L’epopea di un’anarchica attraverso l’Ucraina (1902-1919)
Mila Cotlenko
Quando mi sono interessata alla storia della rivoluzione del 1917 in Russia, ho avuto come l’impressione di aprire una matrioska di bamboline di legno russe, ognuna delle quali rivelava nuove realtà. A scuola mi hanno insegnato in due paragrafi l’irresitibile ascesa dei bolscevichi fra febbraio e ottobre e, in lunghe e noiose pagine, la progressiva realizzazione del loro regime totalitario. La morale era chiara: la rivoluzione non può portare che al dispotismo della peggiore specie. Poi c’è stata la lettura di Volin che ha frantumato definitivamente la bambolina più grande della matrioska. 1917 non era più la storia di un semplice colpo di Stato, ma ridiventava un processo rivoluzionario ricco e rigoglioso, con molteplici forze in campo.
[…]
Dietro Maria Nikiforova, o piuttosto con lei, altre matrioske si sono aperte, restando ampiamente sconosciuti interi periodi della sua vita, dalla sua gioventù indicata nel segno del «terrore senza motivo» (bezmotivnyi) attorno al 1905, alle giornate insurrezionali di Pietrogrado nel luglio 1917 prima del colpo di Stato d’Ottobre, o anche alla sua partecipazione agli «anarchici underground» che, fin dal 1919, ricostituirono delle reti per attaccare in modo mirato e contemporaneamente i bianchi e i rossi, richiamandosi nella loro agitazione ad una «terza rivoluzione sociale».
Al di là dell’entusiasmo che il suo percorso logicamente suscita, non faremo indossare a Maria Nikiforova gli abiti di una santa o di una eroina, come fa talvolta parte del movimento anarchico con i suoi morti. Esistono già sufficienti libri da comodino per confortarsi a braccetto col passato, felici di poter appuntare prima di addormentarsi una figura in più nel pantheon degli anarchici o delle grandi donne. Giacché, se non per alimentare le riflessioni e le lotte del presente, a che pro lanciarsi sulle tracce dei compagni che ci hanno preceduto? Costruire una controstoria senza asperità finisce per incontrare gli stessi scogli della storia ufficiale, privando gli individui della loro complessità e della loro unicità per farne dei miti. Sebbene scritta dal punto di vista dei dominati e dei ribelli, questa fissa altrettante posizioni, trasforma in destino un percorso vivo, cancella i dibattiti e le altre scelte presenti a vantaggio di una sorta di sequela ineluttabile di fatti.
L’idea di questo libro non è perciò quella di naturalizzare Marusya nel ruolo di una «Atamansha» (leader militare carismatica) o di «Giovanna d’Arco dell’anarchia». Semmai è proprio su questo punto, costato già caro, che occorre essere critici. Di fronte alle conquiste dei bianchi, delle truppe austro-tedesche e dei nazionalisti ucraini, ha fatto la scelta di condurre una guerra di fronte, e per far ciò di accettare un accordo militare con i bolscevichi. È in seguito che agì in relativa autonomia, infine attaccando direttamente il potere rosso dalla clandestinità. Tutti questi momenti sono in realtà attraversati da esitazioni e da contraddizioni, sollevando questioni che si pongono ad ogni tempesta sociale, e alcune delle quali risuonano fino ad oggi: fin dove spingere il processo rivoluzionario quando questo non ha portato che a un cambiamento alla testa dello Stato? Quando gli operai stanno per impadronirsi delle fabbriche e i contadini delle terre, come fare in modo che lo scranno del potere resti vuoto e soprattutto che i suoi piedi vengano spezzati? Che fare quando la contro-rivoluzione arriva da tutte le parti? Come evitare di cadere nella trappola di «fare la guerra» a scapito di «approfondire la rivoluzione»? Come riconoscere i suoi falsi amici fra rivoluzionari dalle intenzioni pur tuttavia sincere? Quali sono le conseguenze di coordinarsi in un «fronte comune» con dei gruppi autoritari? Quest’ultimo tipo di strategia sembra impossibile senza rinunciare a una parte delle proprie idee, e questa è d’altronde la conclusione che trarrà Maria Nikiforova dopo aver sperimentato una alleanza con i bolscevichi. Seguiamo il suo percorso non per rallegrarci delle sue prodezze, ma come una esperienza di situazioni impastate di sconvolgimenti rivoluzionari e di difficoltà, come una finestra per affrontare una storia fatta da una successione di possibili non necessariamente avvenuti. […]
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Anarchici underground – 25 settembre 1919
Nikiforova e gli anarchici che si erano uniti a lei si erano divisi in tre gruppi di una ventina di persone. Con Chernyak e Gromov, un gruppo di quindici compagni partì diretto verso la Siberia per far saltare il quartier generale del dittatore bianco Koltchak. Riuscirono ad arrivare ai confini della Siberia, ma non furono in grado di raggiungere Koltchak e finirono col fondersi nel movimento dei partigiani contro i bianchi. All’inizio del mese di dicembre 1919, le autorità bolsceviche annunciarono trionfalmente di aver smantellato nella regione di Shitkinsk una «cospirazione dei SR e degli anarchici», il cui «capo» sarebbe stato lo stesso Gromov, che ebbero il piacere di fucilare. Ma non riuscirono a mettere le mani su Chernyak, di cui si ritroverà traccia qualche tempo dopo in Ucraina.
