Da qualche tempo sembra che le attività boschive e di montagna, di outdoor dicono i loro partigiani, stiano subendo una sorta di boom. Tanta gente in montagna, tanta nei boschi, fioriscono corsi che vanno dall’alpinismo al trekking, dal campeggio al “survival” (pessimo termine da trasmissione tv…).
Contesualmente si sentono un sacco di discorsi sull’etica di andare per boschi e monti, su cosa è giusto e su cosa è sbagliato, sbucano fuori i depositari della verità (e questi figuri sono ovunque) e i new age in scarponi. A seguito di questa “riscoperta” del “selvaggio” però si sono create da un lato problematiche legate al sovraffollamento delle montagne e dei boschi, con tutto quello che comporta, dall’altro invece si sta sviluppando una pericolosa tendenza a trasformare il “selvaggio” e renderlo più fruibile e appetibile alle masse nomadiche che dalle città si spostano per periodi più o meno lunghi, fine settimana o ferie, a respirare “aria buona”.
Fioriscono quindi sempre più aree attrezzate che tendono a traslare l’ambiente cittadino -misurato e calcolato- in ambienti che magari invece avevano mantenuto -in misure diverse da luogo a luogo- le proprie caratteristiche immutate da tempo. Il “selvaggio” diviene quindi addomesticato e propaggine della città, che nei casi dei paesi di montagna vuol dire uno snaturamento del luogo a colpi di ristrutturazioni selvagge o nuove costruzioni al limite (e oltre) dell’ecomostro.
I plausi che si sentono da più parti riguardo al ripopolamento di alcune zone montane non sono altro che gridolini compiaciuti di chi riesce a mettersi in tasca qualche soldo (amministratori, proprietari e palazzinari in scarponi), ma la montagna continua a morire, così come la campagna in pianura.
Si perdono saperi e competenze, tradizioni locali, dialetti, il tutto sacrificato sull’altare della fruibilità e della rivendibilità. Ovviamente non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca, ci sono situazioni interessanti che tentano di recuparare un rapporto più diretto con l’ambiente che li circonda, ma la tendenza di massa (bestiaccia poco intelligente) è quello di ricercare e di allargare lo stile di vita cittadino alle campagne, alle montagne, ai boschi…
– Uno spunto di riflessione d’ordine organizzativo
Per chi decidesse di rompere con l’impianto metropolicentrico che la società impone sempre più e decidesse di spostarsi stabilmente in luoghi “depressi” come campagne o montagne i problemi non sarebbero certo pochi.
Se le case abbandonate si possono occupare, ed è auspicabile, e lo stesso si può fare con le terre da coltivare, uno dei nodi rimane come recuperare quella parte di risorse che non possiamo autoprodurre, si tratti del carburante per un eventuale mezzo (individuale o comune), una visita dentistica, l’acquisto (là dove non si possa fare altrimenti…) di scarpe o vestiti ecc…
Una soluzione per affrontare il rapporto che volenti o nolenti c’è con il capitale e con il mercato potrebbe essere quello di autorganizzarsi con dei solidali condividendo competenze e compiti, creando così una rete di microproduzione rigorosamente orizzontale ed autogestita nella quale investire parte del proprio tempo e le proprie competenze utilizzando lo scambio là dove fosse possibile e se l’ingresso nel mercato fosse in parte obbligato, dividendo i guadagni dell’eventuale vendita nei mercatini dei prodotti e dei manufatti fra tutti coloro che partecipano al gruppo.
Gruppi di riciclo e riutilizzo* che allunghino la vita dei prodotti, sia per uso proprio che eventualmente per scambio o vendita, gruppi di autoproduzione ecc…, che ovviamente non dovrebbero avere forma rigida ma interscambiarsi fra loro, così da socializzare competenze e manualità. Ovviamente quelli sopracitati non possono che essere spunti di riflessione, utili quantomeno al dibattito e non certamente esaustivi rispetto al problema complesso dell’organizzazione delle esistenze al di fuori dei circuiti della metropoli e commerciali.
– Devastazioni ambientali, fruitori indifferenti.
