Gli Hotspot: nuovi modelli di controllo e carcerazione

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Si considerava opportuno dire qualche parola sui cambiamenti attuali legati alla detenzione amministrativa e alla  gestione degli immigrati. Qualche considerazione, senza pretese geopolitiche, rispetto agli sviluppi in corso in Europa.
Per una visione un po’ più ampia, si rimanda alla lettura dell’opuscolo “Considerazioni sulla detenzione amministrativa  in Italia” del Settembre 2015 (1), di cui questo scritto è una parte integrativa e aggiornata.

Il 25 giugno 2015 si è svolto, a Bruxelles, il vertice europeo sull’immigrazione. La necessità di tale appuntamento si è manifestata in seguito ad un intensificarsi degli sbarchi nelle regioni dell’Europa meridionale, la cui tragicità ha avuto il suo apice con la strage del Canale di Sicilia del 18 aprile 2015 (2). Il  vertice ha affrontato diversi argomenti, facendosi portavoce di minacce gravi, come quelle di attacchi ai  barconi degli scafisti, secondo alcuni dei veri e propri possibili bombardamenti in Libia. Lasciando da parte i  proclami belligeranti, prendiamo in considerazione due dei punti trattati, sicuramente, tra quelli più  preoccupanti: le quote e gli Hotspot.

Le quote

Allo scopo di affrontare le problematicità portate dal regolamento “Dublino II” (formalmente regolamento  2003/343/CE) (3), gravante soprattutto sui paesi di primo arrivo come l’Italia e la Grecia, l’Europa ha stilato un  piano di riorganizzazione degli immigrati richiedenti asilo attraverso delle quote da redistribuire tra i  differenti Stati membri. L’entità della quota dipende dalle caratteristiche del paese e segue tre criteri: Pil,  popolazione, tasso di disoccupazione. Il testo della Bozza Ue che cambia, quindi di fatto, il regolamento di  Dublino II, non ha preso la forma dell’obbligo, ma quella dell’impegno volontario e vincolante. Secondo i  calcoli dell’Ue, dovrebbe avvenire nel giro di due anni, tra reinsediamenti e ricollocazioni, uno spostamento controllato di 160.000 rifugiati e richiedenti asilo da Italia, Grecia, Ungheria e campi profughi extra-europei  verso gli altri Stati membri.

Come si evince dalle tabelle stabilite provvisoriamente a Bruxelles nel 2015 (4), la Germania dovrebbe  accogliere il 15,43 per cento dei 20.000 sfollati prelevati dall’Europa nei campi profughi in Libano e Turchia.  Alla Francia spetterebbe l’11,87 per cento, 2.375 richiedenti asilo. L’Italia è terza tra gli stati membri, con il  9,94 per cento: 1.989 profughi. Quanto ai richiedenti asilo “già presenti in Europa”, la quota da assegnare  all’Italia sarebbe dell’11,84%. Una percentuale che l’Italia, di fatto, avrebbe già ampiamente superato:  motivo per cui l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue ha fatto sapere che “l’Italia sarà  esonerata” dal dover accogliere nuove quote di profughi. È necessario sottolineare che il dibattito europeo  è ancora in corso e il coordinamento tra gli Stati è ostacolato dall’ostilità di molti membri Ue che rendono  ancora provvisori i termini degli accordi e delle cifre. Più in generale, tutto il sistema quote tarda a mettersi  in moto e fino ad ora è risultato completamente fallimentare. L’opposizione di molti stati e la macchinosità  del sistema Hotspot a esse correlato, hanno fino ad ora raggiunto scarsissimi risultati. Si pensi che su 8.000  persone al mese da ripartire, fino al gennaio 2015, solo 272 hanno avuto accesso alle suddette quote e  ricollocate.

