Simone Weil
La situazione attuale, e lo stato d’animo che suscita, rimettono una volta di più all’ordine del giorno il problema della guerra. Oggi noi viviamo nella perenne attesa di una guerra; il pericolo è forse immaginario, ma la sensazione di pericolo esiste, e ne costituisce un fattore non trascurabile. Ebbene, l’unica reazione che sia dato constatare è il panico, non tanto il panico del coraggio di fronte alla minaccia di una carneficina, quanto il panico degli animi di fronte ai problemi che pone tale minaccia. Ed è proprio nel movimento operaio che si avverte di più lo smarrimento. Il rischio, se non ci impegniamo in un serio tentativo di analisi, è che un giorno o l’altro la guerra ci sorprenda incapaci non solo di agire, ma perfino di giudicare. Per prima cosa bisogna fare un bilancio delle tradizioni sulle quali abbiamo finora vissuto più o meno coscientemente.
Fino all’ultimo dopoguerra il movimento rivoluzionario, nelle sue diverse forme, non aveva nulla in comune con il pacifismo. Le idee rivoluzionarie sulla guerra e la pace si sono sempre ispirate ai ricordi di quegli anni, 1792-1793-1794, che furono la culla di tutto il movimento rivoluzionario del XIX secolo. In contraddizione assoluta con la verità storica, la guerra del 1792 appariva come uno slancio vittorioso che, oltre a far insorgere il popolo francese contro i tiranni stranieri, avrebbe al tempo stesso infranto il dominio della Corte e della grande borghesia per portare al potere i rappresentanti delle masse lavoratrici. Da questo ricordo leggendario, immortalato nella Marsigliese, nacque la concezione della guerra rivoluzionaria, difensiva e offensiva, come forma non solo legittima, ma come una delle più gloriose della lotta delle masse lavoratrici contro gli oppressori; concezione comune a tutti i marxisti e a quasi tutti i rivoluzionari fino agli ultimi quindici anni. In compenso, quando si tratta di giudicare le altre guerre, la tradizione socialista ci offre non una ma diverse concezioni, le quali tuttavia, per quanto contraddittorie, non sono mai state contrapposte le une alle altre in modo chiaro.
Nella prima metà del XIX secolo la guerra in quanto tale sembra aver avuto un certo prestigio agli occhi dei rivoluzionari che, in Francia per esempio, rimproveravano aspramente a Luigi Filippo la sua politica di pace: Proudhon scrisse un sentito elogio della guerra e per i popoli oppressi, insieme alle insurrezioni, si sognavano guerre. La guerra del 1870 costrinse per la prima volta le organizzazioni proletarie, in questo caso l’Internazionale, a prendere posizione in modo concreto sulla questione della guerra; e l’Internazionale, attraverso la penna di Marx, invitò gli operai dei due paesi in lotta a opporsi a ogni tentativo di conquista, ma anche a partecipare risolutamente alla difesa del proprio paese contro l’attacco dell’avversario.
Ma allorché nel 1892, evocando con eloquenza i ricordi della guerra scoppiata cento anni prima, Engels invitava i socialdemocratici tedeschi a contribuire con tutte le loro forze a una guerra che avesse eventualmente contrapposto alla Germania la Francia alleata con la Russia, lo faceva in nome di tutt’altra concezione (1). Non si trattava più di difesa o di attacco, ma di proteggere, attaccando o difendendosi, il paese dove il movimento operaio risultava essere più forte e di annientare il paese più reazionario. In altre parole, secondo questa concezione (che fu anche quella di Plechanov, di Mehring e di altri), per giudicare un conflitto bisogna individuare la soluzione più favorevole al proletariato internazionale e schierarsi di conseguenza.
