Barcellona 1936-1938
Michael Seidman
Lo studio della resistenza operaia contro il lavoro — l’assenteismo, i ritardi, le simulazioni di malattia, i furti, i sabotaggi, i rallentamenti produttivi, l’indisciplina e l’indifferenza — consente di comprendere meglio due avvenimenti politici contemporanei: la rivoluzione spagnola e il Fronte popolare francese. Un esame attento della resistenza al lavoro nelle fabbriche di Parigi e Barcellona sotto i governi del Fronte Popolare in Francia e durante tutta la rivoluzione in Spagna evidenzia alcune costanti fondamentali nella vita della classe operaia. L’assenteismo, l’indisciplina e le altre manifestazioni di avversione al lavoro esistevano ancor prima della vittoria del Fronte popolare in Francia e dello scoppio della guerra e della rivoluzione in Spagna, ma è interessante notare che in entrambi i paesi questa resistenza è durata fin dopo la presa del potere politico e, a livelli differenti, del potere economico, da parte di partiti e sindacati che pretendevano di rappresentare la classe operaia. Infatti, sia nella situazione rivoluzionaria che in quella riformista, i partiti ed i sindacati di sinistra sono stati costretti a confrontarsi con innumerevoli rifiuti di lavorare da parte degli operai.
La resistenza operaia contro il lavoro nel ventesimo secolo è stata ampiamente ignorata o sottovalutata dagli storici marxisti del lavoro e dai teorici della modernizzazione — due scuole della storiografia del lavoro importanti, se non dominanti. Benché in contrasto su svariate questioni, entrambe condividono una visione progressista della storia. La maggior parte dei marxisti ritiene che la classe operaia acquisisca gradualmente una coscienza di classe, andando dall’an sich (in sé) al für sich (per sé), costituendosi in classe per sé e con l’obiettivo finale di espropriare i mezzi di produzione; i teorici della modernizzazione esaminano i lavoratori nel loro adattarsi al ritmo, all’organizzazione e alle esigenze generali della società industriale. Né i marxisti né i teorici della modernizzazione hanno considerato a sufficienza le costanti culturali della classe operaia che ne rivelano l’ostinata resistenza al lavoro. Di fatto, queste concezioni progressiste della storia della classe operaia sono incapaci di comprendere correttamente la permanenza dell’assenteismo, del sabotaggio e dell’indifferenza. Oltretutto è impossibile respingere la resistenza degli operai al lavoro nelle due situazioni, l’una rivoluzionaria, l’altra riformista, del secondo terzo del XX secolo, trattandola da «primitiva» o esempio di «falsa coscienza». La persistenza di molteplici forme di rifiuto del lavoro è certamente indice di una comprensibile risposta alle infinite difficoltà della vita quotidiana dei lavoratori, e di un sano scetticismo di fronte alle soluzioni proposte sia dalla sinistra che dalla destra.
La prima parte di questo saggio esaminerà la situazione rivoluzionaria a Barcellona. Essa cercherà di evidenziare le differenze di coscienza di classe tra gli operai militanti di sinistra, dediti anima e corpo allo sviluppo delle forze produttive durante la rivoluzione spagnola, ed il ben maggiore numero di quei non-militanti che continuarono a resistere al lavoro, come sovente facevano in precedenza. Diverse coscienze di classe si affrontarono così durante la rivoluzione spagnola. La mia intenzione non è di definire quale sia stata la forma di coscienza di classe «più giusta», ma di mostrare come la persistenza della resistenza al lavoro abbia minato i progetti rivoluzionari dei militanti e messo in discussione la loro pretesa di rappresentare la classe operaia.
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In Spagna la resistenza operaia contro il lavoro ha sicuramente una lunga storia che precede la guerra civile e la rivoluzione. Nel XIX secolo gli operai catalani, come gli operai francesi, erano legati alla tradizione del dilluns sant (San Lunedì), una giornata non ufficiale di permesso preso senza autorizzazione da molti lavoratori come prolungamento della tregua domenicale. Le battaglie sull’orario di lavoro continuarono nel XX secolo, anche sotto la seconda Repubblica. Nel 1932, ad esempio, gli operai manifestarono la loro volontà di non lavorare lunedì 2 maggio, perché il 1 maggio cadeva di domenica. Ancor più da rimarcare la costante battaglia sul «recupero» dei giorni festivi a metà settimana, spesso giorni di festa tradizionali; gli operai catalani, per lo più decristianizzati e anticlericali, insistevano a celebrarli. Nel 1927 l’associazione padronale Fomento del Trabajo Nacional, con sede a Barcellona, notava che a dispetto della legge i padroni che tentavano di costringere i propri dipendenti a recuperare i giorni festivi diversi dalla domenica potevano aspettarsi dei disordini. In effetti, nella primavera e nell’estate del 1927, per diversi giorni ci furono scioperi per protestare contro un progetto di trasformazione dei giorni festivi in giorni lavorativi. Nel 1929 gli operai si batteranno nuovamente per conservare le loro feste tradizionali. Il conflitto sarà particolarmente duro nella provincia di Barcellona, dove «la pressione della classe operaia ha impedito il recupero dei giorni festivi che cadevano durante la settimana, come autorizzato dalla legge» (Memoria della Federazione dei Fabbricanti di Tessuti e Filati della Catalogna, Barcellona 1930). «Le tensioni sociali» a Barcellona rendevano impossibile qualsiasi recupero dei giorni festivi.