Ciò che non emerge dal vertice e neanche dalla stampa, tranne rari casi (5), è l’interrogativo sul come  avvengano i ricollocamenti e i reinsediamenti dei richiedenti. Se il sistema in futuro iniziasse a funzionare,  considerando l’obbligatorietà dei trasferimenti e, in tutti i modi, la possibilità che avvengano delle  suddivisioni a scadenze mensili di persone, a cosa stiamo andando incontro? A quanto pare, un’ipotesi  tutt’altro che suggestiva è quella di un cambiamento sostanziale della disciplina della richiesta di  protezione. I Cara, Centri per richiedenti asilo, sono strutture semi detentive dove i richiedenti dovrebbero  rimanere per circa 20-30 giorni, il tempo di espletare la propria domanda, che sarà rigettata o accettata. Il  non rispetto delle regole interne, quindi del rientro notturno, ad esempio, fa cadere, quasi  immediatamente, il diritto all’accoglienza nella struttura (6) . Un immigrato può, quindi, allontanarsi dalla  struttura in qualsiasi momento e non farvi ritorno, pena unicamente la perdita della possibilità di  accoglienza. Se, invece, una porzione di richiedenti dovrà essere trasferita in altre zone d’Europa, lo  spostamento avrà i caratteri della coattività, quindi, dovranno nascere forzatamente delle strutture altre  rispetto a quelle attuali, dove i richiedenti asilo si troveranno in un regime detentivo a tutti gli effetti per un  periodo di tempo che ancora non è stato stabilito. È la prima volta, dopo parecchi anni, che si vedono  all’orizzonte le carceri per richiedenti asilo e profughi. L’accesso alle quote, come testimoniato dagli  accadimenti nell’isola di Lampedusa (7), viene da molti immigrati perentoriamente rifiutata, a causa della non  accettazione del luogo di destinazione. Al momento, la soluzione trovata per convincere i richiedenti a  partire sarebbe quella di una vera e propria “réclame” del luogo scelto. Ad esempio, chiamare tramite  Skype chi è stato già ricollocato, il quale dovrebbe tessere le qualità del posto, oppure una promessa d’”empowerment” del richiedente, attraverso la raccolta dei suoi titoli lavorativi e di studio per un futuro  prossimo lavoro; lo scopo, insomma, è stimolare un atteggiamento positivo nei confronti dei paesi i cui si  viene ricollocati. Sembra ovvio che tali dispositivi siano fin troppo banali e soprattutto fallimentari  nell’impedire dispersioni, dinieghi e allontanamenti e che presagiscano, invece, strumenti contenitivi più  efficaci.

Gli Hotspot

L’Europa ha espresso, in più occasioni, poca fiducia nei confronti dei Paesi di primo arrivo. Molti Stati  membri dell’Ue rimproverano loro un’inefficienza di base nella gestione degli immigrati, soprattutto  un’incapacità nella schedatura e trattenimento di uomini, donne e bambini appena sbarcati sulle coste. I  Cpsa e i Cda (8) non funzionano come dovrebbero, le attese sono più lunghe delle 48 ore previste, vi è  un’ampia dispersione dovuta agli allontanamenti e alle fughe; una mancanza d’efficacia nell’identificazione.  Questi luoghi, che, di fatto, dovrebbero essere l’anticamera di Cie o Cara, non riescono a espletare la loro  funzione come dovrebbero. A causa di questa inefficienza, all’interno dei Cara arrivano diversi tipi  d’immigrati, di cui non tutti hanno le stesse chance di accedere a una qualche protezione; alcuni stanno  barando o mentendo sulla propria situazione, altri appena sbarcati si perdono sul territorio nazionale, per  poi ripresentarsi alla frontiera con la Francia o magari a Calais. Insomma una situazione caotica ed  ingestibile. Come risolvere tale problema? Per dare una risposta effettiva a tale quesito nasce, in seno al  vertice, l’idea degli Hotspot.

Di cosa si tratta? L’Hotspot, termine che indica una zona calda in quanto problematica, ha la forma di un Centro chiuso, che assume, da un lato, il compito di prima accoglienza e soccorso e, dall’altro, di  accertamento rapido ed efficace dell’identità dell’immigrato. Una struttura, rigorosamente ubicata al sud  dell’Italia, in cui si dovrebbe pervenire, quindi, a seguito dei primissimi soccorsi, a un’immediata e precisa  identificazione. Tale step avrebbe lo scopo di attuare una prima, importante, scissione tra immigrati  economici (9), per cui si richiede un rimpatrio veloce, e potenziali richiedenti asilo. Operata tale suddivisione,  in un tempo di 48 ore, ma che di fatto non viene mai rispettato, i primi dovrebbero essere spediti verso i  Centri d’identificazione ed espulsione oppure essere espulsi con un decreto di allontanamento, i secondi,  invece, dovrebbero vedersi aprire le porte dei Cara e accedere alle differenti protezioni.

