Dell’incompatibilità (it/fr)

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Se spesso è indubbiamente più comodo tacere, certi silenzi possono anche diventare insopportabili. È perciò che, malgrado tutto, abbiamo preferito prendere la parola.
Come voi, abbiamo visto che sono in corso tre iniziative in tre diverse città italiane in cui sono giunti alcuni compagni di Bruxelles a parlare della lotta contro la maxi-prigione. Se si tratta di una lotta specifica in un luogo determinato, è pur vero che la questione riguarda potenzialmente tutti gli anarchici e altri ribelli, anche al di là delle frontiere statali.

Fin dall’inizio di questa lotta ci sono stati infatti anarchici, provenienti un po’ dappertutto, che se ne sono interessati, che l’hanno difesa, che vi hanno partecipato in diverse maniere. Ciò non costituisce solo un piccolo extra, questa dimensione internazionale si è radicata nella progettualità stessa di questa lotta. E al di là del fatto se il conflitto avvenga attorno alla costruzione di una maxi-prigione, di un aeroporto, di una miniera d’oro o se è una rivolta che infiamma le strade delle metropoli o i sentieri delle campagne, è la questione della progettualità insurrezionale che dovrebbe essere il fulcro degli scambi fra compagni, e questo a livello internazionale.

Per quanto siamo lieti che compagni di altri paesi organizzino iniziative per discutere di questa lotta, che compagni coinvolti nella lotta prendano il tempo di viaggiare e portare il dibattito ben più lontano della capitale belga, c’è qualcosa di amaro che ci è rimasto in gola. E scriviamo questa lettera per parlarne.
Ovunque ci siano anarchici in lotta, si pongono problematiche abbastanza difficili. Quale progettualità è dietro alla lotta? Come difendere l’auto-organizzazione e l’autonomia della lotta di fronte alle correnti politiche, ai recuperatori, agli autoritari? Come controbattere alla repressione che cerca di isolare gli elementi più incontrollabili? Si è avuto occasione di affrontare queste problematiche nel corso di tale lotta a Bruxelles e senza dubbio se ne avrà l’occasione in avvenire. Come quando i compagni non hanno smesso di insistere sulla necessità dell’attacco e dell’ostilità verso lo Stato e le istituzioni, così come nei momenti in cui i giornalisti hanno fatto aleggiare lo spettro del terrorismo su questa lotta, quando i cittadinisti ed altri si sono pubblicamente distanziati dalle azioni dirette, quando la repressione è venuta a bussare alla porta. Come quando i compagni in lotta contro la maxi-prigione hanno mandato a cagare i piccoli politicanti che volevano aggrapparsi all’agitazione autonoma che si sviluppa nei quartieri bassi di Bruxelles, quando i giornalisti sono stati mandati a cagare, quando quelli che sognavano forse di trasformare questa battaglia in piccoli bracci di ferro fra militanti e responsabili politici sono stati mandati a quel paese. Sono momenti che segnano una lotta, che ne determinano il carattere insurrezionale e anti-istituzionale, che possono renderla incontrollabile e irrecuperabile.
Tutto ciò sarà forse meglio affrontato nel corso di queste serate di discussione. Viceversa, ciò che probabilmente non sarà affrontato è la questione se le modalità richieste per tale scambio, uno scambio sulle prospettive di una progettualità insurrezionale e autonoma, siano in effetti riunite laddove questi dibattiti hanno luogo. Così come non si può parlare di libertà all’ombra di una chiesa, è difficilmente immaginabile (se non ai ferri corti) parlare di conflittualità permanente all’ombra di pratiche di conflittualità alternata (un giorno «morte agli sbirri», l’indomani «l’incolumità» per gli infiltrati; un giorno la «solidarietà coi compagni detenuti», l’indomani la tacita accoglienza del «sostegno» di magistrati e preti; un giorno l’ostilità verso le istituzioni, l’indomani le alleanze con forze para-istituzionali…). Possono essere commessi errori, possono essere fatte cattive valutazioni, ma se si discute lo si fa per superarli definitivamente, non per teorizzarli come facenti parte dell’arsenale dei metodi di lotta anarchica e giustificarli (nel passato, nel presente e dunque, tragicamente, in futuro).
