Segue la traduzione di uno scritto di Nicole Vosper, ex prigioniera SHAC:
REPRESSIONE DI STATO: AUTOREPRESSIONE
di Nicole Vosper
Riflessioni sull’inatteso impatto emotivo del carcere e della repressione
dopo una condanna di 3 anni e mezzo
E’ stato solo 5 mesi dopo essere stata libera da tutte le restrizioni che mi sono concessa di sentire il danno che il sistema carcerario mi aveva fatto. La mia empatia era sempre presente per i/le mie/i amici/he e complici con cui avevo condiviso celle e sezioni. La mia solidarietà con tutti gli individui imprigionati, umani e non-umani, era chiarissima e la portavo in ogni cellula del mio corpo.
Ma cosa dire di me stessa? Non pensavo che la repressione avesse avuto un grande effetto, almeno per quanto riguarda ciò che lo Stato desiderava. Le mie idee politiche ne erano uscite rafforzate, mi sentivo ancora più risoluta e non avevo alcuna paura nell’organizzare azioni, incontri e discussioni radicali senza timore delle conseguenze o di finire dentro di nuovo.
Mi sono rapportata con distacco agli ultimi 5 anni e 5 mesi di libertà condizionale, prigione e restrizioni. La sua logica razionale aveva perfettamente senso – lo Stato voleva mantenere me, i/le mie/i coimputati/e impossibilitati/e ad agire il più a lungo possibile, e utilizzava una miscela sapiente di restrizioni repressive (il divieto di partecipare a campagne animaliste o di avere a che fare con attivistx), ritardi intenzionali nel fissare le udienze, controllo all’interno del sistema carcerario sui miei rapporti con i/le mie/i coimputati/e, e il regime repressivo generale, seguito da 21 mesi di misure restrittive che mi hanno mantenuto davvero isolata dal movimento in cui ero cresciuta, e in pratica controllata attraverso la paura di essere rimessa in carcere. I cinque anni di ASBO [1] sono stati la ciliegina sulla torta per assicurarsi che non potessi tornare a prendere parte a SHAC o ad altre campagne antivivisezioniste in tempi brevi.
In questo articolo però non voglio focalizzarmi su queste connotazioni politiche, voglio parlare degli effetti emotivi di tutto questo, qualcosa di cui raramente si parla nei contesti pieni di machismo e baldanza delle lotte sociali.
Autocensura
Una delle cose principali di cui mi sono resa conto quando sono terminate le restrizioni era quanto avevo censurato me stessa nel corso di questa esperienza, nel senso di come ero riuscita a gestire perfettamente cosa rivelavo a chi, perchè e quando. Ai nonni raccontavo che la prigione era stata “un periodo perfetto per concentrarmi sugli studi”, in questo modo calmavo le loro ansie e preoccupazioni sull’impatto che il carcere poteva avere avuto su di me. Per i/le compagne/i era “l’isola di Lesbos piena di donne queer singles con cui farsi una risata”. Al movimento di liberazione animale dicevo che era qualcosa che ero riuscita a sopportare con grande facilità, così che altrx non avessero paura di intraprendere l’azione diretta per la liberazione animale. Al giudice di sorveglianza dicevo il minimo necessario per superare l’incombenza.
Per le persone che mi erano veramente vicine, che mi conoscevano sia dentro che fuori e mi avevano supportato mentre ero in carcere, la mia risposta era principalmente il silenzio, forse solo una strana piega espressiva verso il basso nel contesto di una faccia impassibile. Ad ogni visita in carcere mi sentivo come se avessi un rospo in gola che mi impediva di esprimere cosa succedeva dentro di me. E così attraverso la violenza dello Stato, effettivamente ci si chiude dentro di sé e si blocca l’espressione della propria rabbia, paura, dolore, disperazione o di qualuque cosa si senta in quel momento.
Una strana dinamica di potere si instaura tra te e le persone che ti stanno supportando. Vista la separazione fisica, hai la capacità di far loro sapere poco o tanto, a tuo piacimento, di come ti senti. Puoi scegliere di chiamarle solo nei giorni in cui stai bene, puoi scegliere cosa scrivere, puoi scegliere di morderti la lingua durante le visite, e per fortuna sei brava a nascondere come ti senti ad ogni singola persona che incontri. Non avrei mai voluto che i secondini avessero ancora più potere su di me di quanto già ne avevano, per l’intera durata della detenzione mi sono promessa che non mi avrebbero mai vista piangere o avere ripercussioni emotive come risultato delle loro azioni. Questo ha senso per quanto riguarda la tua sopravvivenza quando sei dentro, ma quando sei fuori? Che effetti continuano ad avere su di te questi schemi di autocensura?
Cestinare la fiducia e rigettare l’amore: la repressione nelle relazioni
E’ già abbastanza difficile avere relazioni sane nella nostra cultura insana, e sicuramente la morsa dell’autorepressione viene stretta ancora di più dall’azione dello Stato.
