«Della misura che misurate
vi sarà misurato»
San Marco. Evan. 4.25
Giorgio Plechanov è il capo riconosciuto del partito social-democratico russo. Non è un’aquila, non è neanche un combattente della larga schiera, che alla
rivoluzione russa ha dischiuso, attraverso le ribellioni sanguinose e feconde, le vie dell’avvenire e le aurore della libertà.
Anzi! è stato suo orgoglio fino ieri l’avere coll’opera sua, colle sue persecuzioni bestiali, suffragate dal provvido concorso della polizia moscovita, sbarazzato il terreno dai violenti che turbano il pacifico divenire in Russia del partito social-democratico.
Della sua opera intellettuale, tolto qualche velenoso articolo schizzato qua e là su
pei giornali borghesi, non ci rimane che l’opuscolo famoso Anarchismo e Socialismo che la Critica Sociale di Filippo Turati si è affrettata a tradurre ed a diffondere una dozzina di anni fa, ed i compagni conoscono certamente, ed è — diciamolo subito senza riguardi senza eufemismi — un documento turpe di bestialità settaria, e della più sciagurata miseria intellettuale e morale.
Per cotesto analfabeta a cui l’essenza e gli aspetti della dottrina libertaria — nella
quale si integrano il voto dei pensatori e dei filosofi, il voto e le aspirazioni del proletariato internazionale nell’ultima metà del secolo decimonono — dimorano impenetrabile mistero: Fourier e Saint Simon, Owen e Proudhon, Bakunin, Reclus, Kropotkin sono metafisici, utopisti, aberrati, pazzi degni della più profonda pietà; Louise Michel, Henry, Vaillant, Ravachol e Most, banditi e canaglie degnissime della galera e della forca.
Dell’opera dei primi — che la sua mente ottusa e la sua anima abietta non sanno né penetrare né comprendere — Plechanov, sociologo da taverna, si sbarazza con una piroetta sofistica o con una freddura da lupanare; sull’olocausto dei secondi, cotesto poltrone che segue dai pingui ozi salariati e dalle fiorenti e sicure spiagge del Lemano la lotta disperata dei compagni russi, scaraventa un ciclone di bava.
Noi non sappiamo e non crediamo che dalle torbide fucine del Sant’Uffizio o dalle
sentine della polizia internazionale sia mai uscito tanfo più infetto di abiezione, di
vituperio e d’infamia.
Lasciando da parte per oggi — che non torna all’assunto di queste brevi note — il
sarcasmo idiota onde cotesto Aristarco ingiberna investe le dottrine libertarie, e limitandoci alle scomuniche irose ond’egli vitupera l’azione rivoluzionaria, noi confidiamo di persuadere i nostri lettori, in qualunque campo essi militino, che non è nelle nostre parole fremito di passione settaria né ombra di esagerazione:
«Ogniqualvolta il proletariato fa uno sforzo per migliorare in qualche modo le sue
condizioni economiche, ecco sbucare da ogni parte “uomini di cuore” che pretendono amarlo tenerissimamente e che, fondandosi sui loro zoppi sillogismi, tentano sviarlo dal suo movimento e fanno tutto il possibile per persuaderlo che tale movimento è inutile. Se il proletariato non se ne cura… gli stessi “uomini di cuore” ricompaiono, muniti di bombe e porgono al governo la desiderata e ricercata occasione di piombargli addosso» (1).
Ancora:
«Un anarchico non vuole parlamentarismo perché questo non fa che addormentare il proletariato; non vuole riforme perché le riforme significano compromessi colle classi possidenti. Egli vuole la rivoluzione, immediata ed immediatamente economica. E per riuscirvi si munisce di un vaso ripieno di sostanze esplosive e lo lancia sul pubblico in un caffè od in un teatro. Egli pretende
che questo è un pezzetto di rivoluzione e noi, ahimé, non sappiamo vedervi che un
immediato delirio furioso» (2).
Ancora:
«Non occorre dire che i governi borghesi… non possono che compiacersi di una
simile tattica… Così anche la stampa conservatrice e reazionaria non dissimula una tal quale simpatia per gli anarchici» (3).
«Orbene a che riescono poi con questa loro paura parlamentare? All’apologia del
furto, alle prodezze dei Duval e dei Ravachol che in nome della causa non rifuggono dai delitti più comuni e più ripugnati… È questa… oggi la condizione degli
uomini imparziali di fronte agli anarchici: come indovinare dove cessa il “compagno” e comincia il “bandito”?» (4).
«… quando il primo energumeno catato può accoppare quanti uomini vuole solo
perché ciò gli piace, ben può a miglior titolo una società formata da un immenso
numero di individui ricondurlo alla ragione, dacché essa non lo fa per capriccio, ma per dovere, essendo condizione sine qua non della sua esistenza» (5).
Abbiamo esagerato?
Se non che la logica settaria ha pure le sue insidie.
