Aids – La malattia come espressione delle fasi della civiltà

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di Riccardo d’Este

Le malattie sono evidentemente legate alle fasi di evoluzione (e talora di involuzione) della specie femino­umana, alle condizioni lavorative e sociali, alle questioni igieniche ed ambientali, ai rapporti sessuali tra gli individui, alle culture di un’epoca e così via; ed alla medicina, alle successive “scoperte” tecniche e scientifiche, alle forme di prevenzione e di cura delle principali malattie delle epoche precedenti. Con una piccola annotazione: le malattie che sembravano “sconfitte” dalla scienza medica e farmacologica a volte ritornano (si pensi alla tubercolosi che si considerava pressoché scomparsa e che ora sta riapparendo nel suo sinistro fulgore in ampi strati della popolazione planetaria).

Ciò detto, in guisa di premessa minima e in qualche misura apodittica, perché mi sembra di palmare evidenza (o si pretendono dimostrazioni del tipo: la silicosi ha colpito e colpisce un certo tipo di lavoratori e non altri, la brucellosi giunge a chi ha determinati rapporti stretti con gli animali, la sifilide si è sviluppata soprattutto in condizioni di scarsa igiene, e d’incremento della promiscuità sessuale, ecc.?), l’AIDS è la “malattia” per eccellenza di questa fine di millennio e, forse, di una certa fase della civiltà. Metto tra vir­golette il termine malattia perché l’AIDS non può essere considerata in senso stretto una malattia (a questo riguardo cfr. La Mal’aria, AIDS e società capitalistica neomoderna, Milano 1992 e, ivi, il mio scritto, L’AIDS come equivalente generale delle pesti neomodeme ed accumulazione forzata di medicina). Sebbene, con una pratica e una cultura che si possono definire riduttive e forse anche terroristiche, i media dicano o scrivano che il tale o il tal’altro sono morti di AIDS, ciò è palesemente falso. Non si muore di AIDS ma a causa delle malattie, definite opportuniste, che insorgono favorite dalla deficienza immunitaria. Pertanto noi abbiamo sempre sostenuto che l’AIDS non è propriamente una malattia, ma che è la deficienza immunitaria, che in questo caso viene definita come acquisita, ma che in teoria potrebbe essere anche congenita, a favorire varie malattie sino, specie con il loro moltiplicarsi, ad esiti letali. 

Molti ormai mettono in discussione il fatto che l’HIV sia effettivamente un virus e dunque lo chiamano retrovirus, concetto assai più sfumato ed impalpabile. Altri ne negano addirittura l’esistenza.

Il fatto è che la semplificazione schematica che fa prevalentemente risalire ad un qualche virus la causa di affezioni e morbi, semplificazione che da Koch in poi ha riscontrato particolare successo, ormai lascia molti perlomeno perplessi. Evidentemente la possibile causa virale di tutti i morbi risolverebbe molte questioni teoriche ed ancor più pratiche. Isolato un virus, quale che sia la patologia da affrontare, il problema si “ridurrebbe” a come combatterlo, ed ovviamente la medicina, unita alla chimica ed alla farmacologia, potrebbe operare quei “miracoli” di cui si vanta (cure pronte ed adeguate, vaccini preventivi, in­terventi contro il virus post-factum ecc.). Nel delirio scientistico (e capitalista) il virus può avere una funzione decisiva: la reductio ad unum. Avvistata ed individuata la causa, unica o almeno prevalente, del male, il problema rimane solo quello di come estirparla, e naturalmente a ciò deputata sarebbe la Scienza, mentre la società sarebbe assolta ab origine.

Palesemente, tutto ciò è falso ed appartiene a ciò che noi definiamo come l’Utopia del Capitale; sostituire gli uomini con dei burattini, costruire sempre più protesi, rendere gli individui pressoché interscambiabili, porre la funzione come determinante la vita, creare una realtà associativa (la società) continuamente auto­riproducentesi e autogiustificata. Le ipotesi virali, che per altro talora non sono prive di fondamento, comunque sono segnate da questo surplus ideologico, dalla volontà più o meno consapevole di semplificare, e dunque di occultare, problemi assai più complessi.

