che ne rimase venne restituito ai comuni nel 1816.
Non era ancora finita. Ogni nuovo regime vedeva nelle terre comunali una fonte di compenso per i propri partigiani. Così dal 1830, per tre volte di seguito – la prima volta nel 1837 e l’ultima sotto Napoleone III – furono fatte delle leggi per costringere i contadini a dividere ciò che loro restava delle foreste e dei pascoli comunali; e per tre volte lo Stato fu costretto ad abrogare queste leggi a causa della resistenza dei contadini. Tuttavia Napoleone III ne seppe approfittare per carpire qualche larga proprietà e farne dono ad alcune sue creature.
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Questi sono fatti. Ciò che i Signori chiamano, in linguaggio scientifico, la “morte naturale” del possesso comunale, “sotto l’influenza delle leggi economiche”. Tanto varrebbe chiamare morte naturale il massacro di centomila soldati sui campi di battaglia!
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Ciò che avvenne in Francia, avvenne pure in Belgio, in Inghilterra, in Germania, in Austria, dappertutto in Europa, ad eccezione dei Paesi slavi.
Perfino le epoche di recrudescenza nel saccheggio comunale si corrispondono nell’Europa occidentale. Solo i sistemi cambiano. In Inghilterra non si ricorse a misure generali, si preferì far passare in Parlamento qualche migliaio di enclosure acts, separati, per mezzo dei quali, caso per caso, il Parlamento sanzionò la confisca e conferì al Signore il diritto di conservare il possesso delle terre comunali che avesse circondato di un recinto. Benché abbia rispettato fino ad oggi i solchi ristretti che dividevano temporaneamente i campi comunali delle diverse famiglie del villaggio in Inghilterra, benché abbiamo nei libri di un certo Marshall delle descrizioni precise di questa forma di possesso al principio del XIX secolo, non mancano dei dotti, come Frederic Seebohm, degno emulo di Numa-Denis Fustel de Coulanges, i quali vogliono sostenere ed insegnare che il comune non è mai esistito in Inghilterra altro che come forma di servitù.
In Belgio, in Germania, in Italia, in Spagna, noi ritroviamo gli stessi metodi. In un modo o nell’altro l’appropriazione personale delle terre comunali è quasi un fatto compiuto verso la metà del XIX secolo. Delle antiche estensioni delle terre comunali, i contadini non possiedono che dei brandelli.
Ecco il modo tenuto da questa associazione tra signore, prete, soldato, giudici, associazione che si solidifica nello Stato, per spogliare i contadini della loro ultima garanzia contro la miseria e l’asservimento economico.
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Ma lo Stato mentre organizzava e sanciva tale saccheggio, avrebbe almeno potuto rispettare l’istituzione del comune come organo di vita locale? Ciò evidentemente non era possibile.
Ammettere che dei cittadini possano costituire fra loro una federazione capace di impadronirsi di qualcuna delle funzioni dello Stato, sarebbe stata una vera contraddizione in termini. Lo Stato chiede ai suoi sudditi la sottomissione diretta, personale, senza intermediari; lo Stato vuole l’uguaglianza nella servitù e non può ammettere “lo Stato nello Stato”.
Cosicché, da quando lo Stato cominciò a costituirsi nel XVI secolo, non fece altro che distruggere tutti i vincoli di unione che esistevano tra i cittadini, sia nella città, sia nel villaggio. Se tollerava, sotto il nome di istituzione municipale, qualche vestigia d’autonomia, non tollerava mai un segno di indipendenza. L’autonomia era tollerata unicamente per scopi fiscali, per sgravare d’altrettanto il bilancio centrale; oppure per permettere ai pezzi grossi della provincia di arricchirsi a spese del popolo, come è avvenuto, appunto, in Inghilterra in questi ultimi anni e accade ancora nelle istituzioni e nei costumi. Ciò si comprende facilmente. La vita locale è fatta di diritto d’usanza, mentre la centralizzazione dei poteri è di diritto romano. I due diritti non possono vivere insieme: l’uno deve uccidere l’altro.
