Specialisti della parola o garanti del copyright?

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Specialisti della parola o garanti del copyright?

Dando corso al pubblico reclamo nei nostri confronti avanzato dalla Cellula Acca, legittima proprietaria dell’azione avvenuta lo scorso dicembre contro la scuola di polizia di Brescia, il Garante del copyright sugli atti di rivolta — tale Kalin Chiornyy — ci ha fatto pervenire una diffida per violazione dei diritti d’autore (diffida spedita per conoscenza anche ad altri siti, nessuno dei quali ha deciso di renderla pubblica da tanto è forte il fetore emanato da simile spazzatura [NDR – informa-azione ha quindi scelto di pubblicarli entrambi]. Per diffonderla senza intoppi meglio ricorrere a Indymedia Piemonte, dove chiunque può pubblicare qualsiasi cosa. Anche noi? Beh, allora è proprio qui che rispondiamo, così gli sventurati lettori potranno leggersi la botta e la prima e unica risposta).

Costui si premura di ricordarci che una azione diretta appartiene esclusivamente a chi la compie, che solo gli autori materiali possono esprimersi per primi sul suo conto, e che tutti coloro che intendono sostenerla pubblicamente sono tenuti a farlo solo dopo il legittimo comunicato di rivendicazione e nel rigoroso rispetto delle indicazioni in esso contenute. In caso contrario — avverte il Garante — le affermazioni dei non legittimi proprietari non sarebbero che mere «supposizioni» tradendo una malevola «volontà di riappropriarsi della parola su quell’attacco», tipica di chi parla «al posto di qualcun altro» mettendo il proprio «tampone su quello che succede».

Bastardi di Finimondo, siete state beccati! Il tampone deve essere esclusivamente quello dell’autore, a denominazione di origine controllata, mica potete farvi ricchi con il patrimonio altrui! È questo il miserello pensiero del Garante del copyright sugli atti di rivolta, il quale nella sua diffida — redatta in oltre quattro cartelle, con padronanza di linguaggio e tanto di note a pie’ di pagina — si lamenta delle nostre reiterate appropriazioni indebite, passate e presenti.

Future, anche, dato che non sarà di certo costui a farci rispettare una proprietà che non riconosciamo. Il Garante, al pari dei suoi assistiti, non riesce a prendere in considerazione l’idea che la rivolta appartenga a tutti e che ognuno parli per sé. E che, se un atto di rivolta è di dominio pubblico, chiunque possa dire ciò che ne pensa. Può difenderlo (meglio se subito dopo) o può criticarlo (meglio se molto dopo), portando sempre e comunque le proprie di ragioni. Quando prende la parola, è per esprimere le proprie idee o sensazioni in merito all’atto, non per autonominarsi portavoce delle intime intenzioni del suo autore. Non c’è nessun obbligo, nessun dovere, di ripetere solo e soltanto la muta lettera acca, c’è tutta la bellezza di esplorare l’intero alfabeto. Per il Garante questa nostra convinzione è inammissibile, per cui quando diciamo ciò che pensiamo ci mostriamo supponenti, maestri, incarnatori della purezza. Fossimo come lui, non sapremmo cosa dire e prima di aprire bocca ci rivolgeremmo al nostro leaderino di fiducia, al nostro guru prediletto, al nostro gruppo di appartenenza, al nostro rude combattente più ammirato, e ripeteremmo in coro quanto sentito dire. Invece no, pensiamo da soli e ci battiamo per quel che pensiamo. Ed è questa caratteristica che ci rende tanto insopportabili. Per usare le esilaranti parole del Garante, freghiamo i compagni esprimendo la nostra «propria visione dell’anarchismo». Vi rendete conto, che subdola tracotanza? Non quella altrui, bensì la nostra visione! Ma certo che sì, la visione dell’anarchismo degli altri non sta a noi esprimerla. Noi non siamo al servizio di nessuno, né dei feticci dei collettivisti né degli eroi degli individualisti, e ci lasciano indifferenti le pretese dei vari azzeccagarbugli.