Il secondo gruppo, di cui facevano parte Nikiforova e Bzhostek con altri venti compagni, si diresse verso la Crimea, allora sotto il controllo dei bianchi, con l’intenzione di far saltare il quartier generale di Denikin, il capo degli eserciti bianchi di tutta la Russia meridionale. Il suo quartier generale era situato a Rostov-sul-Don. Non si sa quasi nulla delle peregrinazioni di questo gruppo fino al tragico arresto di Marussia e di suo marito a Sebastopoli, che si vedrà nel prossimo capitolo.
Quanto al terzo gruppo, comprendente venticinque anarchici fra cui Kovalevitch, Sobolev e dodici lettoni, si recò al nord, a Kharkov, per liberare i makhnovisti detenuti dai bolscevichi e far saltare in aria il quartier generale della Ceka. Sfortunatamente arrivarono troppo tardi: gli anarchici – una parte dei quali più vicini a Makhno – erano già stati fucilati, ed i cekisti avevano lasciato la città non appena compiuta la loro impresa.
Per non lasciare questi assassinii senza risposta, il terzo gruppo pensò in un primo momento di prendersela con il governo filobolscevico ucraino, prima di decidere di raggiungere Mosca per sviluppare una rete anarchica clandestina su scala nazionale. Sobolev e Kovalevitch furono presto raggiunti da altri compagni che avevano anch’essi preso parte ai servizi di contro-informazione makhnovisti, fra cui A. Baranowski, Y. Glazgone, M. Grechannikov e H. Tsintsiper. Una simile infrastruttura clandestina richiedeva nell’immediato delle risorse finanziarie. Ma gli anarchici non scelsero una banca qualsiasi per procurarsele. Riuscirono ad espropriare niente meno che le tre più grandi, ossia le tre banche «del popolo» di Mosca (via Dimitrovka, piazza Taganga e piazza Serpukhova). Completarono questa raccolta di fondi con diversi furti a mano armata a Mosca e dintorni. Infine, una parte di loro rapinò anche la banca di Tula, a circa duecento chilometri dalla capitale, operazione condotta con un gruppo di massimalisti locali. I compagni erano così riusciti ad espropriare decine di milioni di rubli per finanziare le loro attività, rimettere in piedi una rete di tipografie clandestine, di appartamenti, di documenti falsi, di laboratori per fabbricare bombe, ecc., rete all’opera in una dozzina di città della Russia, dell’Ucraina e anche della Lettonia (essendo il gruppo di dodici lettoni ripartito per laggiù con una parte dei fondi raccolti).