Per questo in Algeria, sotto il regime francese, quando una djemmah kabila, un comune di villaggio, vuole assumere la difesa delle sue terre, ogni abitante del comune deve querelarsi isolatamente davanti ai tribunali, i quali giudicheranno cinquanta o duecento questioni isolate, piuttosto che accettare la querela collettiva del comune. Il Codice giacobino della Convenzione (conosciuto sotto il nome di Codice Napoleonico) non riconosce il diritto d’usanza: riconosce soltanto il diritto romano o per meglio dire, il diritto bizantino.
È per questo che in Francia, quando il vento ha schiantato un albero sulla strada nazionale, oppure un contadino, non volendo fare lui stesso il lavoro per la riparazione di una strada comunale, preferisce pagare due o tre lire al tagliapietre, occorre che dieci o quindici impiegati del Ministero degli Interni e delle Finanze siano messi in moto e che più di cinquanta fogli siano scambiati tra questi austeri funzionari, prima che l’albero possa essere venduto o che il contadino riceva il permesso di versare i suoi due o tre franchi alla cassa del comune.
Chi volesse documentarsi su questi cinquanta fogli, li troverà elencati in uno studio del Tricoche, nel “Journal des Economistes” dell’aprile 1893, p. 94.
Ciò naturalmente sotto la Terza repubblica, in quanto non parlo dei sistemi barbari dell’antico regime, che si limitavano a cinque o sei cartacce tutt’al più. In questo modo i dotti vi diranno che in quell’epoca barbara il controllo dello Stato non era che apparente.
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Oltre a ciò bisogna dire che la cosa non si ferma là. In effetti non si tratterebbe che di circa un ventimila funzionari di troppo e un miliardo di più iscritto nel bilancio. Una bazzecola per gli innamorati dell’ordine e dei pareggiamenti!
Ma il peggio è che in fondo il principio uccide di più.
I contadini di un villaggio hanno mille interessi in comune: interessi di famiglia, di vicinato, di rapporti costanti. Essi sono necessariamente portati ad unirsi e ad intendersi per mille cose diverse. Lo Stato, invece, non può ammettere che essi si uniscano; una volta che esso dà loro la scuola e il prete, il carabiniere ed il giudice, ciò deve bastare. Se altri interessi sorgono devono passare la trafila dello Stato e della Chiesa.
Così, fino al 1883, era severamente proibito in Francia, ai contadini, di associarsi non fosse che per acquistare insieme dei concimi o per irrigare i loro campi. Solo nel 1883-1886 la Repubblica si decise ad accordare loro questo diritto, votando la legge sui sindacati, dopo una infinità di precauzioni e di ostacoli.
E noi, abbrutiti dalla nostra educazione statalista, siamo anche capaci di rallegrarci dei progressi rapidamente compiuti dai sindacalisti agricoli, senza arrossire all’idea che questo diritto di cui i contadini furono privati fin quasi ai nostri giorni, spettava nel Medioevo, senza che nessuno osasse contestarlo, ad ogni uomo libero o servo. Da schiavi quali siamo ridotti, noi consideriamo ciò una “conquista della Democrazia”.
Ecco fino a quale grado di abbrutimento siamo pervenuti con la nostra educazione falsata, viziata, corretta dallo Stato e dai nostri pregiudizi statalisti.
IX
“ – Se avete degli interessi comuni nella città o nel villaggio, chiedete allo Stato e alla Chiesa di occuparsene. Vi è impedito assolutamente di occuparvene direttamente”. Questa è la formula che risuona in tutta l’Europa dopo il XVI secolo.
“Ogni alleanza, convivenza, congregazione, capitolo e ordinanza, fatta o da fare tra carpentieri e muratori, sarà nulla o annullata”. Si legge in un editto del re d’Inghilterra Edoardo II, alla fine del XIV secolo. Ma ci volle la disfatta delle città, la sconfitta delle insurrezioni popolari di cui abbiamo parlato, perché lo Stato osasse porre la mano su tutte le istituzioni – gilde, fratellanze, ecc. – che univano tra loro gli artigiani per poi annientarle.
