Proprietà della rivolta o specialisti della parola?

el-espc3adritu-de-la-colmena

rilfessione e una risposta rispetto ad alcuni scritti successivi all’attacco contro la scuola di polizia di Brescia dello scorso gennaio:

Proprietà della rivolta o specialisti della parola?

Brescia, venerdì 18 dicembre 2015: verso le quattro e mezza del mattino scoppia un ordigno davanti alla porta della Polgai, la scuola della polizia.

Mondo virtuale, venerdì 18 dicembre: con la loro tipica prontezza, i redattori del sito Finimondo pubblicano il testo “Sotto pressione”[1]. Un testo che mi ha fatto pensare al rapporto di un impiegato svogliato, il cui lavoro consiste nel mettere il suo tampone su quello che succede. Un po’ di retorica facile, una quindicina di righe perché non si dica che chi lo ha scritto non sostiene l’azione diretta. Posso pure essere d’accordo sulla supposizione che a muovere la mano che ha costruito e posato la bomba di Brescia potrebbero essere “la pressione di una vita sfruttata”, “i desideri più meravigliosi mortificati”, eccetera. Chi lo sa? In fondo è facile fare supposizioni. Ma quella prontezza nello scrivere mi è sembrata tradire la volontà di riappropriarsi della parola su quell’attacco. Nulla di nuovo da parte di Finimondo. Insomma, carta sprecata, se non fossimo nel mondo virtuale.

Mondo un po’ meno virtuale, 4 gennaio 2016: con una mail anonima al sito Informa-azione[2] i compagni della Cellula anarchica Acca rivendicano l’ordigno in questione. Una seconda mail risponde al testo “Sotto pressione”. Essa spiega che l’interpretazione data nel testo di Finimondo non corrisponde alle motivazioni che li hanno spinti ad attaccare una struttura del potere. I compagni della Cellula Acca fanno due domande agli autori di “Sotto pressione”: “Le azioni non parlano da sole? Perché parlare ora delle azioni?”. Si tratta ovviamente di ricordare a chi ha voluto parlare per loro quello che proprio i redattori di Finimondo sostengono in altri testi.

Qualche giorno dopo, su Finimondo viene pubblicato lo scritto “Atto di rivolta, bene privato?”[3] (si noti che, invece, il testo di rivendicazione scritto dalla Cellula Acca non vi è mai stato pubblicato, nemmeno come contributo al dibattito). In questo testo trapela tutta la supponenza di persone che da tempo vorrebbero porsi come i maestri dell’anarchismo, quelli che insegnano ciò che si deve o non si deve fare e come farlo. Compagni  che si considerano come l’incarnazione della purezza di un movimento anarchico che pure tanto disprezzano (forse perché gli altri non riconoscono loro tutta questa importanza) e poi si indignano se qualcuno risponde loro qualcosa del genere: “noi facciamo, voi chiacchierate e dite pure cazzate, come la mettiamo?”

Gli autori di “Atto di rivolta, bene privato?” dicono che sta a tutti gli anarchici sostenere apertamente gli atti di rivolta, difendendoli pubblicamente. Con questo sono perfettamente d’accordo. Ma aggiungono che “per noi sostenere un atto di rivolta […] non ha nulla a che vedere nemmeno col compiacere gli autori materiali di quell’atto”, insinuando che rivendicare un attacco (e diffondere tale rivendicazione) equivarrebbe a “un certo nichilismo che vorrebbe trasformare i bagliori notturni individuali in bene privato”. Ora, capiamoci: cosa intendiamo per sostegno? Se parlo al posto di qualcun altro, gli metto in bocca le mie parole, lo sto sostenendo? Se quest’altro sta zitto non lo so, quindi posso anche continuare a parlare al posto suo in buona fede. D’altra parte la separazione fra l’azione e la parola (propaganda, riflessione, dibattito) é dovuta a ovvie ragioni di sicurezza. Ma a volte l’autore di un attacco esprime chiaramente il suo punto di vista, oppure risponde in seguito alle interpretazioni che ne sono state date, dicendo che queste non corrispondono alle sue proprie motivazioni, quelle che lo hanno spinto ad agire. I redattori di Finimondo replicano altezzosi: “Come se un atto di rivolta fosse un fatto privato, esclusiva proprietà di chi è in grado di certificarne la paternità.” Come dire che hanno ragione loro sulle motivazioni di quella bomba, anche se l’hanno messa altri! E hanno la faccia tosta di accusare la Cellula Acca (e tanti altri) di voler “trasformare i bagliori notturni individuali in bene privato”. Perché, cosa stanno facendo loro con la loro prosa saccente, se non appropriarsi d quell’attacco?