Nel constatare che gli anarchici avevano perso molto peso in rapporto alla macchina bolscevica, soprattutto sul terreno della propaganda, raddoppiarono gli sforzi per diffondere volantini, letteratura sovversiva e due numeri di un giornale incendiario chiamato Anarkhiya. Il primo numero analizzava la dittatura bolscevica come una delle peggiori tirannie della storia russa: «Mai – vi si poteva leggere – v’è stata separazione così netta come oggi fra oppressori ed oppressi». Fra l’agitazione che svilupparono in maniera intensa per i quattro mesi della loro esistenza, si trovano opuscoli e volantini come Non c’è più nulla da attendere, La verità sulla Makhnovicina, Dov’è l’uscita?, diffusi con tirature fra le 10 e le 15.000 copie (ci potevano essere fino a quattro ristampe successive). I volantini venivano lanciati per strada o dati direttamente ai lavoratori più vicini, che li facevano poi circolare di nascosto nei loro luoghi di lavoro.
Ecco uno dei loro ultimi volantini, rivolto ai bolscevichi, che riassume bene la posizione di questi compagni:
«Voi siete al potere in Russia, ma cosa è cambiato? Le fabbriche e la terra sono ancora nelle mani dello Stato-padrone, non in quelle dei lavoratori. Il salariato, il male fondamentale dell’ordine borghese, continua ad esistere, è per questo che la fame, il freddo e la disoccupazione sono inevitabili. A causa della “necessità di sopportare tutto” per un avvenire migliore, di difendere “ciò che è già acquisito”, un enorme apparato burocratico è stato creato, il diritto di sciopero è abolito, il diritto di parola, di riunione e di stampa sono stati soppressi.
Voi generate uno sciovinismo militare rosso, ma che cos’ha da difendere la classe operaia? Dite che la borghesia è stata messa da parte e che la classe operaia è al potere. Noi rispondiamo che ci sono solo alcuni operai al potere, e che sono vecchi operai separati dalla loro classe. Gli oppressi non possono essere al potere per definizione, anche se il potere si proclama “proletario”, il che è la più grande delle menzogne. Ci obietterete che anche voi volete l’anarchia, ma che prima bisogna spezzare il nemico, e che poi il potere si disgregherà da sé.
Noi crediamo che voi possiate avere, personalmente, soggettivamente, le migliori intenzioni del mondo; ma oggettivamente, per natura, siete i rappresentanti della classe dei burocrati-funzionari, di un gruppo di intellettuali improduttivi.
Non prendiamo in considerazione la vostra insegna rossa ma solo i fatti, e vediamo che la vostra politica porta ad una autentica reazione all’interno del paese. Non c’è ancora nulla di raggiunto o acquisito, e non abbiamo nulla da difendere.
Chiamiamo all’insurrezione immediata per il pane e la libertà, e difenderemo la libertà con le armi della libertà e non con quelle della schiavitù.
L’atteggiamento degli anarchici non può essere che questo nei confronti di ogni potere “rivoluzionario”. È questa la differenza fra il socialismo e l’anarchismo; per noi, finché esiste un potere, nulla cambia. I bolscevichi l’hanno capito molto bene. Così nel suo opuscolo Anarchismo e comunismo, Preobrajensky considera il primo come libresco e “contro-rivoluzionario”».
I compagni di Makhno avevano tessuto una rete d’informatori anche nel Cremlino e fin nei ranghi della Ceka. Uno degli impiegati di quest’ultima un giorno aveva mostrato loro un albergo dove risiedevano una dozzina di agenti del suo servizio. Malgrado le precauzioni prese dagli anarchici, l’intenzione di eliminare questi cekisti trapelò ed essi non ebbero il tempo di realizzare il loro piano.
Oltre alla diffusione di volantini ed opuscoli, questi compagni erano decisi a passare rapidamente all’azione per colpire la macchina della propaganda bolscevica, di cui il partito era senza dubbio la colonna vertebrale. Per dare un’idea dell’importanza del lavoro d’agitazione che poteva portare avanti, nel giro di pochi mesi, da agosto a settembre 1919, il partito bolscevico aveva tenuto a Mosca 360 riunioni, 50 conferenze e 35 congressi. Un’attenzione particolare era rivolta al processo d’ideologizzazione dell’Armata Rossa. Il partito aveva fatto partecipare alle sue riunioni quasi 160.000 soldati in un mese nella sola Mosca. Era una vera mobilitazione permanente guidata dai commissari politici per irreggimentare operai e contadini.