Insistiamo a sostenere che il significato di un atto di rivolta vada ben oltre le motivazioni di chi lo ha realizzato. E limitarsi a ripetere solo quelle espresse dal legittimo proprietario non aiuta a diffonderne le potenzialità, al contrario le limita. E questa è una delle ragioni per cui anche noi preferiamo l’anonimato. In fondo, come la storia insegna, chiunque può compiere azioni in sé condivisibili. Ma è solo finché l’identità dell’autore rimane ignota che queste azioni possono essere sostenute da tutti, perché ognuno potrà attribuirvi il senso che preferisce. Moltiplicando le ragioni di un’azione, si moltiplicano le possibilità che altri possano riconoscersi in quell’azione, passo necessario se si vuole che si generalizzi. Ecco perché la domanda che tanto assilla sia gli sbirri che il Garante del copyright sugli atti di rivolta — chi è stato? — per noi è del tutto ininfluente, anzi è dannosa. Non ci interessa sapere su quale petto appuntare medaglie al merito, ci interessa che certe azioni si diffondano. L’azione parla da sola, se è comprensibile non ha bisogno di tante spiegazioni. E se è incomprensibile, ogni spiegazione sarà inutile. Però il fatto che una azione parli da sé, non significa che non vada accompagnata dal sostegno della parola, non significa che non vada amplificata, se si vuole che arrivi il più lontano possibile. Ma da quale parola, e perché? Da quella differenziata di chiunque voglia darle più sfumature possibili nel tentativo di metterla a disposizione di tutti, o da quella univoca dei soli proprietari che la rivendicano come roba loro tarpandole le ali e rendendola distaccato oggetto di ammirazione? Questo è il punto. Comunque, ammettiamo senza vergogna di preferire assai più le fantasie romantiche ai certificati di proprietà la cui assenza pare rendere automaticamente ambigui e sospetti agli occhi dei notai della rivoluzione. Questione di gusti.

Va da sé che per il Garante del copyright sugli atti di rivolta, ogni parola che non si unisca al coro impartito dai suoi assistiti è un’usurpazione. Tuttavia, per usurpare qualcosa di sconosciuto si dovrebbe farlo passare per opera propria, attribuirsene il merito, non certo limitarsi ad esprimere i motivi della propria approvazione. Oppure si dovrebbe, nel caso in cui i moventi originari degli autori siano noti, attribuirvi a posteriori un significato del tutto diverso. Questa sì che sarebbe una «notevole bassezza». Il Garante del copyright sugli atti di rivolta ce ne attribuisce una specifica, ingigantendone a dismisura la portata: tre anni fa avremmo pubblicato un’eco su una azione della CCF greca senza «alcun accenno a chi aveva effettuato l’azione», facendo in questo modo «diventare anonime (e non rivendicate) pure le azioni di chi pensa che esse debbano essere rivendicate e firmate». Il Garante, nelle sue note, precisa anche quali link consultare per verificare questo nostro spregevole comportamento. Bene, consultiamoli. L’8 giugno 2013 Finimondo ha dato notizia della disintegrazione della macchina della direttrice del carcere di Koridallos, avvenuta il giorno prima; l’11 giugno, tre giorni dopo, è stata pubblicata la relativa rivendicazione della CCF. Verificata la notevole altezza di chi ci accusa di aver volontariamente fatto passare sotto silenzio ciò che non potevamo ancora conoscere, ne deduciamo che per adempiere ad un compito di merda come fare il Garante del copyright sugli atti di rivolta bisogna proprio essere degli uomini di merda. E chi è fatto di tale pasta, quando vuole seminare discordia spacciandola per critica (standosene lui sì comodamente «dietro un computer»), si aggrappa a qualsiasi pretesto.