Gli operai della città lottarono per una settimana lavorativa più corta; una rivendicazione, questa, al centro di molti scioperi durante la Seconda Repubblica. Alla fine del 1932 e all’inizio del 1933, i carpentieri scioperarono per tre mesi esigendo la settimana di 44 ore. Nel 1933 gli operai edili della CNT (Confederazione Nazionale del Lavoro) entrarono in sciopero per oltre tre mesi a favore della settimana di 40 ore, e alla fine di agosto ottennero una settimana di 44 ore invece delle precedenti 48 ore. Nell’ottobre dello stesso anno, i lavoratori nei settori dell’acqua, del gas e dell’energia elettrica della CNT e della UGT (Unione Generale dei Lavoratori) ottennero senza scioperare la settimana di 44 ore. Quando la settimana lavorativa di 48 ore venne ripristinata nel novembre 1934, scoppiarono diversi scioperi mentre gli operai lasciavano le fabbriche dopo aver lavorato solo 44 ore.
La resistenza operaia contro il lavoro durante la Seconda Repubblica non prese a prestito solo forme di azione collettiva quali la sospensione del lavoro o lo sciopero, ma anche forme individuali come ad esempio l’assenteismo, la simulazione di malattia o l’indifferenza. Nel 1932, gli industriali del settore tessile accusarono i propri caporeparti di assenza non autorizzata. Il fiore all’occhiello del settore dell’ingegneria meccanica, la Maquinista Terrestre y Marítima, riferì che durante la costruzione di un ponte a Siviglia, i lavoratori si ferivano intenzionalmente per usufruire dell’indennità di malattia; cosa che, a sua volta, provocò l’esclusione della Maquinista dalla sua compagnia d’assicurazione. In generale, gli imprenditori catalani erano contrari al programma di indennizzo e di assicurazione contro gli infortuni imposto dal governo, perché temevano che incoraggiasse gli operai a prolungare il periodo di malattia. La loro tesi era che l’esperienza delle compagnie di assicurazione confermava la quantità di frodi nelle dichiarazioni di malattia, senza contare gli atti di autolesionismo. È impressionante la similitudine con l’affermazione degli industriali catalani nei giorni del «bienio negro» (1934-1935), anni in cui la destra era al potere, secondo cui gli operai dimostravano il più delle volte «un desiderio minimo di lavorare». Nel corso degli anni 30, gli imprenditori respinsero le continue richieste della CNT e della UGT di sopprimere il lavoro a cottimo.
I militanti anarco-sindacalisti della CNT lo soppressero nelle loro collettività quando la rivoluzione scoppiò in risposta al «pronunciamiento», ma quasi subito i militanti anarco-sindacalisti e marxisti, che avevano preso il controllo delle fabbriche, furono costretti a reagire alla resistenza degli operai. Dopo la sconfitta della rivolta dei generali del 18 luglio 1936, nei primi giorni della rivoluzione, la CNT chiese più volte agli operai di tornare al lavoro. Il 26 luglio un comunicato apparso sul giornale della CNT, Solidaridad Obrera, domandava ai conducenti di autobus di giustificare la propria assenza dal lavoro. Il 28 luglio, un altro articolo ordinava energicamente a tutti i lavoratori della Hispano-Olivetti di tornare al proprio posto e minacciava sanzioni per coloro che non fossero tornati a lavorare senza un valido motivo. Sebbene il 30 luglio lo stesso giornale avesse dichiarato che il lavoro era ripreso nella maggior parte delle aziende di Barcellona, il 4 agosto lanciò di nuovo un appello all’«auto-disciplina». Il giorno dopo, il sindacato dei parrucchieri portava «a conoscenza dei suoi membri che essi avevano l’obbligo» di lavorare 40 ore a settimana e faceva sapere che non avrebbe tollerato una riduzione della giornata lavorativa.
L’avversione al lavoro pose fin dall’inizio della rivoluzione un problema ai militanti sindacalisti che gestivano le fabbriche e i laboratori a Barcellona, che furono costretti ad occuparsene. Senza dubbio questa resistenza al lavoro contraddiceva la teoria anarco-sindacalista dell’autogestione che con l’avvento della rivoluzione chiamava i lavoratori a partecipare attivamente, e a controllare, il proprio posto di lavoro. In altre parole, gli attivisti anarco-sindacalisti e marxisti domandavano ai lavoratori di Barcellona di svolgere con entusiasmo il proprio ruolo di operai. Ma questi ultimi non cedettero alle esigenze dei militanti sindacali, che lamentavano tra l’altro una scarsa partecipazione alle assemblee di fabbrica e il mancato pagamento delle quote associative, deplorando che il solo modo per far assistere gli operai alle riunioni era di tenerle durante le ore di lavoro, quindi a scapito della produzione. Così, ad esempio, la comunità Construcciones Mecánicas modificò la sua proposta di convocare le assemblee di domenica, dato che «nessuno sarebbe venuto», e optò per il giovedì. Nella Barcellona rivoluzionaria capitava che i lavoratori dimostrassero la propria ostilità a partecipare alla democrazia operaia.