La cosa è chiarissima in Inghilterra, dove sono stati conservati un numero grandissimo di documenti in base ai quali si può seguire passo passo questo movimento. A poco a poco lo Stato mette la mano su tutte le gilde e fratellanze: le incalza da vicino, abolisce i loro sindaci sostituendoli con propri funzionari, abolisce i tribunali, le feste; e, all’inizio del XVI secolo, sotto Enrico VIII, lo Stato confisca senza altra forma di procedura quanto da loro posseduto. L’erede del grande re protestante finisce l’opera cominciata dal padre.
È un furto chiarissimo, senza scuse, come ha detto Thorold Rogers. Ed è proprio questo furto che gli economisti sedicenti scientifici, rappresentano come la “morte naturale” delle gilde, morte avvenuta sotto l’influenza delle leggi economiche. [Ciò fu scritto nel 1896. Adesso, la Rivoluzione iniziatasi in Russia ha compreso perfettamente ciò che bisogna fare, cioè apprendere a fare a meno dello Stato. In questo modo, la ripresa delle terre ai signori, la riduzione della giornata di lavoro, l’abolizione delle restrizioni contro le riunioni e la conquista della libertà di stampa si fanno in questo momento (dicembre 1905) attraverso il fatto, attraverso l’azione diretta – e non grazie alla legislazione statale. Per uccidere la libertà: lo Stato. Per conquistare la libertà: passare sopra lo Stato, demolirlo. (Nota di Kropotkin)].
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Lo Stato non poteva tollerare le gilde, le corporazioni dei mestieri, con i loro tribunali, le milizie, le casse, le organizzazioni giurate; era Io Stato nello Stato, e lo Stato, quello vero, doveva distruggerlo, e lo distrusse dappertutto (in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Boemia) non conservandone che le apparenze, come strumento del fisco e come parte della sua vasta macchia amministrativa.
Non c’è dunque da meravigliarsi se le gilde e le maestranze, private di tutto quello che una volta costituiva la loro vita, poste sotto l’autorità di funzionari regi, diventassero semplici ruote dell’amministrazione e non fossero più, nel secolo XVIII, che un ostacolo allo sviluppo delle industrie, mentre ne erano state la vita quattro secoli prima. Lo Stato le aveva uccise.
Ma lo Stato non poteva accontentarsi di abolire tutti gli elementi della vita libera delle associazioni di mestiere, elementi che lo imbarazzavano infrapponendosi nel suo rapporto con i sudditi; come pure non poteva solo accontentarsi di confiscare le loro casse e proprietà. Oltre al denaro doveva impadronirsi delle funzioni.
In una città del Medioevo quando gli interessi si trovavano in conflitto nello stesso mestiere, ovvero quando gilde differenti entravano in contesa, non esisteva altro giudice che la città. Era dunque necessario per i dissidenti arrivare ad un compromesso, essendo tutti reciprocamente legati nella città. La qual cosa non mancava mai di accadere, sia facendo ricorso all’arbitraggio, sia appellandosi ad un’altra città se necessario.
Ma ormai il solo arbitro era lo Stato. Tutte le dispute locali, spesso piccolissime, tipiche delle piccole città di qualche centinaio di abitanti, dovettero essere allora, sotto forma di scartafacci conservate negli archivi del re o del Parlamento. Il Parlamento inglese ne venne addirittura inondato. Divenne necessario creare nella capitale migliaia e migliaia di funzionari, la maggior parte venali, per ordinare, leggere, giudicare ogni cosa, per pronunciarsi su ciascuna minutissima particolarità e perfino per fissare il modo di fabbricare i ferri da cavallo, salare le aringhe, costruire le botti e così di seguito all’infinito… né questo fu tutto.
