settembre 2005
“Non ti accorgi che ogni generazione è in attesa di un cataclisma spaventoso; che sente salire la tempesta, e che ogni borghese si affretta ad assicurarsi contro la morte vicina, dovesse pure far perire, per ciò, tutti quelli che gli sono cari? A che servono i discorsi da maestro di scuola a della gente per tre quarti annegata?”.
(Ernest Cœurderoy, Giorni dell’esilio)
Non ci sono più illusioni.
Le bombe di Londra hanno dimostrato una cosa sola: il terrore che i governi e i capitalisti occidentali hanno sparso in ogni angolo del mondo sta tornando indietro. Le terribili esplosioni londinesi hanno portato in Europa un pezzo di Baghdad, di Kabul, di Jenin. L’odio e la disperazione non sono più confinati nelle sperdute, esotiche periferie, ma irrompono da dietro le quinte, nel bel mezzo della messa in scena democratica. La logica del fine che giustifica i mezzi (portare la pace in Iraq attraverso un genocidio) ha prodotto il suo contraccolpo. Se con il pretesto di destituire Saddam Hussein si sono massacrati un milione e mezzo di iracheni, si vorrà forse eccepire qualcosa a chi ha fatto saltare in aria 54 londinesi con il fine di fermare la politica assassina di Blair? Se è accettabile uccidere indiscriminatamente per il petrolio e per il dominio, perché non dovrebbe essere accettabile uccidere indiscriminatamente per liberare la propria terra da un’oppressione straniera? Cos’hanno da rimproverare i professionisti del terrore a questi ben più piccoli portatori di morte? L’evento eccezionale di Londra è una realtà quotidiana a Gerusalemme o a Bassora. Quello che questi vampiri di ogni coscienza ci stanno dicendo, in fondo, è che un morto occidentale vale più di mille arabi morti. Chi fa la morale a chi? Ah già… i valori occidentali. Quelli li abbiamo visti ad Abu Ghraib, a Falluja, a Guantanamo.
Non ci sono più illusioni.
Non avendo voluto o saputo dissociarsi praticamente dai propri governi guerrafondai, le popolazioni occidentali si stanno esponendo a sanguinose rappresaglie. La guerra è anche qui – questo non è più uno slogan antimilitarista. È una verità fredda come un cadavere. Ci dicono che il prossimo obiettivo potrebbe essere una città italiana. Sì, potrebbe essere. Evidentemente sanno bene quali sono le responsabilità del governo italiano nei massacri in Iraq, così come sanno che a rischiare di saltare in aria anche qui sarà la gente qualsiasi. «Non cambieranno mai il nostro modo di vivere», ha dichiarato Blair dopo le bombe del 7 luglio. Per poi aggiungere a metà agosto: «Non accetteremo tutte queste insensatezze sui bombardamenti in qualche modo collegati con ciò che gli inglesi stanno facendo in Iraq o in Afghanistan, o col supporto a Israele, o col supporto all’America, o tutto il resto. Sono insensatezze e così dobbiamo trattarle». Tutti gli oppositori alla guerra sono avvertiti.
Non ci sono più illusioni.
Purtroppo, come aveva preteso Blair, nemmeno le odiose bombe londinesi hanno cambiato il modo di vivere. Al contrario, un’ondata di razzismo si è scatenata contro gli immigrati in generale e gli arabi in particolare, con decine di negozi bruciati e diversi ragazzi linciati. Il brasiliano Jean Charles de Menezes, freddato in metropolitana dalla polizia perché sospettato di essere un attentatore, è stato semplicemente registrato nel freddo computo delle perdite della “lotta al terrorismo”. Sull’altro fronte: perquisite librerie di pacifisti musulmani, libri contro la guerra sequestrati in quanto “anti-occidentali”, sedi di associazioni culturali chiuse, stilati elenchi di giornalisti sospetti. Proprio come dopo l’11 settembre, le leggi più liberticide contro gli immigrati e contro i dissidenti sono state approvate con la consueta copertura dei mass media. L’Italia, al rimorchio.
Non ci sono più illusioni.