Secondo le stesse cifre della CNT (da leggere con cautela), nel maggio 1936 riguardava solo il 30% degli operai industriali catalani (in calo rispetto al 60% del 1931). Pertanto, le «decine di migliaia» di lavoratori che si riteneva possedessero una scarsa «coscienza di classe» entravano nei sindacati per trovarvi una protezione sociale e un impiego stabile. H. Rüdiger, delegato della AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori) a Barcellona, scriveva nel giugno 1937 che prima della rivoluzione la CNT aveva fra i 150.000 ai 175.000 membri in Catalogna. Nei mesi successivi allo scoppio della guerra civile, il numero di aderenti catalani alla CNT raggiunse d’un balzo quasi il milione. Rüdiger ne concluse che «I quattro quinti sono quindi nuovi arrivati. Buona parte di loro non possono essere considerati rivoluzionari. Potrei citarvi come esempio qualsiasi sindacato. Molti di questi nuovi membri potrebbero stare altrettanto bene nella UGT».
I sindacalisti si sforzarono di soddisfare determinate aspettative della base. Sappiamo che la CNT del settore tessile ed abbigliamento, all’inizio della rivoluzione, aveva esaudito una rivendicazione avanzata da anni sopprimendo gli incentivi alla produzione, in particolare il cottimo, a suo parere «la causa principale delle miserabili condizioni» dei lavoratori. Tuttavia, a causa della bassa produttività e dell’indifferenza degli operai, la soppressione del cottimo divenne ben presto oggetto di attacchi del sindacato stesso: «Nei settori raggruppati nel nostro sindacato [CNT], e in cui era in gran parte prevalente prima del 19 luglio il lavoro a cottimo, la produzione è notevolmente diminuita ora che c’è un salario settimanale fisso (…). Con tutto ciò, non possiamo dare una solida base alla nostra economia, quindi speriamo che tutti i lavoratori (…) facciano molta attenzione a trarre un miglior profitto dagli strumenti di lavoro e dalle materie prime, fornendo il massimo rendimento».
I problemi relativi al cottimo perdurarono nell’industria dell’abbigliamento per tutta la rivoluzione. La collettività di F. Vehils Vidals, con oltre 450 operai, che produceva e vendeva camicie e maglieria, impose dal febbraio 1937 un elaborato sistema di premi per stimolare le proprie maestranze. Nel 1938, il cottimo venne reintrodotto nei laboratori di produzione di scarpe da poco riunite e un calzolaio, membro della CNT del tessile, protestò contro questa reintroduzione minacciando di bloccare il lavoro. Nel maggio del 1938, i lavoratori delle ferrovie di Barcellona si videro notificare il ripristino quasi totale del cottimo:
«Bisogna obbedire agli ordini dei dirigenti ed eseguirli. Nel fissare le tariffe, si dovrà partire dal principio che siano eque (…) [e che] permettano di ottenere una ragionevole retribuzione a pezzo. Non dimentichiamo che la regola di base è quella di lavorare insieme e non cercare di ingannarci fra di noi o il capo. Un resoconto dettagliato del lavoro svolto (…) dovrà essere presentato ogni mese alla data più idonea ad ogni settore, accompagnata da un breve rapporto sui risultati ottenuti e confrontandoli con quelli dei mesi precedenti, giustificando i rendimenti e le variazioni osservate sul lavoro».
Nell’agosto 1937, il Consiglio tecnico-amministrativo della CNT del settore edile propose una revisione delle teorie anarco-sindacaliste sui salari. Per il Consiglio, il dilemma era il seguente: o si ripristinava la disciplina del lavoro e si aboliva il salario unico, oppure si sarebbe andati verso il disastro. Il Consiglio constatò le «influenze borghesi» all’interno della classe operaia e chiese il ripristino delle gratifiche per i tecnici e i quadri. Raccomandò inoltre di farsi carico solo dei «compiti redditizi»; bisognava controllare il lavoro, le «masse devono essere rieducate moralmente», e il lavoro pagato in base allo sforzo e alla qualità. Nel luglio 1937, una dichiarazione congiunta della Agrupación Colectiva de la Construcción CNT-UGT di Barcellona ammise che la paga doveva dipendere dalla produzione. Gli specialisti di ogni sezione avrebbero stabilito un «livello minimo di rendimento».
«Ogni compagno che non raggiunga la soglia minima determinata dalla sezione alla quale appartiene sarà punito, e potrà anche essere escluso in caso di recidiva».
Il rapporto CNT-UGT raccomandava l’esposizione delle curve di rendimento, oltre ai testi di propaganda, allo scopo di incoraggiare il morale ed aumentare la produttività; sottolineando che i lavoratori edili spesso allungavano i tempi per paura di ritrovarsi disoccupati una volta finito il cantiere. Sia in pubblico che in privato, i marxisti della UGT preconizzavano che il salario fosse legato al rendimento e che venissero applicate sanzioni ai trasgressori. L’1 febbraio 1938, la UGT ingiunse ai propri membri di mettere a tacere qualsiasi rivendicazione dati i tempi di guerra, esortandoli a lavorare di più. Tuttavia, il sindacato UGT dei muratori il 20 novembre 1937 realizzò che una lotta salariale nella Agrupación Colectiva aveva provocato interruzioni del lavoro, e addirittura atti di sabotaggio. Disse anche che alcuni operai non volevano lavorare perché non ricevevano 100 pesetas a settimana, definendo l’atteggiamento di questi operai «disastroso e fuori luogo in questo momento». Il 15 dicembre 1937 informò che i lavoratori meno pagati pretendevano una parità di salario e che era in trattative con la CNT al fine di stabilire le norme minime di produzione. Nel gennaio 1938, il sindacato UGT edile comunicò in un rapporto che il presidente della Agrupación Colectiva de la Construcción CNT voleva condizionare una proposta di aumento salariale ad un miglioramento della disciplina tra i lavoratori.