Appena arrivato all’interno della struttura, con modalità poco consone, viene consegnato all’immigrato il  c.d. “foglio notizie”, un documento da compilare dove scrivere i dati anagrafici, la provenienza e le possibili  richieste. Sulla base dei dati gli addetti dell’Ue opteranno per le domande di protezione oppure per il  percorso d’allontanamento. La grande novità di questi luoghi è che, in pratica, le domande di protezione  sono strettamente collegate alla nazionalità del richiedente. Benché il ministero faccia dei voli pindarici e cerchi delle giustificazioni, come all’interno del testo denominato “Roadmap 2015” (10), documenti consegnati  all’interno dell’Hotspot di Lampedusa e varie testimonianze attestano che le uniche tre nazionalità che  possono fare richiesta di protezione e accedere alle relocation sono rigorosamente quella eritrea, irakena e  siriana, perché solo queste tre Paesi sono considerati scenari di guerra. Chiunque non provenga da questi  stati è di fatto escluso dalle richieste. Negli altri Hotspot italiani avviene quasi la stessa divisione, con  qualche specificità, ma pur sempre correlata a un’arbitrarietà di base nelle decisioni. La realtà di questi  luoghi non solo è caratterizzata dall’arbitrarietà legata alla presunta nazionalità, ma anche a distinzioni, sulla  base della risposta affermativa alla domanda “Sei qui per lavorare?” (11) , questione che attesterebbe l’appartenenza o meno alla categoria del “migrante economico”.

È importante precisare che quello dell’Hotspot è definito in quanto “approccio-emergenziale”, un insieme  cioè di pratiche attivabili in Europa, in tutti quegli Stati in cui si presenti una situazione considerata  d’urgenza. All’interno degli Hotspot, oltre alla presenza di Polizia, medici e lavoranti dell’ente gestore, hanno  un ruolo centrale nel controllo dell’iter d’identificazione niente meno che le quattro agenzie europee  Frontex (che ha aperto una sede, ma ancora vuota, a Catania) (12), Easo ed Europol ed Eurojust, impegnate  nelle operazioni di screening e debriefing dell’immigrato. A latere di queste agenzie, vi sarebbe la presenza  sporadica e non dell’Unhcr (che lavora con Easo), Save the children e dell’Oim.

Il principale problema dell’Hotspot, in generale definibile come l’incubo del controllo dell’immigrazione,  ruota intorno al prelievo delle impronte. Senza la schedatura dell’immigrato appena sbarcato, infatti, crolla  inevitabilmente tutto il sistema Hotspot e il sistema quote ad esso correlato, che proprio sulla problematica  delle impronte ha dovuto edificarsi. Una bega non di poco conto per i Ministeri. Come sappiamo, infatti, in  Italia il prelievo delle impronte avviene solo nei confronti di un soggetto in stato di fermo (13) e chiaramente  una persona appena sbarcata non lo è e nessun giudice, se non in alcuni casi, può ordinare il prelievo  coatto. Benché d’identificazioni extra-legali ne siano già avvenute (14) e continuino ad avvenire, benché gli sbarcati vengano assediati di domande già sulle navi di recupero e vengano messi in fila ancora bagnati di  fronte alle macchine per i rilievi dattiloscopici senza che venga loro spiegato nulla, questi escamotage  continuano, il più delle volte, a fallire. Una soluzione al problema, come esposto da alcuni (15), potrebbe  essere l’accompagnamento in un Cie per chi si rifiuta di farsi identificare, struttura nella quale il giudice può  ordinare legalmente il prelievo. Tale modalità, però, considerando l’alto numero dei reticenti, è in pratica  irrealizzabile soprattutto per la mancanza di posti disponibili per il trattenimento. La strada da seguire,  quindi, più volte caldeggiata da istituzioni e agenzie europee (16) , dovrebbe essere più netta, con risultati più  profondi e impattanti di quello che immaginiamo. Il prelievo delle impronte dovrebbe essere cioè  obbligatorio, quindi imponibile anche con la forza, anche per chi non è in stato di fermo, gli appena sbarcati  in questo caso. S’intravede quindi un processo di modifica del Diritto comunitario allo scopo di un  adeguamento alle necessità repressive e di controllo dell’immigrazione. Come sappiamo i cambiamenti  legislativi considerati emergenziali, permettono il passaggio d’applicazione da un piccolo gruppo di persone  con particolari caratteristiche, gli immigrati appena sbarcati in tal caso, alla popolazione più ampia, facendo  dei primi un vero e proprio “laboratorio giuridico”.