Il cosiddetto «pacchetto Pisanu», cioè il decreto legge 27 luglio 2005 n. 144, diventato poi legge a tutti gli effetti, contiene le «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale». Esso introduce, attraverso l’articolo 270 sixies, la seguente definizione di terrorismo: «Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un paese o a un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un paese o di un’organizzazione internazionale». Non è forse terrorismo, allora, intimidire la popolazione irachena con i bombardamenti, le torture e gli squadroni della morte? Viceversa, non è proprio per costringere i “poteri pubblici” a compiere o astenersi dal compiere un qualche atto che vengono in genere organizzati manifestazioni e scioperi (ad esempio per pretendere il ritiro delle truppe dall’Iraq)? Mentre si occulta il terrorismo dello Stato e delle multinazionali, si definisce terrorista ogni forma di dissenso reale, ogni tentativo di destabilizzare un assetto politico, economico e sociale assassino.
Non ci sono più illusioni.
È evidente quali sono i nemici individuati da questa nuova legge. Ogni immigrato è considerato un terrorista potenziale. Se collaborerà con la polizia nella “lotta al terrorismo” potrà ottenere il permesso o la carta di soggiorno, altrimenti, sulla base di semplici sospetti, potrà essere immediatamente espulso, anche se in possesso dei documenti in regola. Secondo una logica premiale che dal carcere si è estesa all’intera società, l’ultimatum rivolto agli immigrati è netto: o delatori da utilizzare o criminali da espellere. Ma il resto vale per chiunque metta in discussione la presente organizzazione sociale. Per identificare qualcuno sospettato di “terrorismo” è ora possibile attuare il prelievo coattivo dei capelli e della saliva, ovviamente «nel rispetto della dignità personale del soggetto» (articolo 10), mentre viene quasi raddoppiata la pena per il semplice possesso di un passaporto falso (da 1 a 4 anni, aumentabile di un terzo o della metà se lo si fabbrica da sé o lo si detiene non per uso personale). È consentito l’arresto, anche fuori dei casi di flagranza, di chi vìola la sorveglianza speciale, l’obbligo o il divieto di soggiorno, per cui è prevista una pena che va da 1 a 5 anni (art. 14). Sulla base di semplici sospetti, poi, possono essere sequestrati soldi, negozi, beni. Inoltre, il fermo di polizia è portato da 12 a 24 ore (modificando così una legge promulgata dopo l’assassinio in questura dell’anarchico Pinelli). Mentre viene allungato fino a 5 anni il periodo di archiviazione del traffico telefonico e telematico di chiunque (con un aumento dei soldi stanziati per le intercettazioni telefoniche e ambientali, in un paese che a tal scopo spende, in percentuale, più degli stessi Stati Uniti), sarà d’ora in poi necessario esibire un documento d’identità per utilizzare internet in qualsiasi negozio o locale pubblico – insomma, una schedatura di massa. È resa ufficiale la pratica dell’infiltrazione da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria, i cui poteri sono pressoché illimitati. Sono affidati compiti di polizia all’esercito e persino alle guardie giurate. Ecco alcune delle misure introdotte dalla destra e che la sinistra perbene ha subito approvato e definito ragionevoli (quando non addirittura considerato troppo limitate). Appena votate, nella sola Lombardia, in un giorno, sono stati espulsi 52 immigrati.
Non ci sono più illusioni.
Le dichiarazioni di Pisanu sui centri di permanenza temporanea – cioè i lager in cui vengono rinchiusi gli immigrati privi di documenti – quale strumento nella lotta contro il “terrorismo” sono emblematiche, così come i suoi riferimenti a chi “fomenta” le rivolte e le evasioni. Lo straniero nemico si confonde con il nemico interno, il “barbaro” con il rivoluzionario, entrambi minacce che la civiltà deve soffocare. La decisione di inasprire le pene (fino a 2 anni) e la proposta di consentire l’arresto di chi indossa il burqa, lo chador o il “casco protettivo” non vanno forse in tal senso? Chi scende in piazza deciso a non indietreggiare davanti alle eventuali cariche della polizia e lo Straniero senza volto si confondono in un’unica isteria securitaria, in un’unica dichiarazione di guerra.
È insensato – un’insensatezza che è follia, una follia che è crimine – sostenere che le bombe di Madrid e di Londra siano state una risposta ai massacri compiuti in Medio Oriente dalle truppe occidentali, mentre è sensato raccontare che chi vuole compiere un attentato se ne vada in giro con il burqa (tanto per non dare nell’occhio) o senza documenti (tanto per passare tranquillamente i controlli). È evidente a chiunque non abbia la stessa sensatezza di un capo di Stato o di un ministro degli interni, che non c’è protezione poliziesca possibile contro chi, gonfio d’odio e di disperazione, è disposto a compiere il gesto militare più semplice: colpire nel mucchio. Contro chi non teme di farsi saltare in aria – diventando così “martire”, cioè testimone – non c’è dispositivo o apparato che tenga. Tutte queste misure poliziesche servono solo a mostrare i muscoli e, soprattutto, a giustificare un maggiore controllo sociale e a reprimere qualsiasi pensiero o comportamento difforme: una società blindata non ammette critiche. La barbarie, tuttavia, non viene da un Altrove terrifico e incomprensibile, ma sgorga dalla più tecnologica delle civiltà. Non c’è riparo contro l’unico nemico che non vogliamo guardare in faccia: il nostro modo di vivere.