Le pandemie, e l’AIDS lo è in massimo grado, impongono immediatamente delle questioni sociali che vanno affrontate. E’ pur vero che, ad esempio, la massiccia diffusione del cancro (e quindi la ricerca delle sue cause: ambientali, alimentari, igieniche ecc.) ha posto delle domande di natura squisitamente sociale, ma è altresì vero che il suo carattere prettamente individuale ha potuto celarne, o almeno attenuarne quello sociale.


(Va da sé che ogni affezione o malattia, per non parlare della morte, riveste un carattere comunque individuale, ma la linea di discrimine, se così si può dire, abitualmente si attesta sul concetto di infe­zione e di contagio. Non c’è chi non veda che, ad esempio, gran parte delle fratture ossee derivano da condizioni sociali storicamente determinate – il traffico, in specie automobilistico, il tipo di strutture abitative, certe pratiche ricreative e sportive ecc. – ma il riferimento alla condizione e situazione sociale non sempre viene colto immediatamente.
Nei confronti di un fenomeno di contagio, in specie se massificato, il carattere sociale del morbo si evince senza difficoltà, anche se spesso in maniera confusa o addirittura misterica. In questo senso l’AIDS ha imposto sin dall’inizio della sua rilevazione la sua natura sociale. Ciò non significa, beninteso, che siano state chiarite sufficientemente le sue origini e cause, né che si siano evitate interpretazioni prettamente morali o moralistiche fuorvianti. Ma quel che mi interessa qui è notare che, nonostante le falsificazioni o l’occultamento della cosiddetta scienza medica, nessuno ha potuto negare il contenuto sociale di questa pandemia.)

Allora, essendo un fenomeno di rilevanza sociale, la prima domanda è stata: quali ne sono le cause? Risposte chiare non sono state offerte e, tutto sommato, sarebbe stato difficile offrirle. Ma subito si è af­facciata l’ipotesi virale (l’HIV), che è evidentemente è la più comoda ed esaustiva. Per virus normalmente si intende un agente infettivo patogeno di dimensioni submicroscopiche. La definizione di virus, per l’HIV, non è sembrata soddisfacente e progressivamente gli “studiosi” hanno cominciato a parlare di retrovirus, definizione ormai più che ampiamente accettata. Ma un retrovirus è evidentemente un virus, an­corché caratterizzato dalla trascrizione a ritroso dell’RNA in DNA. Ma, a parte il fatto che questa trascrizione a ritroso dell’acido ribonucleico nell’acido desossiribonucleico resta alquanto misteriosa, la stessa connotazione del DNA e delle sue “valenze” nell’essere umano comincia a venir messa in discussione come codice genetico probatorio. Ma lascio volentieri queste discussioni ai cosiddetti scienziati. Il problema che sostanzialmente si è posto con l’AIDS è stato un altro: quello sociale, come si è detto. Ed il problema sociale ha almeno tre livelli di lettura e di eventuale interpretazione. Cerchiamo di individuarli.

1. La situazione sociale e storica complessiva. Ormai non c’è più nessuno che prescinda dai cosiddetti cofattori, vale a dire da quegli elementi (igienici, alimentari, sessuali, di rapporti con le droghe, con l’ambiente ecc.) che, pur senza venir ridotti semplice­mente al “terreno morboso”, così come è stato storicamente definito, non di meno intervengono nell’insorgere del morbo e nella sua diffusione.

Alcuni, critici rispetto all’impostazione virale, vedono in uno (assunzione di droghe) o in più “cofattori” la causa essenziale del morbo. La questione non è essenziale dal punto di vista in cui mi situo; essenziale è invece il fatto che tutti, ciascuno a modo suo, da Montagner a Duesberg, riconoscano l’importanza de­cisiva del fattore ambientale e sociale. A questo punto il ragionamento va sviluppato intorno alla nostra civiltà e alla sua attuale fase. Le pesti neomoderne stanno alla fase attuale di civilizzazione esattamente come le pesti storicamente conosciute stavano a quelle particolari civiltà (e poco importa che allora le cause dell’infezione venissero attribuite agli ebrei, agli untori o a qualche altro elemento soggettivo: non erano né sono spiegazioni più esaurienti di quelle virali rivestendo tutte un carattere misterico ed allusi­vo). Dunque, dando per accettabile che la causa prima delle malattie è il particolare stadio di sviluppo o di involuzione delle civiltà, si deve convenire che l’AIDS è esattamente la “malattia” della civiltà presente.

