Un anarchico nell’inferno della Caienna

cordatesa82

R. Brosio

Parigi, ottobre 1886. Celato nell’ombra di un portone, il brigadiere Rossignol si tirava nervosamente i mustacchi. Se tutto fosse andato per il verso giusto, stava per portare a termine un’altra brillante operazione di polizia, un ennesimo successo da aggiungere al suo già fornito curriculum.

Non aveva motivo di dubitare del buon esito della cosa. Era un uomo sicuro del fatto suo, il brigadiere, una specie di Calabresi dell’epoca, famoso per il coraggio e la efficienza con cui sapeva perseguitare la malavita cittadina. Quella volta si trattava di arrestare un pericoloso sovversivo, accusato di furto con scasso e incendio doloso, e l’agguato era stato predisposto con tutta la cura necessaria, tale da non destare preoccupazioni. Si era portato appresso una ventina di agenti, li aveva dislocati strategicamente, lui stesso era lì, pronto a dare il via alla manovra. Se era nervoso, era soltanto a causa dell’attesa. Fu forse per quest’eccesso di fiducia, o per la smania di fare bella figura, o per entrambi i motivi, che, appena il personaggio in questione si decise a comparire, il brigadiere Rossignol balzò senza esitare dal suo nascondiglio, precedendo i colleghi. In un lampo fu addosso al ricercato, urlando come un pazzo la frase di rito, quella certamente che preferiva fra i tanti stereotipi del linguaggio poliziesco: “In nome della legge, ti dichiaro in arresto!”. Era la tecnica che usava in quei casi, per spaventare il delinquente colto sul fatto e togliergli subito ogni velleità di reazione. Ma non funzionò. Invece che con tremebonda rassegnazione il suo exploit venne accolto da un ringhio minaccioso: “E io ti ammazzo, in nome della libertà!”. A conferma delle sue intenzioni, l’uomo aveva estratto un coltello lungo un palmo. La zuffa che seguì fu violentissima. Mentre gli altri sbirri cercavano vanamente di bloccarlo, l’irriducibile individuo inferse una mezza dozzina di coltellate al Rossignol e, nel disperato tentativo di divincolarsi, gli schizzò addirittura un occhio dall’orbita. Alla fine, il numero ebbe ragione della sua resistenza. Venne ammanettato e portato in galera. Il brigadiere andò all’ospedale, con un successo in più al suo attivo e un occhio di meno. L’antagonista dell’incauto poliziotto era Clement Duval, anarchico espropriatore, che quel giorno suggellava sanguinosamente la propria esistenza di militante rivoluzionario per iniziarne, di lì a poco, un’altra, quella di galeotto deportato alla Guyana. Una conseguenza fatale, tutto sommato, così come la ribellione violenta era la conseguenza fatale di una esistenza senza gioia, sofferta, come vedremo, sotto il giogo dello sfruttamento e della sopraffazione. Da questo punto di vista, la vicenda di Duval ha un significato che trascende il caso umano, perché è lo specchio di un’epoca, in cui si riflette il volto reazionario della Francia neo-industriale imperialista, sfruttatrice, repressiva. A quel tempo, poteva essere la storia di tutti, e in effetti lo fu di molti. Proprio in questa mancanza di eccezionalità risiede, oggi, il suo valore esemplare.