A questa concezione se ne contrappone un’altra, che fu quella dei bolscevichi e degli spartachisti, i quali sostenevano che in ogni guerra (a eccezione delle guerre nazionali o rivoluzionarie secondo Lenin, a eccezione solo delle guerre rivoluzionarie secondo Rosa Luxemburg), il proletariato deve augurarsi che il proprio paese sia sconfitto e sabotarne la lotta. Tale concezione, fondata sull’idea che tutte le guerre, tranne le suddette eccezioni, sono guerre imperialiste, e quindi paragonabili a una disputa di briganti che si contendono il bottino, va incontro a serie difficoltà: essa infatti sembra spezzare l’unità d’azione del proletariato internazionale poiché esorta gli operai di ciascun paese a collaborare alla sconfitta del proprio paese, favorendo in tal modo la vittoria dell’imperialismo nemico, vittoria che altri operai devono sforzarsi d’impedire. La celebre formula di Liebknecht: «Il nostro principale nemico è nel nostro stesso paese» mette chiaramente in luce questa difficoltà giacché attribuisce alle diverse frazioni nazionali del proletariato un nemico diverso, e finisce così per contrapporle, almeno in apparenza, le une alle altre.
È evidente che la tradizione marxista non presenta, riguardo alla guerra, né unità né chiarezza. Almeno un punto, però, era comune a tutte le teorie: il rifiuto categorico di condannare la guerra in quanto tale. I marxisti, specialmente Kautsky e Lenin, amavano parafrasare la formula di Clausewitz secondo la quale la guerra non fa che continuare con altri mezzi la politica del tempo di pace, desumendone che una guerra va giudicata non per il carattere violento dei procedimenti impiegati, bensì per gli obiettivi perseguiti attraverso quei procedimenti.
Il dopoguerra ha introdotto nel movimento operaio non un’altra concezione – perché non si possono certo accusare le organizzazioni operaie o sedicenti tali della nostra epoca di avere concezioni su un argomento qualsiasi –, ma un’altra atmosfera morale. Già nel 1918 il partito bolscevico, che desiderava ardentemente la guerra rivoluzionaria, dovette rassegnarsi alla pace, non per ragioni dottrinarie, ma sotto la pressione diretta dei soldati russi, ai quali l’esempio del 1793, che venisse evocato dai bolscevichi o da Kerenskij, non ispirava alcun desiderio di emulazione. E anche negli altri paesi, sul piano della semplice propaganda, le masse straziate dalla guerra costrinsero i partiti che facevano appello al proletariato ad adottare un linguaggio puramente pacifista, linguaggio che peraltro non impediva agli uni di celebrare l’Armata Rossa, agli altri di votare i crediti di guerra del proprio paese. Ovviamente, questo nuovo linguaggio non fu mai corroborato da analisi teoriche, anzi nessuno parve mai neppure notare che era nuovo. Fatto sta che invece di bollare la guerra come imperialista, tutti si misero a bollare l’imperialismo come guerrafondaio. Per farsi ascoltare, il cosiddetto movimento di Amsterdam, che in teoria si batteva contro la guerra imperialista, dovette sostenere di battersi contro la guerra in generale. Nella propaganda, ancor più del suo carattere proletario o sedicente tale, si mise in risalto l’atteggiamento pacifico dell’URSS. Le formule dei grandi teorici del socialismo sull’impossibilità di condannare la guerra come tale erano state completamente dimenticate.
Il trionfo di Hitler in Germania ha per così dire fatto riemergere tutte le vecchie concezioni, inestricabilmente mescolate. La pace appare come meno preziosa dal momento che può comportare gli orrori indicibili sotto il peso dei quali gemono migliaia di lavoratori nei campi di concentramento tedeschi. Si riaffaccia la concezione espressa da Engels nel suo articolo del 1892. Il nemico principale del proletariato internazionale non è forse il fascismo tedesco, come allora era lo zarismo russo? Questo fascismo, che si estende a macchia d’olio, può essere annientato solo dalla forza; e dato che il proletariato tedesco è disarmato, solo le nazioni rimaste democratiche possono, a quanto pare, assolvere questo compito.