2. Le civiltà, oltre che ai rapporti economici e politici, sono strettamente collegate a quelli che generica­mente possiamo definire come culturali (poiché lo uso in senso ampio, in questo concetto vanno inclusi quelli di scienze, di morale, di religione, di “cultura” in senso stretto e così via). Per quanto riguarda L’AIDS sono immediatamente percepibili degli aspetti genericamente culturali. Esaminiamoli rapidamente.

a) L’influenza della cosiddetta scienza medica è immediatamente percepibile, e non solo per la generale ia­trogenesi di una buona parte delle malattie contemporanee. Il culto dei vaccini, per esempio, se ha relativamente diminuito il numero di virus letali nel breve periodo (prendiamo come esempio quello portatore della poliomielite, che mieteva numerose vittime, ovviamente nell’età infantile, tra coloro che ne venivano colpiti, mentre ora il tasso di mortalità si è nettamente abbassato; va aggiunto però che è diminuito note­volmente anche il tasso di infezione epidemica e che, palesemente, le mutate condizioni igieniche e sanitarie complessive hanno avuto e hanno il loro peso), ha nel contempo ridotto significativamente il livello delle difese immunitarie e delle loro capacità di intervento. E’ universalmente riconosciuto che esiste, per quanto riguarda l’Africa, uno stretto collegamento tra le vaccinazioni di massa, portato dalla cultura capitalistico-scientifica occidentale, e l’espandersi della pandemia di AIDS. Ma è anche sostenuto da molte parti ormai che l’uso di certi prodotti come l’AZT, se può ritardare in una primissima fase l’aggravarsi della condizione morbosa, accelera quelle successive. Infine è evidente, per motivi ideologici ed econo­mici, la dichiarata sottovalutazione di tutte quelle possibilità curative che escono dal quadro epistemolo­gico della medicina ufficiale, cioè della Scienza Medica con le maiuscole.

b) Ma anche gli aspetti psicologici e morali, frutto di questa fase della civiltà e dell’impostazione culturale che ne consegue per superfetazione, hanno una loro importanza diretta. Facciamo qualche esempio alla rinfusa. Tranne che per un certo numero minoritario ma apprezzabilissimo di casi, spesso viene notato un peggioramento generale delle condizioni in un soggetto che apprende di essere sieropositivo. La cultura dell’inimicizia verso la malattia gioca la sua parte (mentre tutti sappiamo che la malattia in realtà è una forma di difesa dell’organismo vivente), ma non minore parte vi gioca quella della “irrimediabilità” di certe malattie, ed infatti si nota altrettanto una precipitazione degli aspetti patologici in individui che vengono a conoscenza di avere quel che si dice un “tumore maligno”. Questi sono aspetti culturali, in senso lato.

c) Ma vi sono dei caratteri che attengono soprattutto alla sfera definita morale e che forse potremmo chiamare meglio come consuetudine ideologica consolidata. Il caso dell’AIDS è emblematico. Il legame, di tipo so­prattutto statistico, tra l’insorgere dell’affezione e comportamenti anomali (rispetto alla norma consolidata) o addirittura anomici è stato ripetutamente evidenziato, e non a torto, ma senza nessun tentativo di modificazione del quadro epistemologico dato. Tossicofili, omosessuali e libertini sono tra coloro che vengono sottolineati come soggetti alle cosiddette “categorie a rischio” (anche gli emofiliaci lo sono, ma, trattandosi di persone in qualche modo moralmente “incolpevoli”, verso di loro c’è soprattutto compassione, neanche che il morbo, quale esso sia, si ponga delle questioni morali o che la pietà altrui sia un efficace strumento curativo). Alcune parole vanno dette con chiarezza. Non voglio ripetere evidenze già espresse in altre sedi: per esempio che il proibizionismo spinge a comportamenti antigienici e “rischiosi” o che il senso di riprovazione moralsociale fa sì che certe pratiche vengano condotte pressoché in clandestinità, con tutto il rischio che ne deriva. Questi sono fatti di una evidenza così palmare che non vale la pena di spenderci sopra altro tempo per denunciarli; piuttosto bisogna spendere molte energie per rovesciare certe situazioni. Ma vi è una pena supplementare che spesso danneggia gravemente il soggetto. Lo descriverei con questa formula: «Me lo sono voluto io». Un misto di senso di colpa per aver trasgredito talune regole della consuetudine morale consolidata, un quantum di “orgoglio” per essere stati ed essere diversi (molti tossicofili, per esempio, continuano nell’uso ed anzi talvolta lo accrescono, dei prodotti più abituali ed amati, “tanto ormai…”, così come dei libertini si dedicano vieppiù al libertinaggio ecc.), non­ché un senso di implacabile impotenza che purtroppo, così alcuni credono, va fatto risalire all’impossibilità di correggere il passato e le sue conseguenze. Ciò determina spossatezza o addirittura sfinimento.