Questa conflittualità alternata, che vediamo diffondersi in Italia da qualche tempo, è a mille miglia di distanza da ciò che questa lotta contro la maxi-prigione cerca di fare. Forse, allora, dei dibattiti potrebbero provocare aperture per gettare una buona volta nella pattumiera le pratiche da politicanti che stanno infestando il movimento anarchico, l’abbandono dell’etica a favore della strategia, la calunnia e la minaccia invece del dibattito critico. Sarebbe davvero magnifico e incredibile se una modesta esperienza come la lotta contro la maxi-prigione potesse apportare qualche elemento in tal senso. Sarebbe una dimostrazione che le progettualità autonome e insurrezionali non conoscono frontiere, che possono incontrarsi e rafforzarsi, sostenersi e aiutarsi a vicenda. Ma siamo sicuri di poterlo fare in mezzo a contesti lungi dall’essere (una buona volta) “risolti”, di dissociazioni da azioni dirette, di fallimento totale ed eclatante della strategia politica adottata da certi anarchici in diverse occasioni e della perdita della loro stessa anima che fatalmente ne consegue, dell’insopportabile danza macabra di alleanze politiche, giochi di rappresentazione, e delega operativa?
Allora, se la scelta non può essere quella della rassegnazione, se non possiamo proprio dirci «ma lasciali pisciare e continua per la tua strada», se non abbiamo voglia di partecipare a simili dibattiti in luoghi in cui, per volontà o per omissione o per comodità, sembra essere portato piuttosto il contrario di ciò che una lotta come quella contro la maxi-prigione cerca di sperimentare, nemmeno il silenzio può essere una possibilità.
Sia chiaro che noi non siamo affatto del parere che sarebbe errato voler portare la discussione sulle metodologie di lotta e le prospettive anarchiche dappertutto. Al contrario, è tanto meglio. Forse questa lettera può quindi essere letta come un contributo a tale discussione. Ma non possiamo accettare senza proferir parola che ci sia chi pratica la conflittualità alternata e il gioco delle alleanze e poi si serva di una esperienza di conflittualità permanente e di autonomia come se si trattasse della stessa cosa, compatibile e complementare. Come se, in Italia come altrove, non ci fossero comunque dei compagni, per quanto pochi possano essere, per quanto sfavorevoli siano le condizioni dello scontro, per i quali i fini e i mezzi devono coincidere, per i quali l’etica anarchica non è alternabile, per i quali l’autonomia non è sacrificabile sull’altare della quantità e dei potenziali applausi.
Perché appunto, ci sono lotte ed esperienze in corso, e sotto certi aspetti la lotta specifica contro la maxi-prigione a Bruxelles può costituirne un esempio, che dimostrano che per sviluppare una lotta insurrezionale (con altri ribelli e rivoltosi non anarchici), non c’è alcun bisogno di lasciare le nostre idee e i nostri metodi di lotta alla porta d’ingresso dell’occupazione, della valle, delle miniere, delle foreste. In questi tempi oscuri, questi sono alcuni punti di dibattito importanti per gli anarchici che non hanno abbandonato l’idea della rivoluzione sociale. La quantità non deve mai prevalere sulla qualità. E la ricerca della qualità non ci impedisce affatto di intervenire nei rapporti sociali su cui è basato il dominio. Con un po’ di buona volontà e il rifiuto radicale della politica, certe false opposizioni che incancreniscono lo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria anarchica non avrebbero più luogo d’essere.
Esistono fossati che sono invalicabili. Colui che vi si avventura comunque, fa un salto mortale. È un salto mortale ritenere che etica e strategia possano andare insieme. È un salto mortale pensare che uomini di potere (politici, magistrati, rappresentanti del sapere universitario, leader di organizzazioni politiche, esperti, eletti, preti,…) e autonomia di lotta siano complementari. È un salto mortale credere che la conflittualità permanente non escluda, sempre e dappertutto, qualunque dialogo col potere, per quanto insidioso e camuffato sia tale dialogo. È un salto mortale presumere che la pratica del sabotaggio richieda l’approvazione di una qualsiasi assemblea o la legittimazione di un Movimento. Questi salti mortali sono pugnali piantati nel cuore dell’anarchismo, e non dovremmo mai stancarci di difenderci da essi.
De l’incompatibilité

De l’incompatibilité

S’il est sans doute souvent plus confortable de se taire, certaines silences peuvent aussi devenir insupportables. C’est pour cela que malgré tout, nous avons préféré de prendre la parole.

