Lo sciopero dei gesti inutili

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Albert Libertad
Perché gli uomini (così come tutti gli altri esseri, ovviamente) lavorano? A quale scopo?
La risposta è semplice. Se l’uomo ha strofinato a lungo due pezzi di legno uno contro l’altro, se ha tagliato una selce, se l’ha usata per ore contro la polvere, era per ottenere il fuoco, per ottenere un’arma, o magari uno strumento.
Se ha abbattuto alberi, era per costruirsi una capanna; se ha intrecciato fibre vegetali, era per modellare dei vestiti o delle reti.
Tutti i suoi gesti erano gesti utili.
Quando la semplicità dei suoi gusti, e anche l’orizzonte necessariamente limitato dei suoi desideri, gli ebbero procurato del tempo libero, a seguito della sua destrezza e dei mezzi scoperti da lui e dai suoi simili, ha trovato buona cosa fare dei gesti la cui utilità non era così evidente, ma che gli procuravano una quantità di piaceri che non ritenne trascurabile. Diede alla pietra le forme che gli piacevano; tracciò sul legno le immagini che lo avevano colpito.

In ogni caso, i gesti che faceva, necessari
per i suoi bisogni immediati o necessari per i suoi piaceri, erano gesti di cui non contestava l’utilità; del resto, era padronissimo di non fare quelli del secondo tipo.
Attraverso quali vie l’uomo di allora che lavorava il corno di renna, volontariamente, per il proprio piacere, sia giunto all’uomo di oggi che lavora l’avorio per forza, per il piacere degli altri, non cercherò di descriverlo.
Per migliaia di uomini, i gesti piacevoli fatti volontariamente sono diventati un «mestiere», senza il quale non possono vivere. I gesti che servivano ad abbellire il loro ambiente sono diventati una condizione inevitabile di vita. I gesti che facevano per affinare i sensi, ora li indeboliscono, usurandoli prematuramente.
Gli altri uomini sono quindi costretti a fare i gesti necessari per mantenere la vita sociale, e usano la loro forza per quegli stessi gesti. Lavorano per coloro che fanno «mestiere» di gesti piacevoli, per coloro che vivono nell’attività assoluta a seguito di un malinteso sociale.
Coloro che non lavorano, aberrazione completa, straordinaria, fanno controllare a loro profitto il lavoro utile o piacevole degli altri. E questo servizio di controllo aumenta il numero di persone che non fanno un lavoro utile, e nemmeno piacevole. Pertanto, aumenta la quota di lavoro degli altri.
Il cervello ha un bello sforzarsi di continuo allo scopo di migliorare il lavoro del corpo, fare continue scoperte, costanti invenzioni, il risultato è quasi zero, il numero di intermediari, di controllori, di inutili, aumenta in proporzione.
Una specie di follia finisce con l’impadronirsi del mondo. Si arriva a preferire, ai gesti di prima utilità, i gesti piacevoli o persino quelli puramente inutili. Chi non ha mangiato nulla, o assai poco, si farà fare dei biglietti da visita. Chi non avrà la camicia, indosserà colletti dal candore immacolato. Quante sciocchezze generate dai pregiudizi e dall’imbecille vanità degli individui!
A seguito di una forza puramente fittizia, si usano le proprie qualità a vanvera.
Uomini, il cui interno è nero e sporco, dipingeranno di smalto la facciata; altri, i cui bambini non possono andare a scuola, comporranno o stamperanno prospetti o menu di gala; altri ancora tesseranno meravigliosi arazzi, mentre la donna che hanno in casa non ha una veste calda da mettere sul ventre gravido.
L’uomo ha dimenticato che, in origine, faceva gesti di lavoro innanzitutto per vivere, e poi per divertirsi. Ciò che dobbiamo fare è ricordarglielo.
[…]
Ogni giorno alcuni fatti nuovi risvegliano in me quell’ossessione del lavoratore che si costruisce da sé la dolorosa prigione, la città omicida in cui si rinchiuderà, dove respirerà veleno e morte.
Mentre cerco di conquistare più felicità, vedo sorgere di fronte a me il mostro del proletariato, l’onesto operaio, il lavoratore previdente.
Non è lo spettro del capitale né le pance borghesi che trovo sulla mia strada… è la moltitudine di lavoratori della gleba, della fabbrica che mi ostacola il cammino… Sono troppo numerosi. Non posso nulla contro di loro.
Bisogna pur vivere… E il lavoratore inganna, ruba, avvelena, strozza, annega, brucia il suo fratello, perché bisogna vivere.
E suo fratello inganna, ruba, avvelena, strozza, annega, brucia il lavoratore, perché bisogna vivere.
Oh, l’eterna ragione di vivere che porta la morte tra fratelli della stessa famiglia, tra individui dagli stessi interessi, come suona dolorosamente alle mie orecchie.