Poco importa, del resto, che si tratti di una guerra di difesa o di una «guerra preventiva»; anzi, una guerra preventiva sarebbe meglio: Marx e Engels non hanno forse cercato, a un certo punto, di spingere l’Inghilterra ad attaccare la Russia? Una guerra del genere non si presenta più, secondo molti, come una lotta fra due imperialismi concorrenti, bensì fra due regimi politici. E – proprio come faceva il vecchio Engels nel 1892 ricordandosi di quello che era successo cent’anni prima – tutti pensano che una guerra costringerebbe lo Stato a fare al proletariato concessioni importanti; tanto più che, nella guerra incombente, ci sarà necessariamente conflitto fra lo Stato e la classe capitalista, e si avranno senz’altro misure di socializzazione di non poco conto. Sicché la guerra finirebbe forse per portare automaticamente al potere i rappresentanti del proletariato. Tutte queste considerazioni creano sin d’ora, negli ambienti politici che fanno appello al proletariato, una corrente d’opinione più o meno esplicitamente favorevole a una partecipazione attiva del proletariato a una guerra contro la Germania; corrente ancora non molto forte, ma che può facilmente ingrossarsi. C’è chi si limita alla distinzione fra aggressione e difesa nazionale, e chi alla concezione di Lenin; altri, ancora numerosi, rimangono pacifisti, ma in fondo più per forza d’abitudine che per altra ragione. Difficile immaginare confusione peggiore.
Tanta incertezza e oscurità potranno sorprendere, e devono far vergognare, se si pensa che si tratta di un fenomeno che, col suo strascico di preparativi, di riparazioni, di nuovi preparativi, sembra, tenuto conto di tutte le conseguenze morali e materiali che comporta, dominare la nostra epoca e costituirne il tratto caratteristico. La cosa sorprendente sarebbe tuttavia che si fosse giunti a qualcosa di meglio partendo da una tradizione assolutamente leggendaria e illusoria, quella del 1793, e usando il metodo più difettoso possibile, quello che ha la pretesa di giudicare ogni guerra in base ai fini perseguiti e non alla natura dei mezzi impiegati. Non che sia meglio biasimare in generale l’uso della violenza, come fanno i pacifisti puri: la guerra costituisce, in ogni epoca, una specie ben precisa di violenza, e prima di esprimere un giudizio qualunque bisogna studiarne il meccanismo. Il metodo materialista consiste innanzitutto nell’esaminare qualsiasi fatto umano tenendo conto, più che dei fini perseguiti, delle conseguenze che necessariamente comportano i mezzi utilizzati. Non si può risolvere e neanche soltanto porre un problema relativo alla guerra senza aver prima smontato il meccanismo della lotta militare, vale a dire analizzato i rapporti sociali che essa implica in determinate condizioni tecniche, economiche e sociali.
Di guerra in generale si può parlare solo in termini astratti; la guerra moderna differisce in modo assoluto da tutto quello che si designava con questo nome sotto i regimi precedenti. Da una parte la guerra non fa che prolungare quell’altra guerra che si chiama concorrenza, e che fa della produzione stessa una semplice forma della lotta per il predominio; dall’altra, tutta la vita economica è attualmente orientata verso una guerra a venire. In questo inestricabile intreccio del militare e dell’economico, in cui le armi sono messe al servizio della concorrenza e la produzione al servizio della guerra, la guerra si limita a riprodurre in maniera esasperata i rapporti sociali che costituiscono la struttura stessa del regime. Marx ha mostrato chiaramente che il modo di produzione moderno si definisce grazie alla subordinazione dei lavoratori agli strumenti di lavoro, strumenti che appartengono a quelli che non lavorano, e come la concorrenza, non conoscendo altra arma che lo sfruttamento degli operai, si trasformi nella lotta di ogni padrone contro i propri operai e, in ultima analisi, dell’insieme dei padroni contro l’insieme degli operai. Allo stesso modo