Ben presto lo Stato vedendo nel commercio di esportazione una considerevole fonte di guadagno se ne impadronì. Quando tra due città sorgeva una contestazione sul valore delle stoffe esportate, sulla purezza della lana o sulla capacità delle botti di aringhe, le città si facevano, l’una all’altra, le loro rimostranze. Se la contesa andava per le lunghe e non accennava a risolversi, si ricorreva ad una terza città che faceva da arbitro, oppure si convocava un congresso di gilde di tessitori o di bottai, per giudicare internazionalmente la qualità e il valore delle stoffe o la capacità delle botti.
Ora, tutte queste attribuzioni lo Stato le fece sue e, a Londra come a Parigi, per mezzo dei suoi funzionari regolava il contenuto delle botti, precisava la qualità delle stoffe, si immischiava in una parola con le sue ordinanze nei più piccoli dettagli della vita industriale.
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I risultati sono conosciuti da tutti. L’industria sotto questa tutela, nel XVIII secolo moriva.
A che cosa si era ridotta, infatti, sotto la tutela dello Stato l’arte di Benvenuto Cellini? – Scomparsa! – E l’architettura di quelle gilde di muratori e di carpentieri, quelle opere d’arte che ancora ammiriamo? Basta guardare gli orribili monumenti del periodo statale per accorgersi che l’architettura era morta, tanto morta che fino ad oggi non si è risollevata.
Che cosa divennero i tessuti di Bruges, le stoffe d’Olanda? Dove erano i fabbri così abili a maneggiare il ferro e che in ogni contrada europea sapevano adoperare questo metallo per i più squisiti ornamenti? Dove erano i tornitori, gli orologiai, gli aggiustatori che avevano fatto di Norimberga una delle glorie del Medioevo per gli strumenti di precisione? Chiedete a James Watt che per la sua macchina a vapore, cercò inutilmente per trent’anni un operaio che sapesse fare un cilindro press’a poco rotondo, e che quindi rimase per trent’anni con la sua macchina allo stato di abbozzo per mancanza di operai che la costruissero!
Tale l’opera dello Stato nel campo industriale. Tutto ciò che esso seppe fare fu: spopolare la campagna, seminare la miseria nella città, ridurre milioni di uomini allo stato di pezzenti imponendo la schiavitù industriale.
Sono i cattivi residui delle antiche gilde, degli organismi calpestati e oppressi dallo Stato, queste ruote inutili dell’amministrazione, che gli economisti, sempre “scientifici”, hanno l’ignoranza di confondere con le gilde del Medioevo. Ciò che la Grande Rivoluzione spazzò via come nociva all’industria, non fu la gilda e neppure l’unione di mestiere, ma bensì una ruota inutile e dannosa del macchinario statale.
Ma ciò che la Rivoluzione si guardò bene dallo spazzare via fu il potere dello Stato sull’industria, sullo schiavo dell’officina.
Basta ricordare il dibattito che si ebbe alla Convenzione – alla terribile Convenzione – a proposito di uno sciopero. Alle rimostranze degli scioperanti la Convenzione rispose (cito a memoria): – “Lo Stato solo ha il dovere di vigilare sull’interesse di tutti i cittadini. Facendo uno sciopero, voi fate una coalizione, voi create uno Stato nello Stato: dunque, la morte!”.
In questa risposta si è vista soltanto la caratteristica borghese della Rivoluzione. Ma, in verità, essa contiene un più profondo significato. Riassume l’attitudine dello Stato, che trovò la sua espressione logica e piena nel giacobinismo del 1793, di fronte all’intera società. – “Avete qualche cosa di cui lamentarvi, rivolgetevi allo Stato. Esso solo ha la missione di raddrizzare i torti dei suoi sudditi. Quanto a coalizzarvi per difendervi, questo non deve accadere”. Era in questo senso che la Repubblica si chiamava una e indivisibile.
Il socialista giacobino moderno la pensa esattamente allo stesso modo. La Convenzione non ha fatto altro che tradurre il suo pensiero con quella logica ferrea che gli fu propria.
