Simone Weil, Nota sulla soppressione dei partiti politici, traduzione di Giancarlo Gaeta, «Diario», anno IV, n. 6, giugno 1988, pp. 3-20
Simone Weil (con una prefazione di André Breton)
Castelvecchi Editore, Roma, 2012
Scritte nel 1943, l’anno della morte di Simone Weil, queste note rimasero nel cassetto assieme a molti altri suoi scritti inediti per essere pubblicate in Francia solo nel 1950. Ebbene, alla lettura di queste sue inequivocabili parole sulla necessità di sopprimere tutti i partiti politici — pensiero che in fondo si potrebbe considerare il suo «testamento politico» — si rimane sorpresi, quasi sbalorditi. Il significato della parola è talmente manipolabile da rendere pressochè inutile ogni espressione? Come è possibile che molti rinnovatori della politica si siano appropriati di questo testo, facendo della sua autrice una pioniera del cittadinismo?
Non se lo meritava, proprio no. Nemmeno quel cauto «sembra» con cui fa precedere alcune sue osservazioni lo giustifica. La scrittrice francese è chiara nell’indicare ogni partito come un «male», «totalitario in nuce e nelle aspirazioni», un organismo costituito «in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia». Dedito alla «menzogna» ed impotente a realizzare il cosiddetto «bene pubblico», ogni partito — insiste — è una vera e propria scuola di «servilismo». La critica di Simone Weil è talmente spietata da spingerla a dire che «la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro», ponendo fine a «una lebbra» che ha «contaminato» ogni cosa.
Ora, il rimedio contro questa lebbra non può essere certo un virus come la peste. Inutile agitare una qualche nuova «passione collettiva» con cui ottenebrare le persone, inutile sperare in partiti diversi o migliori. Nemmeno i partiti clandestini, quelli messi fuori legge per la loro opposizione, valgono granché. Anche loro, precisa l’autrice di questo testo, sono assetati di potere proprio e di obbedienza altrui. Contro la menzogna dei partiti politici c’è solo la ricerca individuale della verità, di quella «luce interiore» che per la scrittrice francese era un tutt’uno con Dio — ma che per altri è sinonimo di coscienza critica.
Come possono parole così chiare essere messe al servizio di nuovi partiti? Perché questa lebbra non ha devastato soltanto il mondo in cui viviamo, ha colpito e minato irrimediabilmente anche l’immaginario dell’essere umano, spuntando gli artigli alla critica radicale. Il testo usato dagli editori italiani come introduzione, un articolo redatto nel 1950 dal fondatore del surrealismo, ne è già un affliggente esempio. Anche Breton si scaglia con virulenza contro i partiti, ricorda con Camus la necessità di un’etica risolutamente ostile alla politica e saluta con ammirazione le parole di Simone Weil. Ma poi, ecco l’imbarazzante teorico del Meraviglioso concludere precisando di preferire una graduale «messa al bando» dei partiti rispetto ad una loro «soppressione» immediata; e «nell’attesa, possiamo quantomeno sperare che le prossime consultazioni elettorali riportino in vigore un sistema di scrutinio che non sfavorisca più sistematicamente il candidato che si ponga come responsabile di fronte ai propri elettori, a vantaggio di chi non deve fare i conti con altri che il proprio partito». Dall’intransigenza etica («Non si può servire Dio e Mammona. Qualora si abbia un criterio del bene diverso dal bene, si perde la nozione del bene») si passa così al possibilismo politico.
È questa assoluta incapacità di immaginare tutt’altro rispetto all’Uno dello Stato e del bene pubblico, è questa persuasione di dover «quantomeno» sporcarsi le mani con la politica, a far sì che qualsiasi attacco ai partiti venga interpretato automaticamente come fosse un attacco rivolto soltanto a quelli vecchi già esistenti, e da cui sarebbero esenti i partiti nuovi o futuri (che, in quanto tali, vanno ritenuti migliori e giusti). Ed è in virtù delle capacità recuperatrici di questo luogo comune che le critiche di Simone Weil, qui in Italia, hanno in passato influenzato l’esperienza di un imprenditore progressista come Adriano Olivetti (eletto nel 1958 alla Camera dei Deputati nella lista del Movimento Comunità), mentre oggi sono fonte di ispirazione per rampanti comici-politici pentastellati o per rottamati ex-ministri della Repubblica.
Ma se già settant’anni fa — ai tempi dei grandi comizi, dei giornali di partito e della radio — Simone Weil notava come la propaganda politica fosse una menzogna, oggi che a plasmare le più intime convinzioni di chiunque sono la televisione e internet, davvero si pensa che ci possa essere una qualsivoglia alternativa alla soppressione dei partiti politici? La storia ha dato un nome ben preciso al momento in cui questa soppressione esce dalla speculazione per diventare possibile e concreta. Non si chiama trionfo elettorale, né cambio di governo. Non si chiama referendum, né legge popolare. Non si chiama conquista del Parlamento, palazzo da «occupare» o da «aprire come una scatola di sardine».
Si chiama insurrezione. Come quella a cui Simone Weil partecipò in Spagna nell’estate del 1936.
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