la guerra, ai giorni nostri, si definisce in quanto subordinazione dei combattenti agli strumenti di combattimento; e gli armamenti, veri eroi delle guerre moderne, sono, al pari degli uomini consacrati al loro servizio, retti da coloro che non combattono. E poiché questo apparato dirigente non ha altro modo di sconfiggere il nemico che costringere i propri soldati ad andare incontro alla morte, la guerra di uno Stato contro un altro Stato si trasforma in guerra dell’apparato statale e militare contro il proprio esercito; e la guerra si presenta in definitiva come una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi in età da portare le armi. Senonché, mentre le macchine si limitano a strappare ai lavoratori la loro forza lavoro, e i padroni come strumento di coercizione hanno solo il licenziamento (arma resa meno efficace dalla possibilità che il lavoratore ha di scegliere fra i diversi padroni), ogni soldato è costretto a sacrificare la sua stessa vita alle esigenze della macchina militare, e vi è costretto con la minaccia di una condanna a morte senza appello che lo Stato tiene incessantemente sospesa sulla sua testa. A quel punto importa poco che la guerra sia difensiva o offensiva, imperialista o nazionale; ogni Stato in guerra è costretto a usare questo metodo, dal momento che lo usa il nemico. Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti. Qui il punto non sono riflessioni sentimentali o un rispetto superstizioso della vita umana, ma un’osservazione molto semplice: che il massacro è la forma più radicale di oppressione, e i soldati non si espongono alla morte, ma sono mandati al massacro. Come un apparato oppressivo, una volta costituito, sussiste finché non viene abbattuto, ogni guerra che fa pesare un apparato incaricato di dirigere le manovre strategiche sulle masse che vengono costrette a servire da masse di manovra dev’essere considerata come un fattore di reazione, anche se a farla sono dei rivoluzionari. Quanto alla portata esterna di una tale guerra, essa è determinata dai rapporti politici stabiliti all’interno: armi maneggiate da un apparato di Stato sovrano non possono apportare la libertà a nessuno.
È ciò che aveva capito Robespierre e che ha clamorosamente provato quella stessa guerra del 1792, dalla quale è nata la nozione di guerra rivoluzionaria. All’epoca la tecnica militare era ancora lontana dall’aver raggiunto il grado di centralizzazione odierno; e tuttavia, a partire da Federico II, la subordinazione dei soldati incaricati di eseguire le operazioni al comando supremo incaricato di coordinarle era rigidissima. Durante la Rivoluzione, una guerra doveva trasformare la Francia, come dirà Barère, in un immenso accampamento, e di conseguenza dare all’apparato statale quel potere inappellabile che pertiene all’autorità militare. È il calcolo che fecero nel 1792 la Corte e i Girondini: la guerra, che una leggenda troppo facilmente accolta dai socialisti ha presentato come uno slancio spontaneo del popolo insorto sia contro i propri oppressori sia contro i tiranni stranieri che li minacciavano, costituì di fatto una provocazione da parte della Corte e dell’alta borghesia unite in un complotto contro la libertà del popolo. In apparenza si sbagliarono, poiché la guerra, anziché apportare quell’unione sacra da loro sperata, esasperò tutti i conflitti, condusse il re, e poi i Girondini, al patibolo, e mise nelle mani della Montagna un potere dittatoriale. Il che non impedì che il 20 aprile 1792, giorno della dichiarazione di guerra, ogni speranza di democrazia svanisse per sempre; e al 2 giugno tenne dietro il 9 termidoro, le cui conseguenze dovevano ben presto portare al 18 brumaio. A che servì del resto a Robespierre e ai suoi amici il potere che esercitarono prima del 9 termidoro? Scopo della loro esistenza non era impadronirsi del potere, ma stabilire una democrazia effettiva, a un tempo democratica e sociale; per una cruenta ironia della storia, la guerra