Così si capisce meglio il motivo per cui veniamo tacciati di essere virtuali da un testo virtuale, inviato da una casella elettronica virtuale, e spedito ad indirizzi virtuali da un personaggio virtuale (e talmente umile e contrario a dare voti ai compagni che nelle righe di accompagnamento alla sua diffida sbuffa per il «mancato dibattito» dopo il nostro testo: e lui cosa aspettava ad iniziarlo? Ah già, stava rischiando la galera mentre pugnava sulle barricate, sfidando a petto nudo le pallottole del nemico). Si capisce meglio il motivo per cui veniamo ripresi per non aver pubblicato il testo della Cellula Acca, noi che mai abbiamo pubblicato singoli comunicati. Si capisce meglio perché veniamo additati di insinuare che la rivendicazione di un’azione sia sinonimo di privatizzazione della rivolta, laddove ad esserlo è una lettera contro chi gioisce per un atto senza fare da megafono ai suoi autori. Si capisce meglio perché alcuni di noi vengano accusati di aver intenzionalmente scartato un documento della CCF inviato a un convegno internazionale al fine di sottrarlo al dibattito, sebbene quel testo, arrivato l’ultimo giorno dell’incontro in questione, sia stato portato sul posto dagli organizzatori che avevano accesso ad internet. Non è stato tenuto nascosto, era lì a disposizione di chi lo voleva leggere (per altro nei giorni seguenti c’è stato anche uno scambio di mail fra gli organizzatori ed alcuni compagni greci, inalberatisi all’inizio perché convinti che fosse stata operata una censura, ma poi seccati per l’inaffidabilità delle loro fonti). Si capisce meglio anche perché il Garante, per valorizzare le proprie considerazioni sull’anonimato (che al limite condivide, sia chiaro) ed il rivendicazionismo (che al limite condivide, sia chiaro, che lui non essendo dogmatico è pronto a tenere i piedi in tutte le staffe), attribuisca al dibattito avvenuto una «ambiguità riguardo al termine “rivendicazione”» che lo avrebbe reso poco chiaro. Ambiguità che esiste solo nella sua testa, dove la confusione regna sovrana accanto al livore. Fra i link che costui riporta in calce alla sua diffida, si guarda bene dall’includere quello relativo all’Appendice a un dibattito abortito sull’anonimato e l’attacco in cui è scritto in maniera fin troppo chiara: «Le azioni anonime — e per anonime intendiamo sia quelle accompagnate dal silenzio più assoluto, sia quelle seguite da rivendicazioni minime, senza sigle, o perlomeno senza sigle continuative…». Tutto ciò per dimostrare che il nodo della questione è ed è sempre stato soltanto la persistenza di una organizzazione specifica con una identità precisa da ostentare in dettagliati comunicati. Opzione operativa che per altro viene incredibilmente criticata anche dal Garante, il quale riprende pari pari gli stessi argomenti già apparsi su Finimondo per poi accusarci di volerci arrogare «il monopolio della verità rivoluzionaria». Mah! già la «verità rivoluzionaria» non è mai stata una delle nostre favole preferite, ma poi difendere il monopolio non è appunto il compito di chi protegge il copyright?
A questo punto spetta solo al Garante precisare i termini temporali del copyright che tutela. In assenza di rivendicazione specifica doc, quanto si dovrà aspettare prima di esultare davanti al fuoco senza diventare biechi usurpatori? Il diritto d’autore in campo editoriale, ad esempio, ci sembra stabilisca in una settantina d’anni il lasso di tempo che deve trascorrere dopo la morte di uno scrittore prima che una sua opera sia libera da vincoli. Ma per un’azione diretta, come funziona? Il ferimento di Adinolfi, ad esempio, è stato rivendicato quattro giorni dopo l’azione. La bomba di Brescia, oltre quindici giorni dopo. C’è una bella differenza. Ma ecco una notizia che condannerà all’attendismo tutti i sostenitori politicamente corretti della rivolta: alla fine di gennaio alcuni colleghi della Cellula Acca, rappresentanti inglesi del medesimo brand internazionale, hanno diffuso la rivendicazione di alcune azioni commesse ben due anni prima. Proprio così, due anni! Allora, se non ora, quando? Forse abbiamo capito la scelta fatta da molti di riportare le veline dei giornalisti limitandosi a citarne la fonte. Lo si può fare subito e nessun uomo di merda sotto forma di Garante vi diffiderà.

Quanta nostalgia per lo scorso millennio, quando gli anarchici pensavano che Pensiero e Dinamite dovessero andare di pari passo, mano nella mano, uniti da una congiunzione e non divisi da una contrapposizione. All’epoca ogni anarchico si metteva all’opera in base alle proprie capacità, al proprio temperamento, alle proprie inclinazioni, e nessuno ci vedeva nulla di male in questo giacché una rivoluzione ha bisogno sia di idee che di fatti. Non era una competizione per ottenere più “mi piace”, era un gioco di intrecci. Ma oggi? Un Di Giovanni che metteva bombe e pubblicava libri, è roba del passato. Un Reclus che scriveva libri e difendeva chi metteva bombe, è roba del passato. Un Durruti che rapinava banche e finanziava chi pubblicava libri, è roba del passato. Oggi siamo nel terzo millennio, per cui — ci viene detto e ripetuto — bisogna fare una scelta: o con il Pensiero o con la Dinamite. O con gli specialisti della parola o con gli specialisti dell’azione.
No, grazie. Continuiamo a pensare che la sovversione abbia bisogno sia dei neuroni che degli ormoni, dato che il potere va distrutto sia nelle sue strutture mentali che in quelle fisiche. E insistiamo a pensare che non sia nemmeno così facile distinguere fra teoria e pratica, considerato che esistono idee che sono dannose al nemico più di un attentato, ed esistono azioni che fanno riflettere più di un saggio (un filosofo come Stirner ha scatenato l’assalto di numerosi ribelli, così come le bombe di Ravachol hanno ispirato la penna di molti letterati). Anziché opporre le une alle altre, siamo persuasi che occorra mescolarle. Ma ci rendiamo conto, sempre più conto, che ciò costituisce un vero abominio sia per chi pensa che la parola vada affidata a docenti universitari che sanno di cosa stanno parlando (?), sia per chi pensa che l’azione sia riservata ad organizzazioni combattenti che sanno cosa stanno facendo (?).

Che freddo che fa oggi, e quanto fango si è trascinato dietro il tempo! Dunque, dov’è che avevamo interrotto il nostro libro di favole?

3 marzo 2016

 da finimondo in risposta allo scritto “Proprietà della rivolta o specialisti della parola?“:

http://informa-azione.info/specialisti_della_parola_o_garanti_del_copyright