In questa risposta della Convenzione si trova riassunta l’attitudine degli Stati di fronte a tutte le coalizioni e a tutti i raggruppamenti privati qualunque sia il loro scopo.
Per lo sciopero, lo stesso accade ai nostri tempi in Russia, dove esso è considerato come delitto di leso-Stato; e in gran parte anche in Germania, deve il giovane re Guglielmo diceva tempo fa ai minatori: “appellatevi a me, ma se vi permettete da voi stessi l’azione, troverete la sciabola dei miei soldati”.
Lo stesso avviene in Francia. Ed è da poco tempo che in Inghilterra, dopo aver lottato cento anni con le società segrete, col pugnale, con la polvere esplosiva sotto le macchine, che i lavoratori cominciano a conquistare il diritto di sciopero. Diritto che riusciranno ad ottenere se non cadranno nel tranello che loro tende lo Stato, cercando di imporre il suo arbitrato obbligatorio in cambio della legge delle otto ore.
Più di un secolo di terribili lotte, quante miserie, quanti operai morti in prigione, quanti deportati in Australia, fucilati, impiccati, per riconquistare il diritto di coalizione. Quel diritto, ciascun uomo – libero o servo – lo praticava liberamente quando lo Stato non aveva ancora imposto la sua mano di ferro sulla società.
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Ma non solo l’operaio fu trattato in questo modo. Basta ricordare la lotta che la borghesia dovette sostenere contro lo Stato per conquistare il diritto di costituirsi in società commerciali. Lo Stato cominciò a concedere questo diritto solo quando vi scoperse un comodo mezzo per creare i monopoli a vantaggio delle proprie creature alimentando nello stesso tempo le proprie casse. Lo stesso si può dire per le lotte condotte dalla borghesia per la libertà di stampa, di parola, di pensiero, in modo diverso di quello che lo Stato ordinava per mezzo dell’Accademia, dell’Università o della Chiesa. Lo stesso ancora per le lotte condotte per il diritto di insegnare a leggere, diritto che lo Stato arrogava senza farne uso, o per ottenere il diritto di dividersi in comune. Tralascio di parlare delle lotte che si dovettero ingaggiare per potere scegliere il proprio giudice e la propria legge, come pure di quelle che ancora si devono portare avanti per dare alle fiamme il libro delle pene infami, dettato dall’Inquisizione e dai regimi dispotici dell’oriente: il Codice Penale.
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L’imposta, istituzione di origine puramente statale, diventa un’arma formidabile di cui lo Stato fa uso in Europa, come nelle giovani società degli Stati Uniti, per favorire gli amici, mandare in rovina i più a profitto dei governanti, per mantenere le vecchie divisioni e le vecchie caste.
Considerando inoltre le guerre, senza le quali gli Stati non possono né costituirsi né mantenersi, le guerre diventano inevitabili quando si ammette che una regione – solo per il fatto di essere Stato – può avere degli interessi opposti a quelli dei suoi vicini. Basta pensare alle guerre passate e a quelle che ci sono minacciate, alle guerre per i mercati industriali e a quelle per creare gli imperi coloniali… e il popolo apprende sempre a proprie spese come ogni guerra, vittoriosa o meno, come è avvenuto sfortunatamente molto spesso in Francia, diventa sempre uno strumento di maggiore schiavitù.
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In ultimo, il peggiore dei mali visti prima, l’educazione che riceviamo dallo Stato, a scuola e fuori, ha talmente deviato i nostri cervelli che la stessa nozione di libertà si è smarrita e travestita in quella di schiavitù.
Triste spettacolo quello di coloro che si credono rivoluzionari, facendo consistere tutta la loro attività nell’odio verso gli anarchici, per la semplice ragione che le concezioni di questi sulla libertà si elevano di molto sulle concezioni meschine e ristrette apprese alla scuola dello Stato. E tuttavia questo spettacolo è un fatto che possiamo constatare spessissimo.
Purtroppo lo spirito di servitù volontaria fu sempre sapientemente nutrito nei giovani cervelli, e lo è ancora, per mantenere la sottomissione del cittadino allo Stato.