Messi a confronto con molte rivendicazioni salariali, i sindacati adottarono tattiche diverse per aumentare la produttività e cercarono di assoggettare la paga alla produttività. Quando si aumentavano i salari nelle imprese collettivizzate o controllate dai sindacati, si pretendeva allo stesso tempo un corrispondente aumento del rendimento. Nel luglio 1937, la CNT degli operai del piombo chiese che i salari fossero legati alla produzione. L’11 gennaio 1938, la CNT dei metalmeccanici dichiarò che gli aumenti salariali dovevano accompagnarsi ad orari di lavoro più lunghi. La piccola impresa di produzione di abbigliamento J. Lanau, con una trentina di lavoratori, si trovò anch’essa in una situazione analoga. Secondo un rapporto del suo contabile del novembre 1937, il personale, prevalentemente femminile, era assicurato per infortuni, malattie e gravidanze. Le operaie, scrisse, hanno buoni rapporti con il proprietario e dispongono di un comitato di sorveglianza composto da due rappresentanti della CNT ed una della UGT. Tuttavia, la produzione era diminuita del 20%, e il contabile raccomandava per affrontare questo problema di stabilire «quote di produzione ben definite» nel laboratorio e nel settore vendite.
I conflitti salariali e i contenziosi sul lavoro a cottimo non erano affatto le sole manifestazioni del malcontento operaio; i sindacati, proprio come gli imprenditori prima della rivoluzione, dovettero affrontare grossi problemi relativi agli orari di lavoro. Durante la rivoluzione la classe operaia catalana, per lo più indifferente in materia di religione, continuò ad osservare i giorni di festività religiose tradizionali che cadevano a metà settimana. La stampa anarco-sindacalista e quella comunista criticavano spesso la difesa costante di queste tradizioni da parte dei lavoratori che, come abbiamo visto, sembravano profondamente radicate nella cultura della classe operaia spagnola. Nel dicembre 1936 Síntesis, giornale della collettività CNT-UGT Cros, e nel gennaio 1938 Solidaridad Obrera, informarono che le feste religiose tradizionali non potevano costituire una giustificazione per non presentarsi al lavoro. Infatti, l’osservanza delle festività religiose che cadono in giorno lavorativo (nessun osservatore ha mai notato una significativa partecipazione dei lavoratori di Barcellona alle messe domenicali), insieme all’assenteismo e ai ritardi, esprimevano un continuo desiderio di fuga dalla fabbrica, razionalizzata o democratica che fosse.
Le battaglie in merito all’orario di lavoro e alle ferie erano frequenti. Nel novembre 1937, un certo numero di lavoratori delle ferrovie rifiutarono di lavorare il sabato pomeriggio e si attirarono un reclamo della CGU per indisciplina. Il Comitato centrale di controllo operaio di gas ed elettricità chiese che si prendessero provvedimenti nei confronti di coloro che avevano lasciato il posto di lavoro il primo giorno dell’anno nel 1937. Il 4 ottobre 1937, in una riunione straordinaria del Consiglio Generale di gas ed elettricità, i rappresentanti della CNT riconobbero che alcuni dei suoi membri non rispettavano l’orario di lavoro; quando un delegato della UGT chiese se la Confederazione sarebbe stato in grado di imporlo, uno dei rappresentanti della CNT rispose:
«Temo proprio di no. Essi [gli operai refrattari] si comportano sempre nello stesso modo, e non vorranno mai scendere a compromessi (…). È inutile cercare di fare qualcosa dato che hanno mostrato di fregarsene degli accordi e delle istruzioni emanate dal comitato degli edili, dalle commissioni di sezione, ecc. Non prestano alcuna attenzione, sia che gli ordini provengano da un sindacato [anarco-sindacalista] sia che provengano dall’altro [marxista]».
In molti settori dell’industria i compagni erano spesso «malati». Nel febbraio 1937, la CNT metallurgici dichiarò senza mezzi termini che alcuni operai abusavano degli incidenti sul lavoro. Già nel dicembre 1936, un importante militante del sindacato dei lavoratori del piombo aveva lamentato «irregolarità commesse in quasi tutti i laboratori in relazione alle malattie e agli orari [di lavoro]». Nel gennaio del 1937, un altro lavoratore del piombo notava «il rilassamento» in diverse fabbriche: «Ci sono molti lavoratori che perdono un giorno o mezzo per scopi personali, non perché sono malati».
La commissione tecnica CNT dei muratori attirò l’attenzione sul caso di un operaio che, avendo un certificato medico per «epilessia», era stato visto fare del giardinaggio durante una visita dei membri della commissione.
Vennero segnalati furti nelle fabbriche e nelle collettività. La CNT metalli non ferrosi affermò che un compagno che lavorava in una fabbrica controllata dalla CNT aveva portato via degli strumenti al momento di dare le dimissioni per l’esercito. Nel dicembre 1936, la sezione dei meccanici della famosa Colonna Durruti avvisò la CNT della metallurgia che un compagno era partito con gli strumenti «probabilmente senza prestarvi attenzione», e chiese al sindacato di fargli restituire l’attrezzatura mancante il più rapidamente possibile. Anche la CNT dei calzolai prese atto di vari furti. E alcuni militanti e funzionari delle collettività furono accusati di appropriazione indebita e abuso di fondi.