Che il dolore si trasformi in coscienza, che la coscienza diventi rifiuto ostinato di continuare così. Perché così si muore.
Non ci sono più illusioni.
Uomini di Stato, con il sorriso affilato e il vestito impeccabile, inviano soldati a bombardare, dall’alto dei loro aerei high tech, una popolazione intera, massacrando uomini, donne e bambini, provocando centinaia di migliaia di morti. Qualche giovane – gli esseri umani, questa variabile non prevista dagli staff dell’esercito e delle multinazionali – si fa esplodere per vendicare i propri cari o il futuro che non ha avuto. Al riparo dei loro gorilla e dei loro giornali, i nostri uomini di Stato spiegano a una platea di civilizzati impauriti che i kamikaze sono dei fanatici e dei vigliacchi. Proprio così: vigliacco non è chi gioca con la vita di milioni di persone standosene al sicuro, bensì chi è disposto a dare e a darsi la morte piuttosto che vivere (o sapere che altri vivono) tra il filo spinato e le macerie. Questa scena riassume da sola una delle più grossolane menzogne che i Ministeri della Propaganda e della Paura abbiano mai avuto la sfrontatezza di raccontare. Una menzogna che descrive assai bene, come uno spietato atto di accusa, lo sfacelo attuale delle coscienze, lo scarto spaventoso fra l’orrore che ci circonda e le conseguenze che sappiamo trarne.
Non ci sono più illusioni.
Per milioni di dannati della Terra, spinti fin sotto la soglia della sopravvivenza dai disastri della merce, il kamikaze è diventato una figura del riscatto. Ecco cos’è riuscito a fare questo mondo divorato dal cancro del dominio e del denaro.
Ma la violenza indiscriminata verso gli occidentali è anche il segno della sconfitta delle lotte per l’emancipazione sociale, il fallimento della solidarietà pratica tra gli sfruttati del pianeta contro i propri comuni sfruttatori. Alla possibilità della violenza rivoluzionaria – contro gli oppressori e mai contro gli oppressi – si sta sostituendo la violenza più cieca, la furia che non distingue fra governanti e governati, fra ministri e pendolari della metropolitana. Si tratta, a ben guardare, della più grottesca e terribile parodia delle lotte che, dall’Iran al Nicaragua, dall’Italia agli Stati Uniti passando per il Sudafrica, hanno scosso l’ordine della guerra e dello sfruttamento negli anni Settanta.
Le bombe di Londra non ci parlano solo di padroni orientali (sceicchi, speculatori finanziari, grossi proprietari) che muovono pedine sacrificali sullo scacchiere di una guerra per difendere il loro potere e il loro petrolio. Ci parlano anche e soprattutto di poveri che, isolati nella loro sete di riscatto, abbandonati dai loro fratelli d’Occidente, vedono in ogni bianco un imperialista. Di poveri che, alla ricerca di una redenzione che spesso ha ben poco di religioso, trovano nell’Islam combattente una comunità con cui identificarsi. Di poveri a cui si aggiungono – lo si è visto di recente – altri attentatori un po’ più benestanti, nati e cresciuti in Occidente, ma legati per religione e cultura a terre e genti martoriate dalla guerra. Solo esperienze di rivolta comune ridaranno alla parola fratellanza il suo senso più autentico. Esperienze che matureranno fra le stesse macerie da cui nascono i kamikaze, trasfigurando in una lotta radicalmente diversa quella disperata disposizione al conflitto. Lì ci attende la coscienza di un’umanità per tre quarti annegata. È tardi ormai per le lezioni di educazione civica.
Non ci sono più illusioni.
Le garanzie democratiche sono una foglia di fico squarciata.