li costrinse a lasciare sulla carta la costituzione del 1793, a mettere in piedi un apparato centralizzato, a esercitare un terrore sanguinario che non riuscirono neppure a rivolgere contro i ricchi, ad annientare ogni libertà, e a farsi gli antesignani del dispotismo militare, burocratico e borghese di Napoleone. Almeno però rimasero lucidi fino all’ultimo. Due giorni prima di morire, Saint-Just scriveva questa formula profonda: «Sono soltanto quelli che partecipano alle battaglie a vincerle, e sono soltanto i potenti ad approfittarne» (2). Quanto a Robespierre, non appena si presentò il problema, capì che una guerra non solo non avrebbe liberato nessun popolo straniero («non si porta la libertà sulla punta delle baionette»), ma per di più avrebbe consegnato il popolo francese alle catene del potere statale, potere che non si poteva più cercare di indebolire dal momento che bisognava lottare contro il nemico esterno. «La guerra va bene per gli ufficiali, per gli ambiziosi, per gli aggiotatori … per il potere esecutivo … È una scelta che dispensa da ogni altro impegno, quando gli si è data la guerra ci si è sdebitati con il popolo» (3). Robespierre prevedeva sin da allora il dispotismo militare, e non smise di predirlo in seguito, malgrado i successi apparenti della Rivoluzione; lo prediceva ancora alla vigilia della sua morte, nell’ultimo discorso, e lasciò dietro di sé questa predizione come un testamento di cui quelli che si sono poi rifatti a lui non hanno purtroppo tenuto conto. La storia della Rivoluzione russa offre in tutto e per tutto gli stessi insegnamenti, e con un’analogia impressionante. La costituzione sovietica ha avuto la stessa identica sorte della costituzione del 1793; Lenin ha abbandonato le sue dottrine democratiche per istituire, come Robespierre, il dispotismo di un apparato statale centralizzato, ed è stato di fatto il precursore di Stalin, come Robespierre lo fu di Bonaparte. La differenza è che Lenin, il quale peraltro aveva già da tempo preparato questo dominio dell’apparato statale creando un partito fortemente centralizzato, deformò successivamente le proprie dottrine per adattarle alle esigenze del momento, sicché non finì ghigliottinato, e oggi è l’idolo di una nuova religione di Stato. Se c’è una cosa che colpisce, nella storia della Rivoluzione russa, è che la guerra costituisce costantemente il problema centrale. La rivoluzione venne fatta contro la guerra da soldati che, sentendo disgregarsi sulla loro testa l’apparato governativo e militare, si affrettarono a scuotere un giogo intollerabile. Kerenskij, evocando con una sincerità involontaria, dovuta all’ignoranza, i ricordi del 1792, appoggiò la guerra per gli stessi motivi avanzati a suo tempo dai Girondini: Trotzkij ha mirabilmente mostrato come la borghesia, contando sulla guerra per rinviare i problemi di politica interna e riportare il popolo sotto il giogo del potere statale, volesse trasformare «la guerra fino alla disfatta del nemico in una guerra per la disfatta della Rivoluzione» (4). I bolscevichi chiamavano alla lotta contro l’imperialismo; ma in questione era la guerra stessa, non l’imperialismo, come ebbero modo di constatare quando, una volta al potere, si videro costretti a firmare la pace di Brest-Litovsk. Il vecchio esercito si era disgregato, e Lenin aveva affermato sulla scia di Marx che la dittatura del proletariato non può comportare né esercito, né polizia, né burocrazia permanenti. Ma le armate bianche e il timore di interventi stranieri non tardarono a mettere l’intera Russia in stato di assedio. L’esercito fu ricostituito, l’elezione degli ufficiali soppressa, trentamila ufficiali del regime precedente reintegrati nei ranghi, la pena di morte, la vecchia disciplina e la centralizzazione furono ristabilite; parallelamente si andavano ricostituendo la burocrazia e la polizia. Tutti sanno cosa abbia fatto in seguito del popolo russo questo apparato militare, burocratico e poliziesco.