Di fronte ai sabotaggi, ai furti, all’assenteismo, ai ritardi, alla simulazione di malattie e ad altre forme di resistenza della classe operaia nei confronti del lavoro e sul posto di lavoro, i sindacati e le collettività cooperarono per stabilire regole e regolamenti severi equiparabili ai controlli nelle imprese capitaliste, se non superiori. Il 18 giugno 1938, i delegati della CNT e della UGT della collettività Gonzalo Coprons y Prat, che produceva divise militari, comunicarono un serio calo della produzione per il quale non vi era alcuna «spiegazione soddisfacente». I delegati dei due sindacati invocarono il rispetto delle quote di produzione e dell’orario di lavoro, un rigoroso controllo delle assenze, ed il «rafforzamento dell’autorità morale dei tecnici». La collettività della ditta di abbigliamento F. Vehils Vidals, che aveva istituito un complesso sistema di incentivi per i suoi 450 operai, approvò il 5 marzo 1938 nel corso di una assemblea generale una serie di regole molto severe: fu nominato un operaio per controllare i ritardari e un elevato numero di ritardi che avrebbe comportato l’esclusione; i compagni malati avrebbero ricevuto la visita di un delegato del consiglio della collettività, e se assenti da casa sarebbero stati multati; era vietato lasciare la collettività durante le ore di lavoro, e qualsiasi compito all’interno della collettività doveva essere svolto nell’interesse della stessa, in altre parole, le questioni personali erano bandite; i compagni che lasciavano i laboratori con dei pacchetti erano obbligati a mostrarli alle guardie incaricate della sorveglianza; se un operaio era testimone di un furto, di una frode o di altro atto disonesto, doveva riferirlo per non essere accusato di complicità; i tecnici erano invitati a fare un rapporto settimanale su quanto era stato realizzato nelle loro sezioni; infine, non sarebbe stato tollerato che venisse disturbato «l’ordine né dentro né fuori la fabbrica», e ogni operaio mancante alle assemblee doveva pagare una multa.
Altre collettività dell’industria dell’abbigliamento pubblicarono un complesso di regole analoghe. Nel febbraio del 1938, il consiglio CNT-UGT di Pantaleoni Germans stabilì un orario di lavoro intensivo e delle sanzioni per i ritardi. Venne nominato un compagno al fine di controllare gli ingressi e le uscite. Si dovevano accettare i compiti assegnati e le istruzioni «senza discutere» ed eseguirli nel tempo richiesto. Qualsiasi spostamento all’interno della fabbrica era sottoposto all’approvazione del capo sezione, e uno spostamento non autorizzato aveva come conseguenza la sospensione con trattenuta di salario che poteva andare dai tre agli otto giorni. Nessuno strumento doveva uscire dalla collettività senza autorizzazione e fu istituito un periodo di prova di un mese per tutti i lavoratori. Il comitato di controllo CNT-UGT dell’impresa Rabat avvisò che ogni compagno assente dal lavoro, qualora non fosse malato, si sarebbe visto sopprimere la paga. I lavoratori di questa impresa, soprattutto donne, furono ammoniti che l’indisciplina avrebbe comportato la perdita del posto di lavoro, in un settore, ricordiamolo, con un alto tasso di disoccupazione. Tutti i lavoratori della Rabat erano tenuti ad assistere alle assemblee per non incorrere in multe. Erano ammesse solo le conversazioni attinenti al lavoro durante le ore lavorative. Altre collettività, come la Artgust, che aveva chiesto senza successo agli operai di aumentare la produzione, imposero a loro volta delle regole che proibivano le conversazioni, i ritardi e perfino la ricezione di telefonate. Nell’agosto 1938, alla presenza di rappresentanti della CNT, della UGT e della Generalitat della Catalogna, l’assemblea operaia della Casa A. Lanau dichiarò vietati i ritardi, le malattie simulate, e il canto durante il lavoro. Alle Magetzems Santeulàlia veniva ispezionato ogni pacchetto in arrivo e in uscita dalla fabbrica. I sindacati CNT e UGT di Badalona, un sobborgo industriale di Barcellona, avviarono un controllo dei malati e convennero che gli operai dovevano giustificare le proprie assenze che, si lamentavano, erano «incomprensibili» e «abusive» in quanto la settimana di lavoro era ormai ridotta a 24 ore.
Pare che la severità di queste norme e regolamenti sia stata una conseguenza della degradazione della produzione e della disciplina in molte imprese dell’abbigliamento tessile. Il 15 giugno 1937, il contabile della Casa Mallafré CNT-UGT fece una relazione sui laboratori di abbigliamento. Nelle sue conclusioni, l’amministrazione della collettività era integra ed irreprensibile, ma «la parte più delicata del problema» restava la produzione, dato che «nella produzione risiede il segreto del fallimento o del successo industriale e commerciale». Se il rendimento dei laboratori si fosse mantenuto a quei livelli estremamente bassi, ammoniva, l’impresa — che fosse collettivizzata, o sotto controllo sindacale o socializzata — sarebbe fallita. La produzione attuale non copriva nemmeno le spese settimanali, ed occorreva assolutamente accrescere il rendimento se l’impresa voleva sopravvivere. Un’altra collettività del vestiario CNT-UGT, Artgust, il 9 febbraio 1938 chiedeva consiglio alla CNT e alla UGT circa la sproporzione tra i costi elevati e la scarsa produttività: «Nonostante i nostri incessanti appelli al personale dello stabilimento, non siamo riusciti finora a migliorare il rendimento».