proletario
Duval era di famiglia proletaria, e imparò ben presto cosa questo significasse. Ebbe il primo, brusco, contatto con la realtà in occasione del conflitto franco-prussiano, nel 1870 quand’era appena ventenne. Arruolato nel 5° battaglione Cacciatori a piedi, fu spedito al fronte, a sperimentare di persona quanto costava la gloria della nazione e chi doveva pagarne il prezzo. Grazie alle perfette condizioni igieniche in cui l’esercito francese veniva tenuto, si prese il vaiolo, scampando per miracolo. A Villorau fu ferito dallo scoppio di un obice, tanto gravemente da restare inchiodato per sei mesi in un miserabile ospedale di guerra. Tornò a Parigi nel 1873, in quanto, dopo la morte del padre, era l’unico sostegno della famiglia: tutto intero ma rovinato per sempre dall’artrite e dai reumatismi, postumi delle lesioni e della lunga degenza. Ironia della sorte, a casa trovò che la famiglia di cui doveva essere il sostegno non esisteva più. La giovane moglie (che aveva sposato poco prima di partire per il fronte) incapace a reggere da sola sia le sorti del menage che il peso della solitudine, si era messa con un altro, e il povero Duval, dopo le gioie della vita militare, ebbe modo di conoscere la condizione di reduce cornuto. La mentalità dell’epoca non era delle più aperte, in fatto di costumi sessuali e rapporti extramatrimoniali, e Duval, benché progressista, non era nelle condizioni di spirito migliori per guardare alle cose con quella serenità che le sue idee avrebbero richiesto. Ci vollero così ben 14 mesi di rancore e gelosia retrospettiva perché i due coniugi riuscissero a dimenticare l’incidente e tornassero a vivere insieme. Fu l’inizio di un periodo di relativa tranquillità. Lui lavorava come meccanico in un’officina di Parigi, la moglie badava alle faccende domestiche, e la vita benché dura, poteva sembrare quasi felice, a paragone di quella del fronte. Non che fossero rose e fiori, intendiamoci. In fabbrica, 14 ore di lavoro al giorno, disciplina ferrea, lo spettro del licenziamento ad ogni minima mancanza. A casa, vitto povero, sporcizia, squallore, i lunghi silenzi della fatica e della miseria. Era la vita che conducevano allora i proletari dei paesi neo-industriali. In quest’epoca, Duval maturò le sue convinzioni libertarie, le affinò con letture e con l’esperienza diretta, rendendosi conto della natura dello sfruttamento e convincendosi che l’unica prospettiva di emancipazione per le classi inferiori stava nella rivoluzione. Ma, più che per le idee e le intenzioni sovversive, si faceva allora conoscere per la fermezza orgogliosa del carattere, per l’onestà, per la passione che nonostante tutto, metteva nel suo mestiere. Ma era segnato. Non da un soprannaturale destino avverso e nemmeno tanto dalle idee che professava, piuttosto dalla sua condizione di sfruttato, di reietto cui la società chiedeva tutto, dolore, sacrificio, rassegnazione, e non dava nulla in cambio. Dopo appena tre anni di vita normale, un terribile attacco di reumatismi venne a ricordargli di aver combattuto per la patria, inchiodandolo in letto, quasi senza interruzione, fino al 1878. Perse il lavoro, e se prima era stata la povertà, ora fu la miseria. E, con la miseria, le liti in famiglia, le recriminazioni, il disprezzo degli altri, l’angoscia di un’esistenza senza prospettive senza pietà. La disperazione. L’odio.

espropriatore
E Duval rubò. Per vivere, per mangiare, senza porsi problemi di alcun genere, con l’unica consapevolezza di non avere alternative. Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi franchi sottratti dal cassetto mentre l’impiegato era assente, e gli andò bene. Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso luogo, ma venne sorpreso e acciuffato. Il risultato immediato fu la prigione (un anno a Mazas) e l’abbandono, ormai definitivo, da parte della moglie. Ma non fu l’unico né il più importante. Quel primo contatto con l’illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo della sostanziale legittimità del furto (o “riappropriazione individuale”, come si diceva allora) ma della possibilità che esso divenisse un mezzo di lotta. Un mezzo, si badi, non un fine a sé stante. Ché proprio in questa concezione, accettabile o no che fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la grandezza d’animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando per rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur comprensibile), convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi averi, senza domandarsi cosa bisognasse farne dopo. Duval, al contrario, vedeva nel furto solo uno strumento per finanziare l’attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con la borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La sua, fu una lotta solitaria, a causa delle condizioni in cui fu costretto ad agire, ma non egoistica. Dopo i primi tentativi inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la propria tragedia personale, trovando in essa il punto di partenza per una visione più ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò attivamente a fare propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a Parigi, e si rese conto di essere come in guerra. Una guerra condotta senza esclusione di colpi, senza convenzioni internazionali che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico fair-play. Ogni rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero si trovava di fronte i fucili dell’esercito ed erano morti e feriti, ogni pubblica manifestazione di dissenso era l’occasione per arresti di massa (ed era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval pensò (chi può dargli torto?) che non si potesse fare altro che rispondere alla violenza con la violenza. E, perdio, rispose. Una fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus, una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky dove egli stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi dove lo sfruttamento più disumano veniva consumato, dove gli operai sputavano la salute 14 ore al giorno in cambio di quattro miserabili franchi, dove il privilegio più indegno si formava e si consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati dall’esplosivo. È in questo periodo che nasce nell’iconografia del regime, la figura dell’anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore dei torti proletari, incubo del borghese e del benestante. Duval, ormai, era uno di questi. La notte del 5 ottobre 1886 accadde l’episodio che doveva determinare la sua rovina. Duval si introdusse nell’appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed egli potè agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli oggetti preziosi che riuscì a trovare e devastò quanto fu costretto, per il peso o l’ingombro, a lasciare sul luogo. Andandosene, senza volerlo (ché non aveva interesse alcuno ad attirare l’attenzione mentre era all’opera), appiccò il fuoco alla casa. Il danno, tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi, una bella somma che contribuì a dare una certa risonanza all’avvenimento. La polizia non tardò a scoprire il responsabile. I gioielli espropriati, messi in vendita troppo presto, lasciavano dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno permise di risalire ai ricettatori e quindi a Duval. Sorpreso davanti all’abitazione di un compagno, questi venne arrestato, e non senza fatica, come abbiamo già raccontato.