Alla luce di quanto detto finora, qual è quindi la struttura carceraria che ne risulta? Una nuova struttura  razionale, efficiente ed efficace, sotto l’egida e il controllo dell’EU Regional Task Force (Eurtf), composta da  Frontex, che gestirà le espulsioni, Easo che si occuperà delle richieste d’asilo e da Europol ed Eurojust, alle  quali competeranno indagini e sicurezza. Si concretizza così l’anticamera della detenzione amministrativa e  delle deportazioni.

Se non è sbagliato definire l’Hotspot come una specie di tritacarne a doppia uscita, è più consono associarne il ruolo generale alla metafora del sistema di logistica. Così come avviene per la produzione e la  transazione delle merci, a livello organizzativo, gestionale e informativo, anche per l’immigrato si struttura  un sistema integrato e complesso. Così come recita la definizione scientifica – una logistica integrata, non  più intesa come singola somma delle funzioni operative interne all’azienda, bensì come un sistema unico e  interfunzionale, che supera una visione frammentata e un approccio per comparti, in favore del  coordinamento strategico di tutte le attività gestionali. Navi di recupero, Hotspot, Hub, Cie e aeroporti sono in stretto rapporto tra loro attraversate dal flusso informativo e dal controllo del prodotto. Non sembra  strano neanche, in questo caso, parlare di ottimizzazione del prodotto stesso, visto che in tutte le fasi della  transazione l’immigrato crea sempre e comunque un valore economico che in molti si accaparrano. Un porto d’attracco, centri di controllo, centri di smistamento, sistemi di trasporto integrato, tutta l’Europa si  dota di strumenti e strutture in stretto contatto tra loro, compresi i porti di scarico (fino ad adesso  rappresentati dai paesi di deportazione, molti dei quali si oppongono, e non per umanitarismo, al ritorno  dei presunti connazionali). Se tale sistema funzionasse, come sperato dai suoi ideatori, potrebbe condurre a  performance operative ottimali.

Non sembra però che filerà tutto liscio com’è stato programmato, nonostante le pressioni dell’Ue, in particolare della Germania. Molti sono, come visto sopra, i problemi strutturali e le contraddizioni giuridiche  che sorgono dall’utilizzo di quest’approccio, che si vuole efficiente ed efficace, ma che, volente o nolente,  continua ad assumere uno dei soliti ruoli di sempre, cioè quello di fabbrica dell’irregolarità. Un gran numero  di persone, infatti, transitate dagli Hotspot, viene semplicemente espulsa dalle Questure con un’intimazione  a lasciare il paese entro 7-10 giorni, minaccia, che nessuno chiaramente rispetta. Tuttavia la persona  espulsa, ormai è segnata, ha perso la possibilità di regolarizzarsi, è illegale e se fermata una seconda volta  sarà accompagnata in un Cie o espulsa nuovamente. Avendo un destino di questo tipo davanti, non sono  molte le strade da imboccare, se non quelle dello sfruttamento lavorativo in campagne, cantieri e cucine di  ristoranti e la triste sfida giornaliera del mimetismo urbano.