Un’intera miriade di paure, domande e preoccupazioni comincia ad influenzare le relazioni, per esempio non volersi impegnare in relazioni serie a lungo termine per paura di poter tornare in prigione, che il tuo/la tua compagnx ti lasci prima/durante il carcere, ti tradisca mentre sei dentro (anche se sei in una relazione poliamorosa, non c’è esattamente un giusto equilibrio di potere). Paura che forniscano informazioni su di te alla polizia. Paura che rimangano feriti/e dall’esperienza, che non riescano a farci i conti, che trovino traumatizzanti le perquisizioni, che si sentano depressi/e o mettano in atto comportamenti autolesionisti per gestire lo stress ecc.
O lo scenario del/la tua/o partner che va in carcere e la tua paura di non essere in grado di starle/gli accanto nel lungo termine, di deludere quella persona, o che unx di voi due potrebbe cambiare e che vi separerete. Che si faccia del male in carcere/abbia brutte esperienze e ti prendi la colpa a seconda delle tue esperienze di gestione delle relazioni di potere. Che ti tradisca in carcere. Che ti respinga perchè non vuole che tu debba affrontare l’esperienza di supportarlo/a. Che il tuo continuare ad essere attiva politicamente possa influire sulla sua libertà, per es. sulla possibilità di uscire in libertà condizionale, con restrizioni che limiteranno entrambi, la sua accresciuta paura della repressione.
Quello che voglio dire è che una volta che la prigione diventa parte della nostra vita, cominciamo ad applicare alle relazioni tutta una nuova serie di filtri basati sulla paura, e ancora una volta lo Stato sta riuscendo nel tentativo di isolarci socialmente e indebolirci.
Cercare di spiegare la realtà delle restrizioni, in cui ti è vietato obiettivamente di vedere il 99% delle persone che ami, è davvero difficile. Solo ora sto lentamente elaborando questa esperienza. So di non essere l’unica a cui è impedito vedere la persona di cui era innamorata. Come ero solita dire in prigione, possono metterti su un’isola tropicale, con tutti i tuoi cd e il tuo cibo preferiti, ma se non puoi amare le persone che ami come potresti mai sentirti libera? Ci si sente come se lo Stato avesse rubato quella relazione, e senza dubbio questo giocherà un ruolo nelle relazioni future.
Queste paure non riguardano solo le relazioni intime, ovviamente anche la tua fiducia nelle persone o nei gruppi con cui collaboravi può cambiare. Potresti tornare in un movimento 5 anni dopo e scoprire che la maggior parte delle persone coinvolte, delle campagne e delle strategie sono cambiate. E’ come una strana deformazione temporale in cui ci si sente come se tutto e niente fosse cambiato.
Spogliarsi della propria identità e reprimere il proprio senso di sé
Lo Stato sa che c’è potere nella solidarietà, nella complicità tra compagnx, in una cultura condivisa di resistenza. La prigione cerca sistematicamente di spogliarti di questo. Questo può voler dire censurare le pubblicazioni, l’accesso ai libri e al materiale dal contenuto radicale. In totale mi è stato concesso di ricevere solo otto cd, perchè mi hanno detto che la mia musica è troppo politica. Le recenti restrizioni che mi vietavano di comunicare con chiunque si occupasse di animali sono un chiaro tentativo di isolare socialmente una persona e di allontanarla dalla sua comunità, uno strumento che lo Stato usa da tempo immemore.
Senza solidarietà, vincerebbero.
Ecco perchè il lavoro di supporto ai/le prigionierx è così importante.
Negli ambienti anarchici o comunisti, almeno per quella che è la mia esperienza, la tua identità comincia a essere messa in relazione con quello che fai, più che con quello che sei in tutta la tua caotica imperfezione. Il tuo senso di autostima poggia pesantemente su quello che riesci a portare a termine, che siano una pubblicazione o una liberazione. Per cui quando finisci in carcere, devi passare attraverso un’esperienza di autoconferma completamente nuova. Non puoi essere attiva/o come prima. La maggior parte di noi finirà per organizzare o creare agitazione in carcere in un modo o nell’altro, ma i tuoi livelli di attività sono molto inferiori rispetto a fuori, e una parte maggiore della tua vita è dedicata a sopravvivere e non farti schiacciare dal regime carcerario.
Gli effetti emozionali dell’“assenza”
Quando si è in libertà condizionale o sotto restrizioni, si ha la sensazione di essere praticamente scomparsi/e. A meno che tu non veda le persone clandestinamente, che in sé è qualcosa di già abbastanza stressante, non vieni presa/o in considerazione. Il movimento va avanti per la sua strada e le persone impegnate tornano sempre più ai loro impegni. Si è lasciati a navigare nelle acque torbide della vita pre-carcere e post-carcere, sei tutt’altro che visibile fino a che non entri a far parte di una lista prigionieri e allora improvvisamente le persone pensano valga la pena dedicarti del tempo.