Celebrando nei primi del Settembre scorso il suo giubileo, Leone Tolstoi indirizzava al Courrier Européen(Anno IV, n. 38, 20 Settembre 1907) un suo articolo: «Tu non ucciderai!» in cui, coerente sempre alle sue dottrine di «non resistenza al male» l’evangelista di Yasnaja Poliana riafferma che «ogni soppressione dell’uomo per la mano dell’uomo è criminale… L’assassinio dei re, degli imperatori, dei governanti ad opera dei rivoluzionari è stupido poiché la vita
dei governi non può esserne modificata, e le ragioni di tali assassinii non sono affatto solide se uccidendo i governanti per gli atti di violenza che essi commettono, gli uomini dimenticano che errano essi stessi poiché spingono i governi a fare ciò che essi appunto ai governanti rimproverano».
E dopo aver rilevato che, in Russia, «rivoluzionari e governanti non cessano da due
anni di assassinarsi vicendevolmente»; dopo aver pagato ai governanti il loro debito, se la piglia coi rivoluzionari notando che anch’essi in nome di un sedicente benessere della società non si guidano, in fondo, che sui loro istinti egoisti per non dire bestiali.
Tolstoi è logico, non ha mai predicato altro da trent’anni in qua. Si può trovar ridicola o furba (e noi siamo, francamente, per la seconda ipotesi) la sua dottrina, ma questa ammessa, è d’uopo riconoscere che la predicazione tolstoiana è rigidamente coerente alle sue premesse teoriche.
Ma Plechanov monta sulle furie, e sullo stesso Courrier Européen (Anno V, n. 1, 25 Dicembre 1907) deplora anzitutto che i giornali liberali abbiano pubblicato senza riserve l’articolo del Tolstoi, e cotesta indulgenza battezza «infrollimento della coscienza sociale»; deplora poi acerbamente i giudizi del Tolstoi che «tutto il movimento liberatore, tutta la rivoluzione russa — questa lotta dolorosa e fatale per la libertà — tratta come una risultante di istinti egoistici, pressoché bestiali». E rilevando, mortificato, che neppure i più accaniti nemici delle consorterie moderate hanno mai pronunciato una più feroce sentenza sul movimento emancipatore della giovane Russia che anzi in quel campo, pur condannando gli atti, si riconobbe «la purezza dei motivi che quegli atti fomentarono», conchiude che Tolstoi, assolutamente incapace a comprendere i problemi storici del suo tempo, è un malato, e che i suoi giudizi tradiscono l’incurabile malattia che di lui si è impossessata.
No, no, Cagliostro! Della misura con cui agli altri hai misurato, misurano ora te,
come avvertiva il vangelo di Marco.
Quando sotto lo scroscio della reazione feroce, braccheggiati dalla poliziottaglia cosmopolita, Bakunin, Reclus e Kropotkin gittavano ai satrapi ed ai vampiri dello Stato e della proprietà la loro sfida audace, gittavano alle plebi sonnolenti il loro vaticinio di redenzione, e mentre pur dal campo dei più acerbi nemici alla generosità di quel sogno si compativa, tu eri orgoglioso dell’appoggio della polizia che ai tuoi calcoli sordidi di filibustiere sbarazzava il terreno, spianava la via. Quando Louise Michel insegnava dall’Esplanade des Invalides ai cenciosi che il pane negato dal lavoro si aveva il diritto di prenderlo al banco del primo fornaio in nome dell’insopprimibile diritto alla vita; quando Ravachol ai giudici, esecutori salariati delle basse opere di vendetta delle oligarchie imperanti, ammoniva che v’è una giustizia che va oltre tutti gli ergastoli e tutti i rispetti umani, quella del popolo; quando Emile Henry ricordava ai parassiti travolti nell’orgia che romba sul loro capo la collera degli espropriati macilenti; quando Vaillant nel Parlamento, ultima frode ed ultima menzogna, denunciò il simbolo della tirannide di classe, tu diffidasti gli onesti «a chiedersi dove finisse il compagno dove cominciasse il bandito»; tu rivendicasti alla società più che il diritto, il dovere di ricondurre coi ceppi e colla mannaia gli sviati alla ragione.
Di che ti lagni?
Della misura che agli altri misurasti ora misurano te, e da te; dalla tua dottrina, dalla tua morale, dalla tua logica oggi Leone Tolstoi si sente autorizzato a bandire
che Sofia Perovskaja e Rissakoff, Vera Zasulich e Kaliayev, Maria Spiridonova e Fruma Frumkina sono banditi, scellerati degenerati degni della deportazione e della nagaika, della tortura e della forca.
Soltanto la tua dottrina, la tua morale, la tua logica, avvincono indissolubilmente collo stesso laccio alla stessa gogna, alla stessa esecrazione, Kruchevan l’ispiratore dei «veri russi», il famulo immondo del Piccolo Padre, e Giorgio Plechanov, il capo consacrato del partito socialista russo.
Son più che le insidie, sono le rivincite della logica.
1) Plechanov: Anarchismo e Socialismo, p. 87.
2) Ibidem, pag. 88.
3) Ibidem, pag. 88.
4) Ibidem, pag. 90.
5) Ibidem, pag. 93.
[Cronaca Sovversiva, anno VI, n. 5, 1/2/1908]