La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione, e tale resterà fintanto che non si sarà dato modo ai soldati stessi, o meglio ai cittadini armati, di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza giurisdizione speciale, senza pene per i disertori. Una sola volta, nella storia moderna, la guerra si è combattuta così, durante la Comune: e sappiamo bene com’è andata a finire. Sembra che una rivoluzione impegnata in una guerra non abbia altra scelta che soccombere sotto i colpi micidiali della controrivoluzione, o trasformarsi a sua volta in controrivoluzione proprio grazie al meccanismo della lotta militare. A questo punto le prospettive di una rivoluzione sembrano assai ridotte: come può una rivoluzione evitare la guerra? Eppure è su questa labile possibilità che occorre puntare, o abbandonare ogni speranza. L’esempio che abbiamo sotto gli occhi dovrebbe metterci sull’avviso. In caso di rivoluzione, un paese progredito non incontrerebbe le difficoltà che, nella Russia retrograda, servono da base al barbaro regime di Stalin; ma una guerra di una certa portata gliene provocherebbe altre per lo meno equivalenti.
A maggior ragione, una guerra intrapresa da uno Stato borghese non può che trasformare il potere in dispotismo, e l’asservimento in assassinio. Se la guerra si presenta talvolta come un fattore rivoluzionario è solo perché costituisce una prova incomparabile per il funzionamento dell’apparato statale. A contatto con la guerra, un apparato mal organizzato si disgrega; ma se la guerra non termina al più presto e per sempre, o se la disgregazione non è andata abbastanza avanti, si avranno solo quelle rivoluzioni che, secondo la formula di Marx, anziché distruggere l’apparato statale lo perfezionano. È quello che finora si è sempre verificato. Ai giorni nostri, la difficoltà che la guerra non fa che acuire è quella che nasce da una rivalità sempre più grande fra l’apparato statale e il sistema capitalistico; il caso di Briey durante l’ultima guerra ne è un esempio clamoroso. L’ultima guerra ha conferito ai diversi apparati di Stato una certa autorità sull’economia, mettendo in uso l’espressione assolutamente erronea di «socialismo di guerra»; dopo di che il sistema capitalista si è rimesso a funzionare in maniera più o meno normale, a dispetto delle barriere doganali, del contingentamento e delle monete nazionali. In una prossima guerra le cose andrebbero senz’altro molto più lontano, e noi sappiamo che la quantità è in grado di trasformarsi in qualità. In questo senso, la guerra può costituire ai giorni nostri un fattore rivoluzionario, ma solo a voler intendere il termine rivoluzione nell’accezione adottata dai nazionalsocialisti: come la crisi, la guerra provocherebbe una viva ostilità contro i capitalisti, e tale ostilità, favorita dall’«unione sacra», tornerebbe a vantaggio dell’apparato statale e non dei lavoratori. Del resto, per riconoscere la profonda parentela che lega il fenomeno della guerra a quello del fascismo, basta rifarsi ai testi fascisti che evocano lo «spirito guerriero» e il «socialismo del fronte». In entrambi i casi abbiamo a che fare con una cancellazione totale dell’individuo di fronte alla burocrazia statale con il sostegno di un fanatismo esasperato. Se il capitalismo ne esce più o meno danneggiato, è però solo a spese e non a beneficio dei valori umani e del proletariato, per quanto lontano possa forse spingersi in certi casi la demagogia.