Una volta che sei fuori, e potenzialmente libera/o da restrizioni e in grado di poter parlare delle tue esperienze, ti senti posto/a di fronte a un ambiente che intimidisce e a un labirinto di confusione su cosa rivelare di te. Quando incontri persone nuove puoi ritrovarti a chiederti: sanno chi sono? Cosa pensano della campagna (o azione ecc.) in cui ero coinvolta/o? Hanno letto le mie lettere sui bollettini di supporto ai/le prigionierx? Questo può essere problematico in entrambi i sensi, cioè sia che non siano d’accordo con le tue azioni/siano a disagio/intimiditi da te… o che pensino che è davvero “figo” che sei stata dentro e ti considerano una specie di status symbol/eroe che è figo conoscere. Entrambe le situazioni sono pessime a livello personale quando tutto quello che vorresti è essere accettata/o per quello che sei.
Non vuoi parlare del carcere perché non vuoi che chiunque sappia la storia della tua vita, ma nemmeno vuoi buttare lì la cosa così come se fosse una specie di distintivo anarchico. Allo stesso tempo è difficile sapere di cosa parlare in alternativa. Quando ero appena uscita, avevo trascorso quasi due anni della mia vita in quel posto, ed erano lì le persone che avevo conosciuto e tutte le storie divertenti che potevo raccontare. Quella è la mia storia e non voglio dimenticarla o fingere che non sia accaduto. Mi sono trovata a parlare di concerti hardcore a cui ero stata 4 anni prima perché ero da così tanto tempo fuori dalla scena, o di band che si erano sciolte mentre ero in carcere e io, in maniera imbarazzante, nemmeno lo sapevo. Quindi è quello strano periodo della tua vita di cui ti chiedi se ne stai parlando troppo o troppo poco.
Le persone si fanno scrupoli a fare domande, quindi cominci a vivere una specie di dissociazione da quanto è successo, si crea un blocco. Se condividi un aneddoto sul carcere, si innesca subito la domanda sul tuo passato, e invece di dare un valore alla tua vita/storia, hai paura di diventare unx di quegli/lle “attivistx” che vivono della reputazione del loro tempo trascorso in carcere. Per quanto riguarda le cose veramente pesanti che hai vissuto o che hai visto, non hai il desiderio di passare ad altrx questo fardello di dolore, per paura di essere dipinta come una persona ‘pesante’.
Tutto questo diventa emotivamente abbastanza stressante nel momento in cui decifri continuamente cosa rivelare e cosa invece reprimere o lasciar perdere.
Resistere alla repressione
Se finisci in carcere, o supporti qualcunx che ci è finito, senza dubbi uscirai influenzatx e cambiatx da questa esperienza.
Il mio suggerimento per chi esce dal carcere e si trova a fronte a una o più paure, sfide e schemi di autorepressione tra quelli che ho descritto, è di trovare un qualche tipo di spazio sicuro in cui parlare dei tuoi sentimenti, che sia un aiuto professionale o un amico/a strettx di cui ti puoi davvero fidare. Cerca di creare uno spazio in cui non sminuirai quello che hai visto e provato, in cui non sarai messx in ombra dal machismo o dagli stereotipi degli ambienti politici, e in cui non sarai giudicatx dagli/le amici/he o dai/le partners attuali o ex, nel momento in cui stai cercando di elaborare le cose.
La cosa ironica dell’autorepressione attraverso la repressione di Stato, della paura accresciuta delle relazioni e dell’intimità è che se c’è qualcosa che si impara in carcere è che abbiamo bisogno degli/le altrx. Abbiamo bisogno di amore, di amicizia, di intimità, di piacere e di affetto più di quanto possiamo immaginare. A livello di movimento significa che abbiamo bisogno di aiuto reciproco, cioè reti di solidarietà, creare relazioni… rifiuto che il sistema carcerario e il suo rapporto con la repressione di Stato incatenino oltre il mio cuore.
Più passano i mesi da quando ho varcato quei cancelli di uscita, più so di stare reimparando il gusto della libertà. Il gusto dell’amore, la gioia di incontrare qualcunx di cui sai di stare per innamorarti follemente. Ho ancora paura? E’ ovvio. Ho paura che mi abbandoneranno il giorno in cui Babilonia mi avrà tra le sue grinfie un’altra volta? Certamente. Ma sentire la paura e conoscere i rischi e agire lo stesso è ciò che per me significa lotta rivoluzionaria.
Quello che immagino di voler dire con ciò è: continuate a esprimere voi stessx, continuate ad amare se vi fate male, sì, farà male, e sì, in prigione farà male mille volte di più, ma il solo modo di rimarginare le ferite è attraverso le relazioni – con voi stessx, con i/le vostrx amici/he, con le persone – nuove e vecchie – che amate. Perché nel momento in cui smetti di sentire, smetti di amare e cominci a disumanizzare te stessx e gli/le altrx, allora hanno davvero vinto. Questa non è solo una guerra per i nostri obiettivi politici, è anche una guerra per i nostri cuori, e l’unica cosa che mi sento di dire è: continuiamo a farli battere.
NOTE:
[1] ASBO: Anti-Social Behaviour Order. Si tratta di una misura predisposta dal governo inglese che comporta diverse restrizioni come il divieto di frequentare alcuni posti o tipi di persone (per es. pregiudicate o collegate a una certa area politica).
Articolo tratto da “On the Out – Zine about life after prison”
prodotta da ABC Bristol: http://bristolabc.wordpress.com/
Repressione di Stato: autorepressione [scritto di Nicole Vosper]