L’1 agosto 2015 il Cie di Trapani-Milo, la cui struttura adiacente a quella del Cara permette perfettamente lo  scopo di smistamento che ci si prefigge, è stato decretato in tutta fretta Hotspot. Al momento dell’entrata in  funzione del meccanismo di smistamento, però, qualcosa è andato storto. Il caso ha riguardato l’arrivo di  116 uomini di nazionalità marocchina sbarcati lo scorso 17 agosto 2015 a Catania su una nave che  trasportava 416 persone (17). Qualcuno, infatti, si è accorto che le modalità prefissate dal Ministero degli  Interni in combutta con l’Ue, cozzavano apertamente con i diritti garantiti agli immigrati. I 116 marocchini in  questione sarebbero dovuto essere informati delle possibilità di richiesta della protezione sussidiaria ad  esempio, cui anche gli immigrati “economici” possono accedere. Inoltre la legge vieta il trattamento  collettivo delle domande di protezione, cosa che è avvenuta in questo caso in vista dell’espulsione di massa.  Una cosa di poco conto in definitiva, visto che, nonostante i passi indietro momentanei e i ripensamenti,  nuovamente Trapani-Milo a Dicembre 2015 ha riassunto il ruolo di Hotspot (18). Anche il Cpsa di Lampedusa (19), primo tra tutti, è stato ufficialmente trasformato in Hotspot e il 21 settembre 2015 ha messo in moto le  nuove modalità d’identificazione nei confronti di un gruppo di 250 eritrei, senza però la presenza all’inizio  dell’Eurtf. Benché il sito ora operi a pieno regime con tutte le agenzie europee predisposte, non funziona  come Centro chiuso e per il momento gli immigrati escono dalla struttura. Le accese proteste (20) contro il  sistema quote e il rifiuto di massa all’identificazione non hanno tardato ad arrivare. Lampedusa, essendo  un’isola, si è trasformata ancor più rispetto al passato, in una sorta di carcere a cielo aperto. Il terzo Hotspot  decretato è Pozzallo, in provincia di Ragusa, ex Cpsa. La struttura, che ha già visto la partenza di Msf  sconvolta dall’arbitrarietà regnante e dalle condizioni generali, è un’ex dogana situata a ridosso del molo  dove sbarcano gli immigrati ed è in grado di accogliere 180 persone.

Il Ministero ha individuato, oltre a questi sopra citati, anche Porto Empedocle vicino ad Agrigento (si parla di  una tensostruttura, già dichiarata inagibile dai vigili del fuoco) e strutture ancora inesistenti, nonostante  l’indizione del bando di gara da parte del Ministero dell’Economia attraverso Invitalia, nei porti di Augusta (21)  e Taranto (dove sono già presenti però i funzionari Frontex). Il raggiungimento di 2200 posti come chiesto  dalla Commissione Europea nel 2015 sembra ancora molto lontano e richiederebbe adeguamento  strutturale e di sicurezza. Per quanto riguarda la Grecia sono stati attivati o dovranno essere attivati i cinque  Hotspot di Lesbo, Chios, Samos, Leros e Kos. Insomma la nuova forma di controllo proposta dal Ministero è in pieno rodaggio e dovrà affrontare ancora  diversi ostacoli.
Aggiornato a febbraio 2016