La filosofia libertaria è soffocata dalla pseudo-filosofia romano-cattolica dello Stato. La storia è corrotta dalla sua prima pagina mentendo in merito alle monarchie merovingia e carolingia, fino all’ultima, dove è glorificato il giacobinismo. Le scienze naturali sono pervertite per essere poste al servizio dell’idolo Chiesa-Stato; la psicologia dell’individuo – e ancora di più quella della società – falsificata in ognuna delle sue asserzioni, dirette a giustificare la triplice alleanza del soldato, del prete e del boia. La morale, infine, dopo aver predicato per tanti secoli l’obbedienza alla Chiesa, non se ne è emancipata che per predicare la servitù allo Stato. “Nessun obbligo morale diretto verso il tuo vicino e nemmeno obbligo di solidarietà: tutti i tuoi obblighi sono verso lo Stato”: ci dicono e ci insegnano questo nuovo culto della vecchia divinità romana e cesarea. Il vicino, il compagno, dimentichiamolo. Non dobbiamo riconoscerlo che per mezzo di un organo dello Stato. L’essere ugualmente soggetti allo Stato diventa in questo modo una virtù.
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E la glorificazione dello Stato e la disciplina alla costruzione della quale lavorano l’Università e la Chiesa, la stampa e i partiti politici, è predicata così bene che perfino i rivoluzionari stessi non osano guardare in faccia questo feticcio.
Il radicale moderno è centralizzatore, statolatra e giacobino ad oltranza. Il socialista ne segue le orme. Come il fiorentino della fine del secolo XV non sapeva che invocare la dittatura e lo Stato contro i patrizi, così oggi il socialista non sa che invocare gli stessi dèi – la dittatura e lo Stato – per salvarsi dalle storture del regime economico, create dallo Stato stesso.
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Approfondendo tutte queste diverse categorie di fatti che abbiamo appena sfiorato, si comprenderà perché, prendendo in considerazione lo Stato quale fu nel corso della Storia e quale, nella sua essenza, si presenta oggi; e convinti che una istituzione sociale non può prestarsi a tutti gli scopi voluti, ma solo a quelli per i quali fu elaborata; si comprenderà perché noi concludiamo per l’abolizione dello Stato.
Nello Stato vediamo l’istituzione il cui compito, nella storia delle società umane, fu di impedire l’unione fra gli uomini, di ostacolare lo sviluppo dell’iniziativa locale e individuale, di sminuzzare le libertà che esistevano impedendo il loro sbocciare.
D’altro canto, sappiamo pure che una istituzione che ha tutto un passato di migliaia e migliaia di anni, non può prestarsi ad una funzione opposta a quella per la quale si è sviluppata nel corso della storia.
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A questo argomento, assolutamente inattaccabile, per chiunque abbia riflettuto sulla storia, che cosa si risponde?
Si risponde con un argomento quasi fanciullesco:
– Lo Stato esiste, e rappresenta una potente organizzazione già fatta. Perché distruggerla invece di utilizzarla? Essa funziona per il male, è vero; ma ciò avviene perché è in mano agli sfruttatori. Caduta questa macchina in mano al popolo perché non la si potrebbe utilizzare per uno scopo migliore e per il bene di quest’ultimo?
Sempre lo stesso sogno – il sogno del marchese di Posa, immaginato da Schiller, che voleva fare dell’assolutismo uno strumento di liberalizzazione; o quello del dolce abate Pietro, in Roma di Zola, che voleva fare della Chiesa una leva del socialismo.
Come è triste dovere rispondere a simili argomentazioni! Quelli che ragionano in questo modo, o non hanno la minima nozione della funzione dello Stato nella Storia, oppure concepiscono la rivoluzione sociale sotto una forma talmente insignificante che non ha nulla di comune con le aspirazioni socialiste,
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Prendiamo un esempio concreto, la Francia.