Il 25 settembre 1919, un congresso di partito doveva riunire i più importanti responsabili delle pubblicazioni, gli agitatori, i rappresentanti dei vari quartieri della capitale, con i più alti dirigenti bolscevichi (Bukharin, Kamenev, Kollontai, Yaroslavl, con l’attesa presenza di Lenin). Particolare di non poco conto, il congresso doveva tenersi nel vicolo Leontiev, nella vecchia residenza della contessa Ouvarova, che era stata anche sede del Comitato centrale dei socialisti-rivoluzionari di sinistra. Grazie a questo caso fortuito, Tcherepanov, un SR di sinistra, aveva potuto fornire le piantine dettagliate del posto al suo vecchio amico, l’anarchico Kasimir Kovalevitch, che verrà condannato più tardi per istigazione dell’attentato. Azarov (Azov), un altro anarchico, aveva fabbricato una bomba ad alto potenziale, nascosta in una cappelliera. Verso le 21 fu infine un compagno ucraino, Sobolev, a lanciare l’ordigno attraverso la finestra della sala delle riunioni. L’esplosione fu tale che una parte del tetto e del retro dell’immobile furono proiettati in giardino. Fra le 150 persone presenti all’assemblea, si registrarono 12 morti e 55 feriti. Fra i morti, i più importanti erano Zagorsky, segretario del partito a Mosca che presiedeva la riunione, e Kropotov, membro del soviet di Mosca. Fra i feriti figuravano diversi vertici del partito: Bukharin, Steklov, Olminsky, Pokrovsky, Yaroslavsky, A. F. Miasnikov (l’armeno), Sloutsky, Ya. E. Chliapnikov. In compenso Lenin non era arrivato.
Il partito era furioso. All’inizio pensò ad una azione commessa da un qualche contro-rivoluzionario, poi a guardie bianche terroriste, e ordinò di fucilare per rappresaglia i nobili e i borghesi bianchi reclusi nelle prigioni e nei campi della capitale. L’ordine venne annullato l’indomani, ma nel corso della notte migliaia di loro furono comunque giustiziati. Il comitato di difesa di Mosca adottò nuove misure repressive, e la Ceka accrebbe ulteriormente la sua sorveglianza. I funerali furono l’occasione per i bolscevichi di mettere in atto tutta una operazione autopromozionale, con un corteo funebre che andava dalla Casa dei sindacati al Cremlino, seguito dai discorsi di Trotsky, Kamenev, Zinoviev e Kalenin che facevano appello alla delazione, mentre la stampa bolscevica conduceva una campagna per serrare i ranghi di fronte al nemico.
Qualche giorno più tardi, l’azione fu rivendicata dal Comitato insurrezionale panrusso dei partigiani rivoluzionari:
«Cittadini e fratelli!
La sera del 25 settembre 1919, all’assemblea del comitato del partito bolscevico di Mosca, veniva esaminata la questione dei mezzi di lotta contro il popolo ribelle. I padroni bolscevichi si erano pronunciati all’unanimità a favore dell’adozione di misure più estreme contro gli operai, i contadini e i soldati rossi insorti, gli anarchici e i socialisti rivoluzionari di sinistra, fino a voler instaurare uno stato d’emergenza a Mosca, con fucilazioni di massa. I piani dei bolscevichi sono stati sventati.
Nel preciso momento del voto e dell’adozione di queste misure contro il popolo, i partigiani-insorti rivoluzionari hanno fatto saltare l’edificio del comitato moscovita del partito dei comunisti-bolscevichi. Le rovine di questo edificio sono il rifugio più adatto per i rappresentanti dell’oltremodo sanguinario partito reazionario dei bolscevichi e dei commissari.
Questa è la vendetta dei partigiani-insorti rivoluzionari nei confronti dei “cekisti” e dei “commissari”, per le decine di migliaia di contadini, lavoratori e membri dell’intelligentzia laboriosa fucilati, per aver tradito i makhnovisti d’Ucraina, per le esecuzioni e gli arresti di anarchici, per la dispersione dei loro gruppi e federazioni in tutte le città e villaggi, per la chiusura di tutti i loro giornali e riviste.