Con questo giochetto retorico, che mette da parte come se nulla fosse la differenza fra quella che loro chiamano “proprietà”, quella che io chiamerei concretizzazione di idee e tensioni individuali e che altri, togati, chiamano “responsabilità penale”, i compagni di Finimondo ci stanno fregando. Criticano quella che chiamano “proprietà della rivolta”, ma si stanno appropriando della parola sulla rivolta. Vorrebbero arrogarsi il monopolio della verità rivoluzionaria, anche quando questo va a discapito della situazione reale in cui un atto di rivolta è avvenuto. Troppo facile, troppo politico.

I redattori di Finimondo non si arrischiano a rispondere alle due domande dei compagni della cellula Acca (“Le azioni non parlano da sole? Perché parlare ora delle azioni?”). Sarebbe un po’ complicato, perché dovrebbero riconoscere che la pertinenza o meno della rivendicazione di un attacco non é questione di “proprietà” di una atto, ma della prospettiva in cui questo si inserisce.

Qualcuno potrebbe mettere une bomba davanti a una banca perché lo disgusta l’idea di una vita retta dal valore del denaro. Qualcun altro perché vuole punire una banca che gli ha fatto perdere i risparmi di una vita di lavoro con investimenti arrischiati[4]. Un altro ancora perché la banca gli ha rifiutato un prestito. Il primo vuole una vita libera, il secondo vuole i suoi soldi, il terzo vuole… magari una finanziamento per la sua ditta di artigiano. Col primo ho molto da spartire: un fine per cui lottare. Con gli altri due cosa avrei in comune? Forse dei possibili mezzi? Tutti e tre hanno messo una bomba, ma quella bomba è un semplice mezzo ed è ridicolo fare l’esaltazione dei mezzi. Sarebbe meglio interrogarsi sui fini, e allora non possiamo più fare astrazione delle ragioni (rivendicate o ipotetiche) di un’azione.

Il problema per me non è scrivere quello che si pensa di un’azione. Ma ciò che è implicito in “Atto di rivolta, bene privato?” è che proprio quelli che hanno fatto l’azione dovrebbero stare zitti, per non contraddire gli specialisti della parola.

Ripetere frasi fatte come “un’azione può appartenere a tutti solo se nessuno se la attribuisce”[5] non risolve nulla, anzi. Già ci troviamo di fronte ad un’ambiguità riguardo al termine “rivendicazione”, ambiguità con cui giocano entrambe le parti del cosiddetto “dibattito sull’anonimato”[6 vedi note]. Ritengo che sia necessaria più chiarezza su cos’è una rivendicazione, cos’è una “firma”, cos’è l’anonimato, cos’è il silenzio a proposito di un attacco.

Una rivendicazione non è necessariamente un tentativo di attribuire un’azione ad un gruppo preciso, come sottinteso in molti testi e anche in “Atto di rivolta, bene privato”. Può esserlo se è firmata da un’organizzazione stabile o quasi (l’esempio a cui sto pensando sono alcuni gruppi che hanno assunto una identità “fissa”, come la Cospirazione delle Cellule di Fuoco). Tale approccio organizzativo entra, a mio avviso, in un calcolo quantitativo per cui rivendicare non significa soltanto spiegare il motivo di un’azione, ma anche contabilizzarla nel registro delle proprie gesta. Effettivamente ciò potrebbe spingere altri a ridursi al ruolo di tifosi, spettatori di una battaglia fra lo Stato e la propria squadra del cuore, a cui non si può partecipare.

Una rivendicazione anonima, cioè non firmata o firmata con un nome o sigla di fantasia o “monouso”, non attribuisce niente a nessuno. Essa è semplicemente un modo per far sì che altri compagni (e altre persone in generale) siano a conoscenza di un attacco, delle sue motivazioni, dei suoi fini. Altrimenti ci troviamo a dipendere dalla cronaca dei giornali. Perché i nostri puri sostenitori della “non rivendicazione”, della capacità autonoma di parola delle azioni (cioè del silenzio dei loro autori in quanto autori) si trovano a dipendere dai media per trovare la fonte delle loro elucubrazioni. Ma a volte i giornali non danno notizia di alcune azioni oppure le deformano (spesso per scelta deliberata).