In molte collettività diversi operai furono licenziati o sospesi. Ad un compagno di un laboratorio da calzolaio CNT fu chiesto di dimettersi a causa della sua bassa produttività. Un sarto scontento, che aveva chiesto di essere trasferito in un altro laboratorio, aggredì fisicamente un collega, insultò il consiglio di fabbrica e minacciò il direttore e un tecnico. Venne sospeso nel giugno 1938. Una militante delle Mujeres Libres, il gruppo di donne della CNT, venne accusata di immoralità, di assenze ingiustificate, e subì pure un simulacro di processo dai suoi compagni, che reclamarono misure disciplinari nei suoi confronti. L’accusa di «immoralità» non era eccezionale durante la rivoluzione spagnola; rivela che i militanti sindacalisti consideravano l’incompetenza o la mancanza di risultati nel lavoro come «immorali», quando non addirittura criminali. Giudicavano con disapprovazione anche le attività non direttamente legate alla produzione. I militanti della CNT cercarono di porre fine all’«immoralità» chiudendo dalle ore 22 i luoghi di divertimento come bar, sale da concerto e da ballo. Si parlò di riformare le prostitute attraverso la terapia del lavoro, e di eliminare la prostituzione come già accaduto in Unione Sovietica. Bisognava rimandare a dopo la rivoluzione i rapporti sessuali e il desiderio di avere figli.
I sindacati metalmeccanici della CNT e della UGT cercarono di governare l’indisciplina segnalata in molte collettività. Nel 1938, un operaio venne escluso da una collettività, anche lui per «immoralità», cioè per non essere andato a lavorare senza giustificazione. Un’altra collettività manifestò l’intenzione di licenziare una donna «incosciente» che aveva fornito più volte false giustificazioni per le sue assenze. Nell’agosto 1936, la CNT della metallurgia avvertì i compagni che non eseguivano i compiti a loro assegnati che sarebbero stati sostituiti «senza alcuna considerazione». Come nel settore tessile, la maggior parte delle collettività della metallurgia pubblicarono regole di controllo degli assenti per malattia:
«Il consiglio si vede costretto a far verificare le assenze per malattia da uno o una compagna che tutti i compagni della fabbrica dovranno lasciar entrare in casa… L’ispezione potrà avvenire più volte al giorno, quante il consiglio riterrà opportuno».
La collettività di ascensori ed impianti industriali (Ascensores y Aplicaciones Industriales) annunciò che qualsiasi tentativo di frode riguardante le assenze per malattia sarebbe stato punito con l’esclusione. L’assemblea della ditta Masriera i Carreras, dove la UGT era in maggioranza, comunicò il 1 settembre 1938 che «alcuni compagni avevano l’abitudine di iniziare a lavorare con quindici minuti di ritardo ogni giorno» e adottò all’unanimità di trattenere mezz’ora di paga per ogni assenza di cinque minuti. Nel gennaio 1937, il sindacato dei lavoratori del piombo rese noto che, se un lavoratore fosse entrato in fabbrica con mezz’ora di ritardo, avrebbe perso mezza giornata di salario. Nel luglio 1937, la collettività Construcciones Mecánicas istituì una penalità equivalente alla perdita di un quarto d’ora di paga per essersi lavati le mani o cambiati prima della fine della giornata lavorativa.
I problemi erano gli stessi nel servizio pubblico. Il 3 settembre 1937, il Consiglio generale delle industrie dell’elettricità e del gas constatò un «calo di rendimento», e dichiarò che era suo dovere difendere l’interesse comune da una minoranza priva di «moralità». I lavoratori arrivati in ritardo o assenti ripetutamente sarebbero stati sospesi o licenziati. Venne espressamente vietato ai lavoratori di riunirsi durante le ore di lavoro, e il Consiglio informava che avrebbe preso provvedimenti disciplinari ogni volta che fosse stato necessario. Nel gennaio 1938, nel corso della sua sessione economica, la CNT definì «i diritti e i doveri del produttore»:
«In ogni settore professionale ci sarà qualcuno incaricato di assegnare i compiti, che sarà ufficialmente responsabile (…) per la quantità e la qualità del lavoro e del comportamento dei lavoratori».
Questo esecutore di compiti era abilitato a licenziare un lavoratore per «pigrizia o immoralità»; e altri funzionari erano lì per verificare se i piccoli incidenti sul lavoro di «origine sospetta» fossero fondati o «dubbi»: «Tutti gli operai e i dipendenti avranno un dossier in cui verranno registrati i dettagli della loro personalità professionale e sociale».