La rivoluzione è ancora tradita, a destra come a sinistra. Il dittatore Trotsky ha venduto l’Ucraina a Denikin, e questo non è un segreto, domani i bolscevichi gli offriranno anche la Grande Russia. D’ostacolo al nostro cammino si trova la reazione dei rossi e dei bianchi, ogni nostro passo viene osservato, gli spioni brulicano dappertutto, l’individuo è ancora più oppresso che al tempo dello zarismo; ovunque imperano la tortura, gli arresti, le perquisizioni e le fucilazioni per la minima protesta contro l’intimidazione dei commissari e dei cekisti. Il possesso della produzione da parte dei lavoratori stessi è stato annientato dopo la sua statalizzazione, l’industria e i trasporti sono in stato di disgregazione, i campi non sono seminati.
Bisogna mettere fine a questo barbaro regime. Le masse contadine hanno già mostrato la loro determinazione di distruggere il potere dei commissari con tutta una serie di insurrezioni l’anno scorso, ma né gli operai né l’Armata Rossa le hanno sostenute. I contadini d’Ucraina, di Siberia e della Grande Russia si sollevano ora nuovamente contro la violenza del potere dei bianchi e dei rossi. L’anarchico Makhno con un distaccamento di partigiani ha ripreso Ekaterinoslav, Alexandrovsk, Sinelnikovo, Debaltsevo e Melitopol. Gli insorti di Siberia hanno rioccupato Tomsk e altri città e villaggi. Altrove nella grande Russia, i ranghi dei contadini insorti si ingrossano grazie all’arrivo di elementi dell’Armata verde [individui che si rifugiavano nelle foreste per evitare la coscrizione o la repressione] e dell’Armata rossa, agendo in totale accordo con gli insorti rivoluzionari della Siberia, del nord del Caucaso, della Tauride e di Ucraina».
Il comunicato continua precisando i suoi obiettivi:
«Il nostro compito è di cancellare dalla faccia della terra l’ordine della commissariocrazia e delle Ceke, e di instaurare una libera federazione panrussa di unioni di lavoratori e di masse oppresse. Dobbiamo instaurare noi stessi fin d’ora un sistema libero nel paese, senza attendere che siano definitivamente perse le conquiste della rivoluzione d’Ottobre.
La terza rivoluzione sociale si avvicina.
Lavoratori! Abbandonate i ranghi dell’Armata rossa di sangue, seguite l’esempio dei contadini che l’hanno lasciata tutti. Unitevi alle fila dei partigiani.
Contadini! Mobilitate i ranghi dei vostri distaccamenti di partigiani raddoppiando gli sforzi.
Membri dell’Armata rossa! Tenetevi pronti, e a partire dal segnale del Comitato insurrezionale panrusso dei partigiani rivoluzionari, rifiutate di eseguire gli ordini dei vostri commissari.
Membri dell’armata verde! Abbandonate i terreni neutri, unitevi ai ranghi dei partigiani per la lotta contro la reazione rossa e bianca.
Operai sovietici! Siate pronti a fermare il lavoro al segnale del Comitato insurrezionale panrusso dei partigiani rivoluzionari.
Il 17 giugno di quest’anno, il tribunale rivoluzionario militare ha fatto fucilare a Kharkov sette insorti: Mikhalev-Pavlenkov, Burbyga, Olejnik, Korobko, Kostine, Polunin, poi Dobroliubov e Ozerov. Il 25 settembre, i rivoluzionari insorti hanno vendicato la loro morte facendo saltare il comitato dei bolscevichi di Mosca.
Morte per morte! Il primo atto è stato realizzato, centinaia d’altri seguiranno se i carnefici della rivoluzione non si disperderanno da soli in tempo.
Il Comitato insurrezionale panrusso esige dalle autorità sovietiche la liberazione immediata di tutti i contadini, operai, anarchici e altri rivoluzionari arrestati. In caso di non-rispetto, si riserva ogni libertà d’azione. Non ci saranno abbastanza bombe e dinamite. Lo spirito di Bakunin vive ancora in noi, ed i nostri combattenti sono ancora capaci delle imprese di Ravachol! La nostra vendetta per il popolo straziato e martirizzato non conoscerà fine. Unitevi tutti a noi!