Mi si risponderà che il danno in sé è il primo obiettivo di un attacco. D’accordo, ma è anche importante che questo danno sia conosciuto, perché spinga altri ad attaccare, perché certe pratiche offensive si diffondano insieme alle idee di libertà. Non credo che la rivoluzione sia una piccola guerra privata tra quattro bande di anarchici ed i loro nemici diretti, qualche centinaia di poliziotti e magistrati, fregandosene del resto del mondo, compresi moltissimi altri compagni e miliardi di sfruttai, dai cui ranghi potrebbero uscire (ed escono!) altri possibili rivoltosi.

Dire, come fanno alcuni sostenitori dell’”anonimato”, che le azioni devono “parlare da sole”[7 vedi note], che quindi non è necessario rivendicarle nemmeno in forma anonima, vuol dire che il loro significato deve essere evidente per chiunque. Ma ciò dipende molto dalla situazione in cui un’azione si colloca. Non è certo che il significato di un’azione sia sempre chiaro per i compagni, non lo è quasi mai per il semplice passante. Dubito che quella massa di sfruttati che potrebbe ribellarsi sappia già tutto delle motivazioni che spingono qualcuno ad attaccare, che vedendo una vetrina spaccata per strada, chiunque capisca che é a causa del fatto che la tale impresa fa tale cosa. Certi attacchi, in situazioni ben precise, possono essere “leggibili” da tutti ed in maniera univoca. Tanto meglio, ma non facciamone un dogma. In certi casi può non esserci la necessità di alcuna rivendicazione, in altri essa è indispensabile per evitare ambiguità. Una semplice scritta su un muro può già dire molto, ma a volte non abbastanza, e poi lo dice solo a chi passa di lì – o ai giornali, ai quali lasceremmo quindi la scelta di farse o meno da cassa di risonanza delle azioni degli anarchici.

Aggiungo che a mio avviso, se pure la grande maggioranza della popolazione fosse contraria a una serie di attacchi, ma alcuni compagni fossero fermamente convinti della loro necessità, questi non dovrebbero astenersene perché le loro azioni non “parlerebbero da sole” o parlerebbero “male”. Supponiamo che tutti o quasi siano d’accordo per dire che, anche se le biotecnologie sono una schifezza, quelle ad uso medicale sono il male minore, per curare le malattie o altro. Un’opposizione chiara a tutte le biotecnologie, anche a quelle che promettono miracoli nel campo medico, potrebbe quindi essere impopolare. Ma questa impopolarità non toglie nulla alla necessità di una tale opposizione. Non dobbiamo accettare il mediocre linguaggio del consenso, nemmeno per rispettare il dogma che le azioni devono essere comprensibili da chiunque. Le mie idee, la mia sensibilità sono più importanti del consenso (anche se con questo non voglio dire che sia inutile diffondere le ragioni di una tale opposizione, diffondere le idee).

I compagni di Finimondo vorrebbero istruirci sul fatto che il movimento anarchico nel suo insieme dovrebbe “metter[e] a disposizione di tutti” le ragioni della rivolta. Sono d’accordo, ma facciamo attenzione: ciò non deve portare alla specializzazione di alcune maestrine, che pretendono di mettere i voti a questo e quell’altro in nome della propria visione dell’anarchismo. Perché sono le ragioni di chi scrive a essere messe a disposizione di tutti. Spesso c’è un’identità fra le ragioni di chi scrive e le ragioni di chi agisce, ma a volte no. Inconvenienti della specializzazione fra chi attacca e chi, da dietro un computer, ci spiega il come ed il perché. Certo, nessuno può sapere cosa fanno le persone quando non stanno davanti al computer – comoda teoria che viene sostenuta soprattutto da chi passa molto tempo davanti al computer. Ma il fatto è che anche se quelli che si pongono come detentori della verità anarchica agissero oltre che scrivere (cosa che non mi è dato sapere) ciò non cambierebbe nulla di quello che hanno scritto e dell’ottica in cui lo hanno fatto: dare voti, porsi come guide per tutti noi. Ritengo invece che stia ai compagni che attaccano decidere se e come rivendicare oppure no le proprie azioni, seguendo la propria sensibilità, la situazione nella quale si trovano ad agire, i fini che si danno. Al di là di ogni regola, anche “anarchica”.