Come dicevamo sembra che il “selvaggio” sia entrato nel quotidiano di molti, toccando svariate sensibilità che in dibattiti pubblici, siti internet e forums si accapigliano su questioni etiche e di metodo su come si dovrebbe frequentare o meno l’ambiente naturale, voci su voci che fanno a chi grida più forte la propria dedizione ai boschi e le montagne, anatemi verso chi ha lasciato la carta sul sentiero -cosa effettivamente esecrabile- o verso chi ricava legna per il fuoco del bivacco, tutti dediti anima e corpo alla loro cara natura, tanto da non sentire mai questi novelli Thoureau spendere una parola verso le devastazioni ambientali che stanno strangolando veramente campagne, boschi e montagne.
Ascoltare interventi, o leggere pagine e pagine sui forums riguardo l’inciviltà di chi sporca una porzione di bosco, e non sentire una parola o leggere una riga ad esempio sullo scempio delle biomasse nel Pollino, delle Cave apuane o del treno ad alta velocità è allucinate, tanto più che parlarne significa attirarsi le antipatie di tanti, che nel migliore dei casi ti accusano di fanatismo, figurarci poi se si decidesse di fargli notare che tra un pezzo di scottex su un cespuglio (che personalmente mi fa decisamente arrabbiare) e migliaia di metricubi di cemento ce ne corre, come c’è un abisso fra due rami tagliati ed una centrale a biomasse che di alberi ne mangia qualcuno in più…Ovviamente questo tipo di atteggiamento non stupisce, e si ascrive in tutto e per tutto all’habitus di comportamenti che abbiamo visto più sopra riguardo al modo di vivere la montagna come estensione della città, e per città ora intendo non solo lo spazio fisico che la delimita, ma anche l’impianto ideologico che la sottende e le strutture mentali e cognitive che ne derivano.
L’ambito della difesa del territorio, per il “cittadino”, si ascrive comunque sempre all’alveo del privato e dell’opinione, e questo è palese se si confronta la mole di chi si lamenta di un sentiero sporco e di quanti poi effettivamente si occupano di andarlo a pulire, opinione che oltretutto si subordina a tutta una serie di situazioni che fanno sì che le chiacchiere o rimangano tali, o comunque non mettano mai in discussione l’impianto di fondo della questione.
Se è vero che il selvaggio viene piegato a propaggine cittadina, addomesticato, violentato, l’”amore” del “cittadino” non sarà altro che abitudine ad un “servizio”, che come tale può essere sostituito nel momento in cui non fosse più disponibile.
In quest’ottica ecco che la difesa del selvaggio diventa semplicemente una richiesta di servizio migliore, adeguato alle aspettative di chi ne fruisce, al pari di tanti altri che vanno e vengono, sotituiti magari da altre impellenze del momento.
A fianco a ciò dobbiamo poi situare l’abitudine a non mettere mai in discussione gli assunti del così detto “progresso”, convinti che ogni “innovazione” sia funzionale al miglioramento delle nostre condizioni di vita, il tutto aiutato dall’addomesticamento ad accettare sostanzialmente -e spesso senza rendersene conto- a testa bassa e come condizione naturale l’imposizione di chi “comanda”.
La difesa d’opinione del selvaggio è quindi cosa privata, almeno finché il “pubblico” non allunga la sua mano su di esso.
C’è poi chi non accetta passivamente (per vari motivi, non ultimo l’iteresse economico individuale) le scelte del potere ma, comunque non mettendo in discussione la struttura generale del dominio, decide di lottare entrando in dialettica con i poteri gestionari, quindi mettendo in campo tutto ciò che è “legalmente” possibile per fermare -ad esempio- la costruzione di un impianto X…con il risultato, nella stragrande maggioranza dei casi, di spendere anni e danari in una vertenza infinita che non porta altro che frustrazione ed un bel nuovo impianto.
– Individui resistenti, l’importanza di una difesa che è anche attacco.