il processo
Anche il processo, che si tenne l’11 e il 12 febbraio 1887 dinnanzi alla Corte d’Assise della Senna, fu ben lontano da svolgersi in modo tranquillo. L’imputato rimbeccò i giudici con fermezza rifiutando il ruolo di delinquente comune in cui lo si voleva costringere, reclamando a gran voce la natura politica del suo movente, contestando la pretesa degli uomini di toga in “fare giustizia”. Da accusato si fece accusatore, delle malversazioni, dell’ingiustizia dello sfruttamento, delle mistificazioni, dei torti subiti, da lui e da quelli come lui. Il pubblico, che stipava fitto il tribunale, fu trascinato da quella veemenza e fece eco. L’ultima udienza terminò in una baraonda gigantesca. Duval espulso dall’aula, la gente che gridava “Viva l’anarchia!”, la polizia quasi sopraffatta dalla folla, i giudici in fuga verso la Camera di Consiglio, e poi insulti e zuffe, botte e arresti. Un’ora dopo, sedato il tumulto, la Corte comunicò il verdetto: la morte. Una pena dettata dalla paura, certo sproporzionata alla gravità dei reati in discussione. Il 29 febbraio, forse rendendosi conto di questa sproporzione, il Presidente della Repubblica commutò la sentenza in quella, solo apparentemente più mite, della deportazione a vita. Il consesso civile chiudeva i battenti alle sue spalle e gli spalancava quelli dell’inferno. Per sempre. Il 25 marzo, alle quattro del pomeriggio, Duval partiva con la nave “Orne” dalla fortezza militare Lamalgue, di Tolone, alla volta della Guyana. Di quale vita l’attendesse aveva avuto una raccapricciante anticipazione fin dal primo giorno che era giunto al forte. Le sue stesse parole (1), pur nella loro ridondanza fin de siecle, sono di una eloquenza cui non servono commenti: “(…) non oserò mai ridire la corruzione putrida di quella borgia in cui ogni affetto e sentimento umano fermentava all’ultimo stadio purulento della decomposizione. Lungo i muri, sdraiati sul tritume miasmatico dei sacconi, erano gli esausti, la povera gente che a tutte le speranze aveva dato l’addio (…). Negli angoli discreti a cui non giungevano né il guizzo scialbo dei lumi ad olio, né lo sguardo dei curiosi, erano fremiti e singulti, la foia, il delirio bestiale della fornicazione. Un trivio di Sodoma eretto all’ombra della terza repubblica della borghesia benpensante, ad onore e gloria della morale vereconda e della scienza penale positiva”.