La “guerra al terrorismo” è la forma più adeguata di uno scontro mondiale per la spartizione del potere e delle ultime risorse energetiche che mobilita e militarizza l’intera società. Il “terrorista” è ovunque, dentro come fuori dei confini: può essere l’immigrato, il dissidente oppure uno “Stato canaglia” con la “sua” popolazione. Il Nemico non ha una forma precisa proprio perché è il Male assoluto. Per questo la guerra è totale, e i mezzi quelli dell’annientamento. «L’annientamento diventa quindi del tutto astratto e assoluto. Non si rivolge più contro un nemico, ma è ormai al servizio solo di una presunta affermazione oggettiva dei valori più alti – per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto» (Carl Schmitt, Teoria del partigiano). Il collaboratore di ieri (Saddam Hussein, Bin Laden…) diventa il terrorista di oggi.
Questo è il contesto in cui si inseriscono le nuove misure repressive contro il “nemico interno”: un nemico senza documenti, senza volto, o con il casco protettivo.
Non ci sono più illusioni.
La democrazia rivela il suo reale funzionamento se osservata su scala planetaria. Si scoprirà allora una minoranza di “cittadini liberi” attorniati da una massa di schiavi costretti ai lavori forzati. L’antica città greca è oggi il mondo intero: solo che il cibo è inquinato, la polizia è ovunque e la libera piazza (l’agorà) da nessuna parte. In tal senso, la democrazia israeliana è sempre più un avamposto di quello che sta diventando la società in cui viviamo. Una società sotto assedio, con l’esercito all’entrata dei cinema e dei ristoranti. Una società che disumanizzando gli stranieri ha disumanizzato se stessa. Una società in preda alla psicosi degli attentati – contraccolpo dell’occupazione militare, dei rastrellamenti, delle deportazioni, dei massacri –, incapace di mettere in discussione il proprio modo di vivere. Una società in cui il decreto legge d’emergenza è il modo stesso di governare. Una società in cui la possibilità dell’annientamento totale dell’Altro viene discussa da eleganti presentatori televisivi. Una società in cui il riferimento alla distruzione nucleare è ormai una semplice metafora giornalistica.
Non ci sono più illusioni.
Qualche giorno fa, in un quartiere popolare di Torino, un ignoto cittadino ha sparato, dalla finestra del proprio appartamento, un colpo in testa a un ragazzo africano. La carabina era ad aria compressa, ma il ragazzo ha rischiato di morire. Una volta dimesso dall’ospedale, Alì è stato espulso. Nonostante non avesse droga, per la stampa era un “pusher”. La polizia ha rafforzato i controlli ai danni degli immigrati. Un comitato di cittadini ha cominciato una raccolta di firme per pretendere il pugno di ferro contro la microcriminalità. Neanche un’innocua, generica, democratica parola di condanna dello sparo. Gerusalemme si avvicina.
Non ci sono più illusioni.
Un uragano, ed è già guerra civile. Mentre New Orleans è sommersa dall’acqua e dal fango, con centinaia di morti e una popolazione che ha perso tutto, il governo sospende l’invio dei soccorsi, affidando subito dopo ai militari appena rientrati dall’Iraq la gestione dell’ordine pubblico: «Chi saccheggia i supermercati sarà giustiziato sul posto».
Non ci sono più illusioni.
Il ritiro delle truppe dall’Iraq e la chiusura dei lager per immigrati senza documenti sono il minimo indispensabile che le nostre lotte devono strappare. La solidarietà pratica contro la repressione è ormai, se vuole essere conseguente, una critica dei fondamenti stessi dello Stato e del capitale. Oggi non si può parlare di guerra senza parlare di espulsioni o di carcere, e viceversa. “Fomentare” rivolte ed evasioni dai CPT è un compito di cui la realtà si fa carico molto più generosamente dei rivoluzionari. Organizzare l’autodifesa contro la sbirraglia, imparare il coraggio, passare all’attacco, cambiare insieme la propria vita – ecco, al di là delle etichette, delle sigle, dei gruppi, della retorica, la sola fratellanza concreta, la più bella sfida scagliata contro quel «formicaio di uomini soli» che ancora chiamiamo società.
Mentre l’umanità si trascina tra il più vuoto “benessere” e la più cruda miseria, mentre i civilizzati annaspano tra cataclismi che hanno ben poco di naturale, rinchiusi nelle loro trappole di cemento armato, l’antico sogno di mettere tutto in comune, di liberare l’esperienza del mondo e dei propri simili dalla mediazione del potere e del denaro, diventa la sola promessa di felicità, la sola concreta speranza di redenzione.
alcuni nemici interni
settembre 2005