I sindacati unirono queste norme e regolamenti repressive con vaste campagne di propaganda allo scopo di portare la base operaia, attraverso la persuasione o la coercizione, a lavorare con maggiore energia. Questa propaganda rivelava l’entità del basso livello di produttività e l’indisciplina. La collettività Vehils Vidals lanciava ai quattro venti gli appelli all’«amore per il lavoro, il sacrificio e la disciplina». La collettività CNT-UGT Pantaleoni Germans pretendeva che il proprio personale «si dedicasse al suo lavoro». I fabbricanti di scarpe esigevano «moralità, disciplina e sacrificio». Nell’aprile 1937, la rivista della grande azienda tessile Fabra i Coats dedicò un’intera pagina ai suoi lavoratori scongiurandoli di «lavorare, lavorare e lavorare». La CNT metteva spesso in guardia i suoi militanti di base dal confondere libertà e lassismo, dichiarando che quelli che non lavorano sodo erano dei fascisti. Per la Confederazione, i lavoratori, dato che non lavoravano quanto avrebbero dovuto, possedevano il più delle volte una «mentalità borghese». A suo avviso, gli operai avevano la possibilità di scegliere tra i benefici immediati o i reali miglioramenti nel futuro. Era giunto il momento della «autodisciplina».
Nel febbraio 1937, la collettività della CNT-UGT Marathon, un costruttore di motori per automobili, si lamentava nel suo giornale Horizontes:
«Molti lavoratori non vedono nella collettivizzazione null’altro che un semplice cambiamento di beneficiari; pensano semplicisticamente che il loro contributo alla fabbrica (…) si limiti a noleggiare i propri servizi proprio come quando l’industria era privata, e si interessano solo (…) ai loro stipendi alla fine della settimana».
Nel maggio 1937, i militanti della Marathon cercarono di convincere la propria base a ottenere «il massimo» da quei macchinari prima così odiati.
Nel gennaio 1938 Solidaridad Obrera, il quotidiano della CNT, pubblicò un articolo intitolato: «Imponiamo una stretta disciplina sul posto di lavoro», che venne ristampato diverse volte dai periodici della CNT e della UGT: «Alcuni, purtroppo, hanno frainteso il significato dell’eroica lotta portata avanti dal proletariato spagnolo. Non sono né borghesi, né ufficiali militari, né sacerdoti, ma operai, autentici operai, proletari abituati a soffrire la brutale repressione del capitalismo (…). La loro indisciplina sul posto di lavoro ha impedito il normale funzionamento della produzione (…). Prima, quando pagava la borghesia, era logico danneggiare i suoi interessi, sabotare la produzione e lavorare il più possibile (…). Ma oggi è completamente diverso (…). La classe operaia comincia a costruire una industria che servirà da base alla nuova società».
In una conversazione confidenziale con alcuni membri CNT della collettività dell’ottica, il comunista Ruiz y Ponseti, uno dei dirigenti più importanti della UGT, riconobbe che era il comportamento dei lavoratori a mettere maggiormente in pericolo le collettività. Secondo lui, senza arrivare a dirlo pubblicamente, gli operai erano semplici «masse», la cui cooperazione, purtroppo, era indispensabile al corretto funzionamento delle imprese.
Pertanto, nella Barcellona rivoluzionaria, i dirigenti e militanti delle organizzazioni che affermavano di rappresentare la classe operaia furono costretti a fare guerra all’ostinata resistenza dei lavoratori contro il lavoro. Questa persecuzione delle lotte operaie contro il lavoro in circostanze in cui le organizzazioni operaie dirigevano le forze produttive, pone la questione di quanto esse incarnino veramente gli interessi della classe operaia. Sembrerebbe che la CNT, la UGT e il PSUC (partito comunista catalano) riflettessero il punto di vista dei lavoratori che queste organizzazioni consideravano «coscienti». Gli «incoscienti», il cui numero superava di gran lunga quello dei «coscienti», non avevano alcuna rappresentazione formale né organizzativa. Di solito non rendevano pubblico il loro rifiuto di lavorare, per ragioni facili da comprendere: dopo tutto, la loro resistenza al lavoro era sovversiva in una rivoluzione e in una guerra civile in cui la nuova classe dirigente si dedicava con fervore allo sviluppo economico. Il loro silenzio era un mezzo di difesa e un modo per resistere. Impedisce qualsiasi conteggio statistico della resistenza al lavoro; e molti rifiuti di certo non sono mai stati quantificati né sono stati oggetto di qualche testimonianza.
Questa storia della resistenza operaia contro il lavoro può essere parzialmente ricostruita a partire dai resoconti delle assemblee delle collettività e, paradossalmente, dalle critiche da parte delle organizzazioni che pretendevano di rappresentare la classe. Le lotte contro il lavoro mettono in evidenza la distanza, il fossato che separa i militanti, adepti dello sviluppo dei mezzi di produzione, e l’immensa maggioranza dei lavoratori che non erano disposti a sacrificarsi senza riserve per esaudire il volere dei militanti. Mentre questi ultimi identificavano la coscienza di classe con il controllo e lo sviluppo delle forze produttive, con l’attuazione di una rivoluzione produttivista e di uno sforzo senza riserve per vincere la guerra, la coscienza di classe della maggior parte degli operai si manifestava nel tentativo di sfuggire allo spazio e all’orario del lavoro, esattamente come prima della rivoluzione.