Risulta quindi lampante l’assurdità di una lotta antifascista che assumesse la guerra come strumento d’azione. Non solo si finirebbe per combattere un’oppressione barbara schiacciando i popoli sotto il peso di un massacro ancora più barbaro, ma si finirebbe per estendere sotto altra forma il regime che si vuole sopprimere. È puerile supporre che un apparato statale reso potente da una guerra vittoriosa si metta ad alleviare l’oppressione che esercita sul proprio popolo l’apparato statale nemico, ed è ancora più puerile credere che, approfittando della sconfitta, lascerebbe scoppiare una rivoluzione proletaria in mezzo a quel popolo senza soffocarla subito nel sangue. Quanto alla democrazia borghese annientata dal fascismo, una guerra non abolirebbe, bensì rafforzerebbe ed estenderebbe le cause che la rendono attualmente impossibile. Sembra che in genere la storia costringa sempre più ogni azione politica a scegliere tra l’aggravarsi dell’oppressione intollerabile che esercitano gli apparati statali e una lotta senza quartiere rivolta direttamente contro di essi per distruggerli. Certo, le difficoltà forse insormontabili che si presentano ai giorni nostri possono giustificare l’abbandono puro e semplice della lotta. Ma se non si vuol rinunciare ad agire, bisogna comprendere che non si può lottare contro un apparato statale se non dall’interno. E, soprattutto in caso di guerra, bisogna scegliere fra l’intralciare il funzionamento della macchina bellica, della quale siamo un ingranaggio, e l’aiutare quella macchina a stritolare alla cieca le vite umane. La celebre espressione di Liebknecht: «Il nemico principale è nel nostro stesso paese» acquista così tutto il suo significato, e si rivela applicabile a ogni guerra in cui i soldati sono ridotti allo stato di materia passiva in mano a un apparato militare e burocratico – vale a dire, fintanto che persisterà la tecnica attuale, a ogni guerra in senso assoluto. E ai giorni nostri non è dato intravedere l’avvento di un’altra tecnica. Nella produzione come nella guerra, la maniera sempre più collettiva in cui viene effettuato il dispendio delle forze non ha modificato il carattere essenzialmente individuale delle funzioni decisionali e direttive, e non ha fatto che mettere sempre più a disposizione degli apparati di comando le braccia o la vita delle masse.
Finché non scopriremo come sia possibile evitare, all’atto stesso di produrre o di combattere, questo dominio degli apparati sulle masse, ogni tentativo rivoluzionario avrà qualcosa di disperato: pur sapendo infatti quale sistema di produzione o di combattimento aspiriamo con tutta l’anima a distruggere, ignoriamo quale sistema accettabile potrebbe sostituirlo. D’altro canto, ogni tentativo di riforma sembra puerile rispetto alle cieche esigenze chiamate in causa dal funzionamento di questo congegno mostruoso. La società attuale somiglia a un’immensa macchina che risucchi incessantemente degli uomini, e di cui nessuno conosca i comandi; e coloro che si sacrificano per il progresso sociale sono come persone che si aggrappano agli ingranaggi e alle cinghie di trasmissione per cercare di fermare la macchina, facendosi stritolare a loro volta. Ma l’impotenza in cui ci si trova a un certo punto, impotenza che non è mai da ritenere definitiva, non dispensa dal restare fedeli a se stessi, né giustifica la capitolazione davanti al nemico, indipendentemente dalla maschera che assume. E di qualunque nome esso si fregi – fascismo, democrazia o dittatura del proletariato –, il nemico principale resta l’apparato amministrativo, poliziesco e militare; non quello che ci fronteggia, e che è nostro nemico solo in quanto lo è dei nostri fratelli, ma quello che si dice nostro difensore e fa di noi i suoi schiavi. In qualunque circostanza, il peggior tradimento possibile consiste sempre nell’accettare di sottomettersi a questo apparato e, per servirlo, di calpestare in sé come negli altri tutti i valori umani.
(1) Der Sozialismus in Deutschland, apparso in «Die neue Zeit», I, 19, 1891-1892, e, in francese, in «L’Almanach du Parti ouvrier pour 1892».
(2) In Discours et rapports, a cura di A. Soboul, Éditions Sociales, 1957, p. 208 (discorso del 27 luglio 1794).
(3) In Textes choisis, a cura di J. Poperen, Éditions Sociales, vol. I, 1956, pp. 129, 136, 137 (discorsi del 2 e 11 gennaio 1792).
(4) In Histoire de la Révolution russe, vol. I, Le Seuil, 1967, p. 316.
[La Critique sociale, novembre 1933]