Tutti sappiamo che la Terza Repubblica, malgrado la sua etichetta repubblicana, è rimasta nella sua essenza, monarchica. Tutti abbiamo rimproverato di non aver repubblicanizzato la Francia: non dico di non avere fatto nulla per la Rivoluzione sociale, ma di non avere neppure introdotto i costumi e lo spirito puramente repubblicani. Il poco che si era fatto negli ultimi trentaquattro anni, per democratizzare i costumi e per diffondere una certa luce di istruzione, si è fatto anche in ogni altra monarchia europea, sotto la stessa spinta dei tempi. Da dove deriva, dunque, questa strana anomalia di una Repubblica monarchica? La causa deve ricercarsi nel fatto che la Francia è rimasta, come Stato, nella situazione in cui era trentacinque anni fa. I detentori del potere hanno cambiato il nome, ma tutto l’immenso apparato organizzativo centralizzato è rimasto in piedi; le sue ruote continuano come prima a scambiarsi i loro innumerevoli scartafacci quando un albero abbattuto dal vento cade sulla strada nazionale. Il bollo di questi scartafacci è cambiato, ma lo Stato, il suo spirito, i suoi organi, la sua centralizzazione territoriale, la sua centralizzazione di funzionari sono ancora in piedi. Come tanti tentacoli di piovra, si estendono ogni giorno di più sul Paese.
I repubblicani – parlo di quelli sinceri – avevano nutrito l’illusione che si sarebbe potuta rendere utile l’organizzazione dello Stato a seguito di un cambiamento in senso repubblicano. I risultati ognuno li può vedere. Bisognava distruggere la vecchia organizzazione statale per ricostruirne una nuova sulle basi del comune libero e del libero accordo, anziché pensare di utilizzare l’organizzazione esistente. Non avendo compreso che era vano voler camminare con un’istituzione storica nel senso inverso a quello per cui essa era nata. questi sono stati inghiottiti dall’istituzione stessa. Eppure in questo esempio, non si tratta ancora di modificare la struttura economica della società, ma semplicemente di riformarne alcune parti, cioè i rapporti politici.
Eppure dopo una sconfitta così completa e di fronte ad una così miserevole esperienza, ci si ostina ancora a ripetere che la conquista dei poteri dello Stato, fatta dal popolo, basterà per condurre a termine la rivoluzione sociale; che il vecchio organismo lentamente elaborato nel corso della storia per limitare la libertà, per schiacciare l’individuo, per dare all’oppressione una sembianza di giustizia; si presterà meravigliosamente a nuove funzioni, diventando lo strumento adatto a fare germogliare una nuova vita, a porre la libertà e l’uguaglianza su basi economiche, a risvegliare la società spingendola alla conquista di un migliore avvenire.
Ora, per dare slancio al socialismo, bisogna ricostruire da capo a fondo la società, basata oggi sul gretto individualismo bottegaio. Bisogna, non solo – come si è detto spesso compiacendosi di vuota metafisica – dare all’operaio “il prodotto integrale del suo lavoro”, ma bisogna rifare interamente tutti i rapporti ora esistenti, da quelli tra individui e individui, a quelli tra corporazioni, mestieri, borgate, città e regioni. In ogni via, in ogni paese, in ogni gruppo di uomini riuniti attorno ad un’officina, o lungo una strada ferrata, bisogna ridestare lo spirito creatore, costruttore, organizzatore; per riordinare tutta la vita, tutta la produzione, l’approvvigionamento, la distribuzione. Tutti i rapporti tra individui e agglomerazioni umane sono da rifare, lo stesso giorno, lo stesso momento in cui si porrà mano a modificare l’attuale organizzazione commerciale e amministrativa.
E si vuole che tutto questo lavoro grandioso, esigente l’esercizio libero del genio popolare, si faccia nell’ambito dello Stato, lungo la scala piramidale dell’organizzazione che forma la sua essenza? Si pretende che lo Stato di cui abbiamo visto la ragione d’essere nell’oppressione dell’individuo, nell’odio per l’iniziativa, nel trionfo di un’idea che deve essere forzatamente quella della mediocrità, diventi il fattore di questa grande trasformazione; quasi che fosse possibile un radicale rinnovamento della società a colpi di decreti e di maggioranze elettorali… Pensare ciò è fanciullesco!