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La resistenza operaia contro il lavoro apre grandi prospettive. Lo studio dell’avversione degli operai per il lavoro dimostra come la pretesa dei sindacati e dei partiti politici di sinistra di rappresentare la classe operaia sia quanto meno discutibile. I lavoratori francesi e spagnoli continuarono a resistere tradizionalmente al lavoro nonostante gli appelli comunisti, socialisti, anarchici o sindacalisti per aumentare la produzione. Questa ostinazione della resistenza operaia fece nascere tensioni tra alcuni membri della classe operaia e le organizzazioni che pretendevano di rappresentarli. In contesti differenti, uno rivoluzionario, l’altro riformista, la persuasione e la propaganda, destinate a convincere gli operai a lavorare sodo, non raggiunsero il loro obiettivo, e dovettero supplirvi con la forza. A Barcellona, per riuscire ad aumentare la produttività, venne ripristinato il cottimo e imposte norme rigorose. A Parigi fu solo dopo il 30 novembre 1938, quando lo Stato fece intervenire massicciamente la polizia e l’esercito per spezzare lo sciopero generale decretato in difesa della settimana di 40 ore, che la disciplina fu restaurata e la produttività aumentò nella maggior parte delle aziende nella regione parigina. Si dovette rafforzare la persuasione con la coercizione per far lavorare più duramente gli operai.
I teorici della modernizzazione hanno minimizzato o ignorato la resistenza operaia contro il lavoro e l’uso che venne fatto della forza per garantire un rendimento maggiore. Questa teoria, che considera i lavoratori nel loro graduale adattamento alla fabbrica, ha sottovalutato la tenacia dell’assenteismo, del sabotaggio, dei ritardi, dei rallentamenti e dell’indifferenza — fenomeni che posero enormi difficoltà sia ai rivoluzionari spagnoli che alla coalizione francese del Fronte popolare. Purtroppo, è quasi impossibile misurare precisamente l’enorme mole di rifiuto del lavoro. Il mutismo dei lavoratori ha impedito di sollevare il velo sugli atti più importanti della loro classe. Le azioni «sovversive» — distruzione di macchine, furti, rallentamenti del lavoro, simulazioni di malattie, sabotaggi — sono raramente rivendicate ed eccezionalmente rese pubbliche. È ovvio che i partiti politici e i sindacati che pretendono di rappresentare la classe operaia sono riluttanti a descrivere i loro membri altrimenti che sobri, seri e lavoratori, in paesi che valorizzano soprattutto lo sviluppo delle forze produttive. Ciò che è più interessante e più importante spesso è ciò che è più difficile da trovare, e di solito questi argomenti vengono trattati unicamente negli archivi padronali e polizieschi. Ora, se la discrezione degli operai impedisce ogni misura statistica del fenomeno, la resistenza contro il lavoro durante gli anni 30 deve tuttavia essere considerata come una parte essenziale della vita operaia a Barcellona e a Parigi.
Non solo la teoria della modernizzazione, ma anche la storiografia marxista del lavoro ha generalmente minimizzato o ignorato la persistenza della resistenza operaia contro il lavoro in entrambe le situazioni, rivoluzionaria o riformista. Proprio come i teorici della modernizzazione, i marxisti hanno una concezione progressista della storia, e postulano un movimento che porta dalla classe in sé alla classe per sé, vale a dire una classe operaia in formazione. Ma questa visione teleologica della storia, che pone il principio dello sviluppo di una classe operaia intrisa di una «coscienza di classe» implicitamente omogenea, porta anche a trascurare la sopravvivenza di coscienze di classe diverse, in particolare la resistenza operaia contro il lavoro. Il rifiuto del lavoro è stato un aspetto essenziale della cultura della classe operaia fino al secondo terzo del XX secolo nelle due grandi città europee, mentre la sinistra era al potere, certo a livelli diversi ma considerevoli. Sia a Parigi che a Barcellona, i militanti sinceramente impegnati nei loro partiti e sindacati rimasero una minoranza separata dalla classe operaia. Se molti lavoratori si conformarono alla nuova atmosfera sociale e politica aderendo ai sindacati, la maggior parte adattarono le loro tradizioni di resistenza contro il lavoro alla nuova situazione. I cosiddetti «lavoratori coscienti» e i militanti furono allora costretti ad affrontare questa ben altra coscienza di classe di coloro che essi a volte definivano «lavoratori senza coscienza».
Naturalmente non è sufficiente respingere questa passività o questo rifiuto della classe operaia qualificandoli come «incoscienza» o «falsa coscienza». Come scrisse Jean Guéhenno nel suo Diario di una rivoluzione (1936-1938), questo fondale d’indifferenza, di confusione pure, è una reazione relativamente sana. In un mondo mediocre e falso, lo scetticismo è una forza, e l’assenza di adesione di molti operai alle ideologie dei partiti e dei sindacati, che dipendono dal mondo del lavoro al fine di esistere in quanto organizzazioni, non è necessariamente una «falsa coscienza».
La resistenza contro il lavoro non rientra in nessuna categoria politica ben definita; ha sopravvissuto per tutti gli anni 30, anche se con intensità variabili, sotto i governi di destra e di sinistra. È vero che il rifiuto del lavoro si è certamente ampliato quando i regimi di sinistra soddisfacevano le rivendicazioni operaie, come ad esempio l’abolizione del cottimo o la settimana di 40 ore; tuttavia, politiche più repressive, come quelle che sono state applicate durante il «bienio negro» o nei primi anni della depressione in Francia, hanno forse ridotto le lotte contro il lavoro, ma non le hanno eliminate. Si può ragionevolmente sostenere che la resistenza contro il lavoro rispondesse ai desideri più intimi di molti operai e che, se è rimasta nascosta, essa è nondimeno una parte importante della cultura della classe operaia in situazioni politiche dissimili.
[Pour une histoire de la résistance ouvrière au travail.
Paris et Barcelone pendant le Front populaire français et la révolution espagnole, 1936-1938, 2001]