La tigre in agguato della sua preda nella giungla, o il pellicano che affonda il becco in acqua per afferrare il cibo, lottano contro le altre specie al fine di vivere. Ma né il pesce né l’antilope scambiano vani salamelecchi con la tigre e il pellicano. E la tigre e il pellicano non fondano sindacati di solidarietà con l’antilope ed il pesce.
Ma questa mano che stringete ha appena versato l’acqua cattiva, avvelenata, nel latte che avete bevuto al caseificio.
Ma quest’uomo che stende il suo corpo accanto al vostro, nello stesso letto, ha appena rinfrescato nei mercati la carne corrotta che mangerete a mezzogiorno nel ristorante accanto alla fabbrica.
In cambio, siete voi ad aver fabbricato le scarpe di cartone la cui umidità ha gettato l’uno sul letto, oppure avete costruito lo scadente muro di sostegno della metropolitana che è crollato sulla madre dell’altro.
Vi fiancheggiate, vi parlate, vi abbracciate, reciproci fratricidi, assassini di voi stessi. E quando uno di voi cade sotto i vostri colpi ripetuti, vi levate il cappello e accompagnate la sua carogna sotto terra, in modo che, pur crepato, continui il suo ruolo di assassino, di avvelenatore ed invii gli ultimi fetori della sua carne putrida per corrompere la carne giovane dei suoi e dei vostri figli.
[…]
Poiché si tratta di preparazione, di organizzazione, accordando a questo lavoro preliminare una scadenza abbastanza lunga, vediamo se sia possibile, invece di utilizzarlo per una difettosa limitazione della durata dello sforzo quotidiano, di cercare le rotelle che sono di troppo o quelle completamente inutili al fine di sopprimerle; le forze non impiegate o male impiegate, al fine di usarle.
Invece di questa limitazione che, allo stato attuale, comporterà tante eccezioni (e talvolta a buona ragione), decidiamo di non mettere mano a un lavoro inutile o nefasto, a un lavoro di lusso ridicolo o di controllo arbitrario.
Che l’uomo che incastona il rubino o che confeziona la catenella d’oro, per arricchire (?) il collo della prostituta «legittima» o «illegittima»; che chi lavora il marmo o il bronzo per ricoprire la carogna di qualche ladro illustre; che colui o colei che, per ore, infila perle di vetro per formare la corona ipocrita dei rimpianti coniugali o altri; che coloro il cui intero lavoro è abbellire, arricchire, aumentare, fabbricare di lusso per i ricchi, per i fannulloni, per agghindare le bambole femminili o maschili fino a renderle «reliquie» o teche, decidano di smettere di lavorare al fine di dedicare i loro sforzi a fare il necessario per sé e per gli altri.
Che coloro che fabbricano il bianco di piombo  e sostanze tossiche; che coloro che triturano il burro, mescolano i vini e le birre, che rinfrescano le carni avanzate, che producono tessuti misti, o i cuoi in cartone, che coloro che fanno del falso, truccato, che ingannano, che avvelenano per «guadagnarsi da vivere» cessino di prestare mano a questo lavoro idiota che può dare profitto solo ai padroni, il cui mezzo di sostentamento è il furto e il crimine. Che si mettano a voler fare un lavoro sano, un lavoro utile.
Che tutti coloro che perforano carte, che controllano, che prendono di mira, che ispezionano; che i tipacci che vengono rivestiti con una livrea per fare i cani inquisitori; che quelli che si mettono alle porte per verificare i bagagli o controllare i biglietti; che coloro il cui sforzo intero consiste nel garantire il corretto funzionamento della macchina umana e il suo buon rendimento nelle casse del padrone, che tutti questi qui, io dico, abbandonino questo ruolo imbecille di spie e sorveglino il valore dei propri gesti.
Che coloro che fabbricano casseforti, che battono moneta, che stampano biglietti, che forgiano recinzioni, che temperano le armi, che fondono i cannoni, lascino questo lavoro in difesa dello Stato e della fortuna, e lavorino a distruggere ciò che difendevano.
Quelli che fanno un lavoro utile e piacevole lo faranno per coloro che vogliono offrire il proprio sforzo in uno scambio reciproco.
Ma quanto lavoro di ognuno si ritroverà diminuito! … La macchina umana, sbarazzata delle inutili rotelle, migliorerà di giorno in giorno. Non si lavorerà più per lavorare, si lavorerà per produrre.
Allora, compagni, smettiamo tutti di fabbricare il lusso, di controllare il lavoro, di recintare la proprietà, di difendere il denaro, di essere cani da guardia e lavoriamo per la nostra felicità, per il nostro necessario, per il nostro piacere. Facciamo lo sciopero dei gesti inutili.
(Le travail antisocial et les mouvements utiles, 1909)