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Nel corso della storia della nostra civiltà, due tradizioni, due opposte tendenze si sono trovate in lotta: la tradizione romana e la tradizione popolare; la tradizione imperiale e la tradizione federalista; la tradizione autoritaria e la tradizione libertaria.
E nuovamente, alla vigilia della rivoluzione sociale, queste due tendenze si trovano di fronte.
Tra queste due correnti – quella popolare e quella delle minoranze assetate di dominio politico e religioso – la nostra scelta è chiarissima.
Noi preferiamo quella che spinse gli uomini nel XII secolo ad organizzarsi sulle basi del libero accordo, della libera iniziativa dell’individuo, della libera federazione degli interessati, e lasciamo agli altri di agganciarsi alla tradizione imperiale, romana e canonica.
La storia non è mai stata una evoluzione ininterrotta, a più riprese l’evoluzione si è fermata in questa o in quella regione per cominciare di nuovo. L’Egitto, l’Asia anteriore, i bordi del Mediterraneo, l’Europa centrale, sono stati a turno il teatro dello sviluppo storico. Ma ogni volta questa evoluzione ha avuto inizio dalla fase della tribù primitiva per passare in seguito alla fase del comune di villaggio, poi alla città libera, per morire infine nella fase statale.
In Egitto la civiltà inizia con la tribù primitiva, poi arriva al comune di villaggio e più tardi alle città libere; ancora più tardi arriva alla fase Stato, la quale, dopo un periodo fiorente la conduce alla morte.
L’evoluzione ricomincia in Assiria, in Persia, in Palestina. Attraversa di nuovo le stesse fasi: la tribù, il comune di villaggio, la città libera, lo Stato onnipotente – la morte.
Una nuova civiltà debutta allora in Grecia, sempre partendo dalla tribù lentamente essa arriva al comune di villaggio, poi alle città repubblicane. In queste città la civiltà raggiunge i suoi più alti livelli. Ma l’oriente apporta il suo alito pestifero, le sue tradizioni di dispotismo. Le guerre e le conquiste creeranno l’impero di Alessandro il Macedone. Lo Stato si inserisce, la piovra gigante uccide ogni civiltà e sopravviene la morte.
Roma ricomincia il cammino della civiltà a sua volta. È ancora attraverso la fase della tribù primitiva che troviamo le sue origini, poi segue il comune di villaggio, poi la città. In questa fase si arriva all’apogeo della sua civiltà, ma sopravviene lo Stato, l’Impero ed, infine, la morte.
Sulle rovine dell’impero romano le tribù celtiche, germaniche, slave, scandinave, ricominciano nuovamente la civiltà. Lentamente la tribù primitiva elabora le sue istituzioni per arrivare al comune di villaggio. Essa si ferma in questa fase fino al XII secolo. Sorge allora la città repubblicana che ci porta la massima espressione dello spirito umano di cui parlano i monumenti dell’architettura, lo sviluppo grandioso delle arti, le scoperte che posero le basi delle scienze naturali. Poi viene lo Stato – la morte.
Sì, la morte, oppure la rinascita. Gli Stati distrutti e una nuova vita che ricomincia in mille e mille posti, basata sul principio dell’iniziativa vivace dell’individuo e dei gruppi, basata sulla libera intesa. Oppure, in alternativa, dare modo allo Stato di opprimere la vita individuale e locale, impadronirsi di tutti i domini dell’attività umana, di sviluppare le sue guerre e le sue lotte intestine per il possesso del potere, le sue rivoluzioni superficiali che non fanno altro che cambiare i tiranni e, inevitabilmente, andare a finire, ancora una volta, nella morte! La scelta non può essere che una.
http://archivio.edizionianarchismo.net/library/petr-kropotkin-lo-stato-e-il-suo-ruolo-storico
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