Comme vous, nous avons vu qu’il y a trois initiatives dans trois differents villes italiennes où quelques compagnons de Bruxelles viendront parler sur la lutte contre la maxi-prison. S’il s’agit d’une lutte spécifique dans un espace déterminé, il est vrai que la question peut possiblement concerner tous les anarchistes et d’autres revoltés, aussi au-délà des frontières étatiques. Depuis le début de cette lutte, il y a eu en effet des anarchistes d’un peu partout qui s’y sont intéressés, qui l’ont defendu, qui y ont participé de differentes manières. Cela n’est pas juste une petite chose en plus, cette dimension internationaliste s’est vraiment enracinée dans la projectualité même de cette lutte. Et au-délà du fait si le conflit se déroule autour de la construction d’une maxi-prison, d’un aeroport, d’une mine d’or ou si c’est une révolte qui vient enflammer les rues des metropoles ou les sentiers des campagnes, c’est la question de la projectualité insurrectionelle qui pourrait être au coeur des échanges entre compagnons, et cela à un niveau international.

Pour autant que cela nous réjouit que des compagnons d’ailleurs organisent des initiatives pour discuter sur cette lutte, que des compagnons impliqués dans la lutte prennent le temps pour voyager et porter le debat bien loin de la capitale belge, il y a quelque chose d’amer qui nous est resté dans la gorge. Et on écrit cette lettre pour en parler.

Partout où des anarchistes sont en lutte, des problématiques assez difficiles se posent. Quelle projectualité derrière la lutte ? Comment défendre l’auto-organisation et l’autonomie de la lutte face aux courants politiques, aux récuperateurs, aux autoritaires ? Comment faire face à la repression qui cherche à isoler les éléments les plus incontrôlables ? On a eu l’occasion de les affronter lors de cette lutte à Bruxelles et on aura sans doute encore l’occasion dans l’avenir. Comme quand les compagnons n’ont pas arrêté d’insister sur la nécessité de l’attaque et de l’hostilité envers l’Etat et les institutions, aussi aux moments où les journalistes ont fait planer le spectre du terrorisme sur cette lutte, quand les citoyennistes et d’autres se sont publiquement distanciés des actions directes, quand la répression est venue toquer à la porte. Comme quand les copains en lutte contre la maxi-prison ont envoyé chier les petits politiciens qui voulaient s’aggriper à l’agitation autonome qu’on développe dans les bas-quartiers de Bruxelles, quand les journalistes ont été envoyés chier, quand ceux qui rêvaient peut-etre de transformer cette bataille en petit bras-de-fer entre militants politiques et responsables institutionnelles ont été envoyé ballader. Ce sont des moments qui vont marquer une lutte, qui déterminent même son caractère insurrectionnel et anti-institutionnel, qui peuvent la rendre irrecuperable et incontrôlable.

Mais tout ça sera sans doute mieux abordé lors de ces soirées de discussion. Ce qui ne sera peut-être pas abordé par contre, c’est de se demander si les modalités requises pour un tel échange, un échange sur les perspectives d’une projectualité insurrectionelle et autonome, sont en effet réunies là où ces débats ont lieu. Tout comme on ne peut pas parler de liberté à l’ombre d’une église, il est difficilement imaginable (sauf qu’à couteaux tirés) de parler de conflictualité permanente à l’ombre de pratiques de conflictualité alternée (“mort aux flics” un jour, “l’incolumnité” pour les indicateurs le lendemain ; la “solidarité avec les compagnons incarcerés” un jour, l’accueil silencieux du “soutien” de magistrats et prêtres apres-demain ; l’hostilité envers les institutions un jour, les alliances avec des forces para-institutionnelles le lendemain ;…). Des erreurs peuvent être commises, des mauvais évaluations peuvent être faites, mais si on en discute, cela doit être pour les dépasser définitivement, par pour les théoretiser comme faisant partie de l’arsenal de méthodes de lutte anarchistes et les justifier (dans le passé, le présent et donc tragiquement l’avenir).