l’inferno
Dopo questo, a togliere definitivamente ogni illusione, vennero i trenta giorni di mare, sulla nave-galera che lo portava al bagno della Guyana. Suoi compagni di sventura erano ladri, assassini, bruti senz’anima figli dell’abiezione, della miseria, dell’ignoranza: Lebou, condannato a vita per avere bruciato sua madre; Faure, che per questioni di interesse squartò il fratello e lo diede in pasto ai maiali; Menetier, che aveva ucciso due vecchie per violentarne i cadaveri; ed altri tutti degni prodotti della società che li aveva generati. Questa umanità spaventosa veniva schierata tutte le mattine sul ponte per l’ispezione, fra il ludibrio, le volgarità, i commenti idioti della ciurma, dei secondini, dei passeggeri civili. Duval non era uomo da sopportare tale trattamento. Alla prima occasione si ribellò, rispondendo per le rime alle provocazioni, ed ebbe così un altro assaggio della sorte che lo attendeva al penitenziario: nudo come un verme, fu sbattuto per due giorni, in una cella piena d’acqua, in cui non poteva star ritto perché troppo bassa, né si poteva allungare perché troppo stretta. La repressione nella repressione. La Guyana era veramente un inferno, un abisso immondo di violenza e depravazione, reso ancora più intollerabile dal clima tropicale umido e caldissimo. Laggiù, l’idea ipocrita che la galera possa servire all’espiazione e al ravvedimento, trovava a quei tempi la più tragica delle smentite. La Guyana era sinonimo di lavoro forzato, di ferri alle caviglie, di cibo putrescente, di celle di punizione, di insetti brulicanti, di scorbuto, amebiasi, dissenteria. Redenzione? Al bagno, gli uomini perdevano la salute, la dignità, morivano di stenti e di malattie, marci nel corpo e nel cuore, avviliti, spezzati, violentati, ridotti loro malgrado allo stato di animali. I delinquenti più feroci ottenevano qualche squallido privilegio con la prepotenza, a spese dei propri stessi compagni. I più cinici barattavano la simpatia dei guardiani con il servilismo, la delazione. I più deboli subivano. Il penitenziario era l’immagine, peggiorata e pervertita, di tutti i vizi, di tutte le miserie, di tutte le sopraffazioni proprie della società che l’aveva prodotto. Proprio per quello, quelli che non erano piegati prima, quand’erano in libertà, non accettarono di piegarsi adesso che si trovavano in una società più feroce, ma non dissimile dall’altra. Duval (e in genere tutti gli anarchici che finirono al bagno) non fece eccezione. La storia della sua permanenza nell’isola maledetta è la storia della sua fierezza, della sua irriducibile volontà di lotta, del tentativo costante di non perdere la sua misura d’uomo, di non precipitare anche lui nel baratro di turpitudine che aveva di fronte. E ci riuscì. Si opponeva ai taglieggiamenti dei guardiani, insorgeva contro le ingiustizie, aiutava i compagni più sfortunati, smascherava le spie e i provocatori. I secondi più crudeli, i direttori inebetiti dall’assenzio, le canaglie, gli assassini, i bruti senz’anima che popolavano il penitenziario, impararono a tributargli una sorta di rispetto, certo degno di un ambiente migliore, in cui l’ammirazione per la rettitudine si mescolava al timore per la durezza della sua scorza. Un rispetto meritato, se si pensa al prezzo che dovette pagare per ottenerlo.