Fortunatamente esistono anche individui che, svincolati dalle maglie dell’acquiescenza, si ribellano all’ineluttabilità presunta delle scelte del dominio e si oppongono alle devastazioni in maniera diretta e senza mediazioni, che non ci possono essere là dove la posta in gioco è la distruzione del mondo che ci circonda, si tratti di un bosco, di una montagna o quant’altro. Rifiutandosi di sottostare alle imposizioni del capitale chi si oppone alle devastazioni in una certa misura gioca anche d’attacco, dimostrando che combattere è possibile, che il famoso granello di sabbia può davvero inceppare la macchina e che, se una cosa la si ritiene importante, la si persegue fino in fondo.
La repressione del dissenso a difesa degli interessi del dominio in questi casi è ovviamente forte, e nel momento in cui scrivo non posso che pensare a Remi, il combattente francese ammazzato dai birri del governo transalpino mentre si opponeva alla costruzione di una mega diga a Testet, che dovrebbe servire per alimentare le colture di mais OGM, ma la repressione militare non è l’unica che chi non si piega allo scempio deve affrontare.
Oltre al diniego sociale che si crea intorno ai “violenti” che proteggono gli alberi c’è anche molto spesso l’ostilità aperta degli ambientalisti da salotto che in quelle strenue difese vedono da una parte le loro chiacchiere rese sterili e sorpassate, mostrate in tutta la loro superficiale inutilità dalle azioni concrete di resistenza (parafrasando una vecchia canzone, la verità fa male…), dall’altra, essendo come scritto poco sopra, solo utenti del dominio, vedono messi in discussione buona parte degli assunti su cui fondano le proprie certezze, certezze di schiavo è vero, ma pur sempre certezze e quindi da difendere.
La tragicità della battaglia, l’impossibilità di mediazione fra le due parti in causa, fa si che i combattenti della terra siano irrimediabilmente soli con i loro affini se non in rari casi nei quali le loro strade e le loro azioni si incontrano ed instaurano una dialettica con altre realtà che in quel momento decidono più o meno strumentalmente di abbracciare un certo tipo di pratiche.
Ma la difesa radicale del selvaggio non corre solo il rischio di essere schiacciata dalla repressione militare, in certi casi corre anche quello più subdolo di essere riassorbita nelle logiche concertative di potere e questo nel momento in cui il suo agire si autovincola a quello di altri attori che magari condividono con loro il palco ma che hanno sostanzialmente obiettivi diversi ma non solo: La perdita di autonomia, e quindi di radicalità, è un pericolo che si annida anche dietro concetti come il mito quantitativo della lotta, ovvero la mitizzazione della massa come attore rivoltoso/rivoluzionario.
Dove la battaglia per la terra diventa ricerca del consenso la rivolta contro la devastazione diventa politica, e la politica non è che concertazione e compromesso, concetti che dovrebbero bruciare assieme ai macchinari con i quali si vuole devastare la terra, non uscire dalla porta e rientrare dal finestrino dell’isteria da partecipazione.
Non si vuole certo relegare ad una solitudine cosmica chi lotta per la terra, ma non si vuole nemmeno che questioni tanto importanti vengano se non sostanzialmente sacrificate, nemmeno annacquate da concetti borghesi come massa e maggioranza, oltretutto -se proprio vogliamo ragionare in questi termini- non possiamo sapere, ed è un’evidenza di fatto, se una ruspa che brucia abbia un impatto minore sulla lotta “popolare” di una marcia di 60000 persone che si svolge mentre gli alberi cadono…In quest’ottica la cosa migliore sarebbe quindi continuare dritti sulla strada della difesa diretta del selvaggio, non disdegnando magari di ragionare con altri sulle basi dell’affinità, il che è decisamente più dinamico ed interessante di discorsi volti a creare i movimenti dalle “mille anime”, nei quali a dover venire meno alle proprie sensibilità ed a ingoiare frustrazione sono generalmente proprio coloro che dalle barricate intravedono un mondo radicalmente nuovo.
M.
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*il capitale ha capito le potenzialità di queste pratiche, tanto che le stesse multinazionali recuperano i propri prodotti “da buttare” per poi riaggiustarli, il termine usato è “ricondizionarli”, e rivenderli a prezzi “d’occasione”