Cette conflictualité alternée, qu’on a cru voir se repandre en Italie depuis quelques temps, est à mille lieux de ce que cette lutte contre la maxi-prison essaye de faire. Alors, effectivement, peut-être des débats pourraient créer des ouvertures pour jeter une fois pour toutes à la poubelle les pratiques de politiciens qui ont envahi le mouvement anarchiste, l’abandon de l’éthique en faveur de la strategie, la calomnie et la menace plutôt que le débat critique. Ce sera réellement magnifique et incroyable si une modeste expérience telle que la lutte contre la maxi-prison pourrait apporter des éléments à ce fin. Ce serait une démonstration que les projectualités autonomes et insurrectionnelles ne connaissent pas de frontières, qu’elles peuvent se rencontrer et se renforcer, se soutenir et s’entre-aider. Mais est-on sûr de pouvoir faire ça au milieu d’histoires loin d’ être définitivement adressées (dans le bon sens) de dissociations d’actions directes, de l’échec total et éclatant de la stratégie politique adoptée par certains anarchistes à differentes occasions et la perte de leur âme même qui en suit fatalement, de l’insupportable danse macabre d’alliances politiques, de jeux de représentation, de délegation operationnelle ?

Alors, si le choix ne peut pas etre celui de la résignation, si on ne peut pas juste se dire “mais laisse pisser et continue ta route”, si on n’a pas envie d’aller participer à de tels debats dans des endroits où, par volonté ou pour omission ou par comodité, semble plutot être porté le contraire de ce qu’une lutte comme telle contre la maxi-prison cherche à expérimenter, le silence n’a pas non plus été une possibilité.

Qu’il soit clair que nous ne sommes pas du tout de l’avis qu’il serait érroné de vouloir porter le debat sur les methodologies de lutte et les perspectives anarchistes partout. Bien au contraire, c’est tant mieux. Peut-être cette lettre peut alors être lue comme une contribution à a ce débat. Mais on ne saurait accepter sans broncher qu’il y en a qui pratiquent la conflictualité alternée et le jeu des alliances se saissisent d’une expérience de conflictualité permanente et d’autonomie comme s’il s’agissait de la meme chose, compatible et complémentaire. Comme si, en Italie comme ailleurs, il n’y aurait pas toujours des compagnons, aussi peu nombreux soient-t-ils, aussi défavorables puissent être les conditions de l’affrontement, pour qui les fins et les moyens doivent coincider, pour qui l’éthique anarchiste n’est pas alternable, pour qui l’autonomie n’est pas sacrifiable sur l’autel de la quantité et des potentiels applaudissements.

Car justement, il y a des luttes et des expériences en cours, et sous en certain aspects la lutte spécifique contre la maxi-prison à Bruxelles en peut être un exemple, qui démontrent que pour dévélopper une lutte insurrectionnelle (avec d’autres rebelles et revoltés qui ne sont pas des anarchistes), il n’y a aucun besoin de laisser nos idées et nos méthodes de lutte à la porte d’entrée de l’occupation, de la vallée, des mines, des forests, des quartiers. Dans ces temps obscures, ce sont certes des points de débat importants pour les anarchistes qui n’ont pas abandonnée l’idée de la révolution sociale. La quantité ne doit jamais l’emporter sur la qualité. Et la récherche de la qualité ne nous empêche en rien d’intervenir dans les rapports sociaux sur lesquels la domination est basée. Avec un peu de bonne volonté et le rejet radical de la politique, certains fausses oppositions qui gangrènent le développement d’une perspective révolutionnaire anarchiste n’aurait plus lieu d’être.

Mais il existe des fossés qui sont infranchissables. Celui qui s’y aventure quand même, fait un salto mortale. C’est un salto mortale de croire que éthique et stratégie peuvent aller ensemble. C’est un salto mortale de croire que hommes de pouvoir (politiciens, magistrats, représentants du savoir universitaire, chefs d’organisations politiques, experts, élus, prêtres,…) et autonomie de lutte sont complémentaires. C’est un salto mortale de croire que la conflictualité permanente n’exclut pas, toujours et partout, quelconque dialogue avec le pouvoir, aussi insidieux et camouflé qu’il soit. C’est un salto mortale de croire que la pratique du sabotage réquiert l’approbation d’une quelconque assemblée ou la légitimation par un Mouvement. Ces saltos mortales sont des poignards plantés au coeur de l’anarchisme, et on ne devrait pas se fatiguer de s’en défendre.

Quelques absents

http://cettesemaine.info/breves/spip.php?article1416&lang=fr