La determinazione storica e sociale non viene tenuta nel conto dovuto e necessario, mentre viene esaltata, ancorché in negativo, la cosiddetta responsabilità individuale, quando è evidente che le nostre responsabilità si snodano sull’asse accettazione-ribellione, ma sempre in un contesto che ci viene pre-dato.

d) Va infine fatto rilevare l’aspetto semiologico (e molti altri sarebbero utili, ma mi limito per questioni di tempo/spazio). Spesso il codice della malattia è già la malattia stessa. Lo studio dei segni del “malato” condiziona il malato stesso (ma anche il “sano”, se è per questo). Nella semiotica il linguaggio del corpo viene ridotto a quasi zero, mentre assumono importanza tutte le altre forme di linguaggio, che nel malato sono “malate” giocoforza. Si assiste così ad una spirale perversa, ad una falsa dialettica: i segni della malattia sono i segni del malato, che, a loro volta, evidenziano quelli della malattia ecc. Solo nella rottura della crosta semiotica data, si possono incontrare avventure diverse, ma per chi è dentro quel quadro, e nell’odiosa condizione di infermo o addirittura di “condannato a morte”, questo passaggio è difficilissimo. Anche la semiotica, partecipe della cultura dominante, è dunque patogena o almeno estensiva di condizioni patologiche.

3. Il rapporto che si ha con il proprio corpo, la sua caducità e dunque con la vita e con la morte. In que­sto senso l’AIDS risulta esemplare. Abbiamo già visto come non sia una malattia ma la possibilità di un gran numero di malattie. Il corpo, già espropriato delle sue capacità erotiche e creative, si vede così espropriato anche [della capacità] di usare le malattie come fasi della sua difesa ed eventualmente della sua rigenerazione. Il corpo diventa così un semplice contenitore, in questo caso di virus, retrovirus ecc. Questo fa sì che vi sia una sorta di disprezzo del corpo: troppo alla mercé di altri e troppo poco (apparentemente) capace di espressione o addirittura di insurrezione. D’altra parte, la difesa della vita meramente biologica, in assenza di una vita globale sostituita dall’amministrazione sopravvivenziale, rende praticamente insopportabile anche la sola idea della morte. Avendo perso il senso del ciclo, avendo sovrapposto alla prima natura la seconda (il capitale), è al capitale stesso che si richiedono delle ipotetiche soluzioni. In particolare: alla scienza medica o alla morale o alla filosofia ecc. Nel buio di esistenze perdute si vedono soltanto i fuochi fatui. In questo contesto l’AIDS è veramente esemplare: riduce tutto e allarga tutto nel contempo, è colpa quanto amministrazione, è morbo quanto incomprensione del morbo stesso. Potrebbe essere anche la soluzione finale, per chiudere con l’apparizione degli uomini su questo pianeta, ma non pare essere così; pare piuttosto che si approntino nuovi cimenti (e nuove pandemie, per altro) perché la resistenza essenzialmente umana è ancora forte e le possibilità di liberarsi dal dominio dell’inorganico, dalla società del capitale, ancora tutte da sviluppare.

Non ci sono indicazioni da dare, se non quelle che ciascuno sa darsi da solo, e, soprattutto, in compagnia («Figliolo, hai peccato da solo o in compagnia?» «In compagnia padre»).

Maggio-giugno 1994