La volontà di imporre delle regole quanto alla necessità o meno di rivendicare le azioni ha già portato a notevoli bassezze. Il 7 giugno 2013 la CCF, insieme ad altri gruppi della FAI/FRI, ha fatto esplodere l’auto della direttrice della prigione greca di Koridallos. L’azione è stata immediatamente rivendicata con un lungo testo[8]. Su Finimondo[9] sono state pubblicate tre righe che non contenevano alcun accenno a chi aveva effettuato l’azione. Eppure i redattori di Finimondo sono al corrente del fatto che i compagni della CCF hanno una visione opposta alla loro e pensano che sia necessario rivendicare gli attacchi con sigle fisse (CCF, FAI/FRI, appunto). Hanno letto, tra l’altro, il testo intitolato “Non dite che siamo pochi; basta dire che siamo determinati”[10], che i compagni della CCF hanno mandato come contributo ad un incontro anarchico che si è tenuto a Zurigo dal 10 al 13 novembre 2012. Quel testo è stato scartato dal dibattito per scelta deliberata degli organizzatori, che non lo hanno tradotto, ritenendolo “non pertinente”. E fra gli organizzatori di quell’incontro, alcuni redattori di Finimondo. Quindi i difensori dell’anonimato, delle azioni che parlano da sole, fanno diventare anonime (e non rivendicate) pure le azioni di chi pensa che esse debbano essere rivendicate e firmate. Riducono al silenzio, facendo come se niente fosse, le posizioni di altri compagni. Parlano loro per tutti, anche per chi ha rischiato la galera per dare esempi alla loro retorica.

Non credo che le azioni parlino per forza da sole (e, sia detto di passaggio, penso che le parole abbiano valore solo se si accompagnano ai fatti). I motivi che hanno spinto chi le ha realizzate sono importanti, altrimenti ci limiteremmo ad una sacralizzazione dei mezzi indipendentemente dai fini. Rischiamo di costruire castelli in aria su una pretesa “ribellione diffusa” che, se scaviamo un po’, può forse concretizzarsi in forme distruttive, ma troppo spesso non ha fini sovversivi. Rischiamo di accontentarci di fantasticare su incidenti o fatti dubbi[11], invece di cercare di costruire dei percorsi offensivi di attacco contro questo mondo.

È facile costruire favole romantiche, mentre altri rischiano la galera, ma sarebbe ora di smettere di credere alle favole.

Ma ancora i redattori di Finimondo non hanno risposto alle due domande che i compagni della Cellula Acca hanno posto loro: “Le azioni non parlano da sole? Perché parlare ora delle azioni?”


febbraio 2016,

Kalin

(per contatti : kalin.chiornyy@riseup.net)


[1] https://www.finimondo.org/node/1769

[2] http://www.informa-azione.info/brescia_rivendicazione_attacco_alla_scuola_di_polizia_e_comunicato_della_cellula_anarchica_acca

[3] https://www.finimondo.org/node/1782

[4] Cfr. “Nella calza della Befana”, http://finimondo.org/node/1784

[5] “Su alcune vecchie questioni d’attualità fra gli anarchici, e non solo”, gennaio 2003 (lo si può leggere, insieme a una risposta, qui : http://guerrasociale.altervista.org/alcune%20vecchie.htm).

[6] Alcuni testi che affrontano la questione, oltre al precedente: “Lettera alla galassia anarchica” (http://finimondo.org/node/554), “Non dite che siamo pochi; basta dire che siamo determinati” (cfr. nota 8), “L’anonimato” (http://finimondo.org/node/1223), “… su una polemica malnata” (in Blasphemìa, n. 1, maggio 2014).

[7] Come per esempio nel testo “L’anonimato”, cit.

[8] https://it-contrainfo.espiv.net/2013/06/11/atene-rivendicazione-di-responsabilita-per-lattacco-esplosivo-contro-la-macchina-della-direttrice-del-carcere-maschile-di-koridallos-nel-quartiere-di-dafni-il-7-giugno-2013/

[9] http://finimondo.org/node/1181

[10] https://it-contrainfo.espiv.net/2012/12/03/grecia-non-dire-che-siamo-pochi-basta-dire-che-siamo-determinati-dallo-r-ccf-e-theofilos-mavropoulos/

Anche se ciò ha poco a che vedere con il dibattito attuale, trovo molto discutibile un passaggio come questo: “Non ci sono innocenti. Facciamo tutti parte della macchina sociale del potere. La questione è se siamo l’olio o la sabbia nei suoi ingranaggi.” Non ci sono solo “olio e sabbia”, le responsabilità, anche quella “per inazione” (cioè l’”essere olio” della macchina del potere) devono essere valutate caso per caso, esse sono individuali e non possono riassumersi al dualismo schematico “olio VS. sabbia”. Non ci sono solo anarchici e servi del potere, ma anche delle masse di sfruttati che a volte si ribellano per contro proprio, che a volte potrebbe essere interessante incontrare attraverso la rivolta.

[11] Cfr. « Fuochi sacri », https://www.finimondo.org/node/1690

http://informa-azione.info/propriet%C3%A0_della_rivolta_o_specialisti_della_parola