Note

1) disponibile in rete su Informa-azione
2) La notte del 18 aprile 2015, al largo delle coste della Sicilia, è naufragata un’imbarcazione eritrea usata per il trasporto di migranti. L’affondamento dell’imbarcazione ha provocato 24 vittime accertate, 28 superstiti salvati e fra i 700 e i 900  dispersi presunti, numeri che la pongono come una delle più gravi tragedie marittime nel Mediterraneo dall’inizio del  XXI secolo
3) Decreto-legge 1 novembre 2007, n. 181 “Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per  esigenze di pubblica sicurezza”
4) Per una visione precisa dei numeri delle ricollocazioni e dei reinsediamenti: link
5) Fonte
6) Fino al 2008 si perdeva anche la possibilità di fare domanda di protezione, con il D.lgs. 2 marzo 2008, tale restrizione è  venuta meno – Fonte
7) Link
8) I Centri di primo soccorso e accoglienza oppure Centri di prima accoglienza sono, di fatto, le strutture che  garantiscono il primo soccorso agli immigrati, appena sbarcati. All’interno ci si accerta della legittimità della loro  permanenza sul territorio e si attuano, in teoria, i primi rilievi dattiloscopici ai fini di una prima identifica- zione. Sul  territorio si contano Agrigento-Lampedusa – (Centro di primo soccorso e accoglienza, ora Hotspot), Cagliari- Elmas –  (Centro di primo soccorso e accoglienza, con funzioni di Cara), Lecce-Otranto (Centro di primissima accoglienza) e  Ragusa-Pozzallo (Centro di primo soccorso e accoglienza, ora Hotspot)
9) I “migranti economici” sono coloro che migrano per scappare alla povertà e trovare chance di successo. L’Ue ha creato  una lista di paesi i cui migranti non potrebbero avere accesso alle protezioni, se non in caso di problemi individuali.
10) Nel documento viene più volte, con giri di parole, volutamente confusa richiesta d’asilo e accesso alle quote, quando in realtà all’interno dell’Hotspot sono la stessa identica cosa.
11) Fonte
12) Fonte
13) “*…+ l’ufficiale o agente di qualsiasi forza di polizia che usa la forza per costringere una persona che non si trovi in  stato di arresto o di fermo, la quale oppone resistenza passiva ai rilievi foto dattiloscopici, commette i reati di violenza  privata e lesioni personali (ove cagionate). È in ogni caso vietato (ed è penalmente rilevante) ogni tipo di atto posto in  essere da appartenenti alle forze di polizia con il quale si vogliano vincere le resistenze passive di chiunque (italiano o  straniero), sia imprimendo una forza fisica sul corpo della persona che dovrebbe- be essere sottoposta ai rilievi (per es.  colpi inferti su qualsiasi parte del corpo oppure forza impressa sulle mani o sugli arti per dischiudere le mani o  allungare le braccia), sia condizionandone traumaticamente la volontà (per es. con scosse elettriche)” Link
14) Per la vicenda di Pozzallo, per la vicenda di Terni
15) Fonte
16) Fonte
17) Fonte
18) Fonte
19) Fonte
20) Fonte
21) Fonte

Gli Hotspot: nuovi modelli di controllo e carcerazione

 

Opuscolo “Considerazioni sulla detenzione amministrativa in Italia”

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E’ uscito l’opuscolo Considerazioni sulla detenzione amministrativa in Italia

Allo scopo di trovare una soluzione alla loro ingestibilità, per affrontare preventivamente un aumento delle problematicità legate alla tipologia e quantità dei futuri flussi migratori, i Cie, lungi dall’aver mai avuto una funzione altra rispetto a quella di deterrente collettivo, stanno subendo delle modifiche parziali, sia strutturali che gestionali. La direzione seguita è quella di un processo ipotetico di maggiore razionalizzazione, funzionalità, economicità gestionale e controllo interno.
Lo scopo per cui è nata la detenzione amministrativa degli immigrati si può dire raggiunto?

La risposta a tale quesito è estremamente difficile. Ciò che possiamo fare è cercare di fotografare la situazione attuale, cercare di mettere insieme i diversi accadimenti relativi alla detenzione amministrativa in Italia e comprendere quale direzione i Cie stiano intraprendendo. Lo scopo di una ricerca come questa, è inutile dirlo, resta sempre e comunque quello di conoscere meglio il nostro obiettivo, capirne meglio le caratteristiche per comprenderne meglio i punti deboli.

Di Cie tanti ne parlano, ne versano lacrime e ne denunciano le angherie, tanti, davvero tanti, anche i più improbabili ne chiedono la chiusura. Questo sembrerebbe giusto e animato da buoni propositi, ma non è proprio tutto oro quel che luccica. Le richieste di chiusura, senza considerare l’assurdità del fatto che sono indirizzate alle stesse istituzioni che i Cpt/Cie hanno istituito, non fanno che proporre un diverso modo di gestione dell’immigrazione, una riforma che renda forse più umani i Centri o che ne proponga altre versioni.

L’esperienza della riforma degli Opg dovrebbe aver insegnato molto in merito. Una prigione non può essere resa più umana, non esiste un modo più giusto per identificare e controllare. Le frontiere dovrebbero solo scomparire, tutte le carceri essere abbattute. Per questo i Cie non dovrebbero essere chiusi, ma distrutti, incendiati, danneggiati.
“Fuoco ai Cie” al posto di “chiudere i Cie”, come tanti reclusi in rivolta ci hanno insegnato, ci sembra il modo migliore per affrontare la questione.

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