È stato questo l’urlo di rivendicazione lanciato da un manipolo di studenti universitari contro la “Riforma Gelmini”, ovvero contro i previsti tagli a scuola e università; un urlo lanciato nel corso di una ben strana forma di “protesta”. Se una volta si occupavano scuole e università e si scendeva per strada, oggi si pratica un “flash mob” – moderna amenità di un triste presente – facendosi riprendere dalle telecamere, ligi alle direttive della società dello spettacolo.
Ma se le cose non si cambiano con uno spettacolino in piazza, è anche su un altro punto che bisogna soffermarsi a riflettere: la continua rivendicazione di lavoro.
Non passa giorno che non si venga bombardati da una informazione che propina storie lacrimevoli; storie che raccontano di onesti lavoratori che richiedono l’intervento delle forze dell’ordine pur di poter lavorare, di brave madri di famiglia licenziate e costrette a comprare meno vestitini alla moda ai loro figli. Si rivendica il diritto al lavoro non solo per poter far fronte alle primarie esigenze vitali ma, anche, per garantirsi tutto il futile di cui si è soliti circondarsi e non si è più disposti a fare a meno. Si chiede di lavorare per poter consumare, continuando così ad alimentare il perverso meccanismo capitalista che è la reale causa dell’attuale situazione di licenziamenti generalizzata. Il cane si morde la coda.
E poi, perché dovremmo interessarci alla sorte di tanti lavoratori, il cui lavoro ha effetti nocivi e negativi sulle vite di chi gli vive accanto? Il caso di coloro rimasti senza lavoro per la chiusura dell’impianto di incenerimento della Copersalento di Maglie è emblematico. Quello di gran parte dei ricercatori universitari è identico: a quali progetti e quali interessi asserviranno la loro ricerca? Troppo spesso è una ricerca mirata a nuove forme di dominio e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura. Un altro caso esemplare è quello dei ricercatori del laboratorio di nanotecnologie di Lecce, impegnati in progetti di controllo e di guerra; allora sarebbe auspicabile che gente simile non restasse precaria a vita ma, più semplicemente, non iniziasse mai a lavorare.
Ma una riflessione più profonda si impone. È mai possibile che l’unico orizzonte a cui si è capace di aspirare sia quello di un futuro lavorativo, fatto di tempo alienato e della solita estenuante routine fino alla morte, e non si sia invece capaci di immaginare una vita diversa, fatta di ozio, godendo del lento scorrere del tempo da impiegare per i propri bisogni e le proprie esigenze? È possibile che non si sia capaci di immaginare il proprio futuro al di fuori di una vita fatta di sfruttamento in cambio di un salario (o stipendio) e di intendere il lavoro in una forma diversa da quella oramai cristallizzata nel corso di secoli di sfruttamento e sottomissione?
Ci sono molte anime belle disposte a tutto pur di garantire il proprio o l’altrui sfruttamento: noi no.
Noi non moriremo di lavoro!
Alcuni nemici di Stachanov
[ottobre 2010]