la rivolta
La notte fra il 21 e il 22 ottobre 1895 scoppiò una rivolta sull’isola, organizzata dal gruppo, abbastanza numeroso, di anarchici che si trovavano allora al bagno. Fu una impresa senza speranze, compiuta più per vendicarsi delle continue vessazioni cui erano sottoposti i compagni, che per le vere possibilità di successo che presentava. Duval partecipò attivamente alla sua preparazione, che fu lunga, controversa e laboriosa, ma al dunque dovette rinunciare a dare il suo apporto attivo perché mandato in un altro luogo per punizione. Fu, tutto sommato, una fortuna. Infatti, l’Amministrazione penitenziaria messa sull’avviso dalle delazioni di un paio di traditori, aveva deciso di cogliere l’occasione per sterminare l’intera colonia anarchica, fonte continua di preoccupazioni per il carattere indocile dei suoi componenti. E così fu. Appena i rivoltosi uscirono dalle camerate, trovarono ad attenderli i fucili delle guardie. “Sangue freddo e senza quartiere” aveva raccomandato il comandante Bonafai, capo del servizio di Sicurezza Interno, ai suoi uomini, che per l’occasione erano stati ubriacati come maiali. Con un massacro allucinante, gli anarchici Garnier, Simon, Leauthier, Lebault, Masservin, Dervaux, Chevenet, Boesie, Mesueis, Kesvau, Marpeaux, furono sorpresi, inseguiti, uccisi uno per uno senza pietà. L’indomani, i loro corpi crivellati di colpi vennero gettati in mare, in pasto ai pescicani, mentre la Commissione d’inchiesta, subito nominata, continuava la repressione, arrestando e mettendo ai ferri tutti quelli su cui aleggiava anche il semplice sospetto di aver aiutato i ribelli. Duval restò alla Guyana 14 anni. In questo tempo, tentò l’evasione più di venti volte, cogliendo ogni occasione, con ogni mezzo: su zattere di fortuna, su barche rubate o pazientemente costruite, clandestino sulle navi in transito. Ogni volta qualcosa andava per traverso. Veniva preso, scontava l’inevitabile punizione, e ricominciava. Se avesse rinunciato, dopo i primi fallimenti, sarebbe morto in galera come tanti altri, roso dalla febbre o ucciso da un guardiano. Invece, per la sua incapacità a rassegnarsi, si salvò. Tenta e ritenta, un insuccesso dopo l’altro, finalmente venne la volta in cui la fortuna girò per il verso giusto.

l’evasione
Il 13 aprile 1901, Duval, con otto compagni di pena, metteva in mare un fragile canotto e si dirigeva silenziosamente verso il mare aperto. Era notte fonda, e nessuna guardia si accorse dell’evasione fino al giorno dopo. I deportati ebbero modo, così, remando di buona lena, di allontanarsi indisturbati. Al mattino, issata la vela, fecero rotta verso nord-est, per uscire dalla giurisdizione francese. Una nave da guerra li incrociò, senza mostrare il minimo interessamento, continuando per la sua strada. Un buon inizio. Veleggiarono tranquilli per tutto il giorno sospinti da una brezza leggera. Al timone stava un mozzo, ottimo marinaio, la cui esperienza nautica contribuiva a tenere alto il morale degli evasi. Ma alla sera, il tempo si guastò. La brezza divenne ben presto un uragano capace di sollevare ondate gigantesche, che riempivano di acqua la barchetta, costringendo gli uomini ad un continuo angoscioso lavoro di svuotamento. Per di più, il mozzo a causa della mancanza di vitamine (retaggio del regime alimentare del penitenziario), di notte perdeva completamente la vista e la sua abilità diventava ben poca cosa senza l’aiuto degli occhi. Fu una notte d’inferno, in cui più volte corsero il rischio di finire ai pescecani. Il mattino dopo, le condizioni atmosferiche migliorarono, quelle del mozzo anche, e in breve tempo Duval e i suoi compagni giunsero in vista della terra. Era la zona di Paramaraibo, nella Guyana Olandese. Cioè fuori dalle grinfie dell’Amministrazione penitenziaria. Il più era fatto. Anche così, però, gli evasi erano in pericolo. Come galeotti fuggitivi, potevano essere incarcerati dalla polizia olandese. Se la Francia l’avesse saputo, potevano venire estradati e internati nuovamente nell’isola maledetta. L’Odissea non era ancora finita. Sarebbe durata due anni. Sempre sotto falso nome, sempre allerta per non venire scoperto, sempre in lotta con la fame e con le autorità, costretto ai lavori più umili e miserabili, Duval passò nella Guyana inglese, poi, da lì nella Martinica, giungendo infine a Porto Rico. Qui si fermò un poco, rimettendo in sesto la salute malandata e ricostruendosi un embrione di vita normale. Il 16 giugno 1903 si imbarcò per gli Stati Uniti, con la prospettiva di un’esistenza perlomeno libera. La deportazione era ormai solo un ricordo, anche se incancellabile.

(1) Clement Duval, Memorie autobiografiche, 1929, pag. 86.