I commissari ingrassati fuggono tutti i fronti, e portano nelle retrovie tutti i beni di valore, abbandonando i contadini e gli operai al loro destino.
Il nostro dovere è organizzare la difesa della rivoluzione.
Viva la rivolta rivoluzionaria!
Abbasso i carnefici della rivoluzione!
Viva la terza rivoluzione sociale!».
Dopo questo colpo a sorpresa, i compagni passati in clandestinità non desideravano fermarsi su una strada così ben avviata. Il loro progetto prevedeva di far saltare un mese dopo il Cremlino con l’intero governo, riunito in occasione del secondo anniversario d’Ottobre. Secondo i calcoli di Sobolev, questa impresa necessitava di una tonnellata di esplosivo. Uno dei compiti immediati era quindi quello di recuperarla con discrezione in diversi punti del territorio per non attirare l’attenzione, poi di trasportarla poco alla volta da Briansk, Tula e Nijni-Novgorod al fine di immagazzinarla in un deposito di Odinstovo. Alcuni compagni avrebbero ugualmente lavorato giorno e notte in un laboratorio installato in una datcha nei pressi di Mosca (a Kraskovo). Sfortunatamente, dato che i loro nemici si erano attivati anch’essi senza sosta per mettere le mani sopra di loro, lo scontro ebbe luogo prima del previsto.
Alla fine del mese di ottobre 1919, un appartamento precedentemente utilizzato da Maria Nikiforova e che serviva da nascondiglio fu scoperto dalla Ceka. Venne organizzata una trappola per attirarvi Kovalevitch. Ferito nel corso del conflitto a fuoco, venne trasportato negli uffici della Ceka dove morì qualche ora più tardi. Anche altri anarchici della rete morirono difendendosi dai cekisti venuti a braccarli nell’appartamento di Voskhodov. Il sinistro servizio affermò di avervi trovato una «lista di membri» dell’organizzazione, che le aveva permesso di smantellare il resto della rete. Secondo altre fonti più attendibili (in effetti quale interesse potevano avere gli anarchici a tenere liste simili, loro che non si organizzavano in partito, soprattutto in clandestinità!), fu dopo un intenso lavoro di segnalazioni che la Ceka comprese che l’organizzazione responsabile della bomba contro il congresso del comitato del partito doveva coinvolgere degli anarchici noti e altri passati in clandestinità. Arrestò un certo Tiamin che sostenne di essere riuscita a farlo parlare per avere nomi e indirizzi. La conseguente scoperta dell’appartamento di Tsintsiper causò la morte di altri dieci anarchici nel corso di una imboscata. Presentandosi a quello stesso indirizzo, anche il coraggioso lanciatore Sobolev venne ucciso, non senza essere riuscito a introdurre un’ultima bomba nella borsa di un commissario di polizia causandogli la perdita di una mano. In un altro nascondiglio situato sulla strada di Ryansk, vennero assassinati altri sette compagni. Come dovette riconoscere la stessa Ceka in un successivo rapporto, nessun anarchico del gruppo «si arrese senza resistenza».
L’ultimo nascondiglio scoperto non era dei minori. Si trattava della datcha situata nei pressi di Mosca che ospitava il laboratorio e la tipografia. Il 5 novembre 1919 la casa fu circondata da una unità di trenta cekisti. Glazgone, Azarov, Ferrets, Lame, Mina e Dedikova opposero una strenua resistenza per più di due ore e mezza, sparando e lanciando le loro bombe contro gli assalitori. Vedendo che la situazione era disperata, decisero di farsi saltare in aria portandosi dietro un certo numero di cekisti.
Malgrado l’annientamento della rete moscovita (una cinquantina di compagni), altri gruppi armati anarchici continuarono le loro attività in modo sotterraneo contro i nuovi padroni, in qualche caso fino agli anni 30, in diversi luoghi della Russia, in Lettonia, in Siberia ed in Ucraina (specialmente a Kharkov, Kiev, Marioupol, Berdiansk, Odessa, Guliaï-Polié e Ekaterinoslav). Ma questa pagina rimane in gran parte ancora da scrivere.
[Maria Nikiforova. La révolution sans attendre, Mutines Séditions, 2014]