ECOCIDIO E GRATUITA’, di Riccardo Paccosi (1992)

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La questione ambientale si è da tempo dislocata su tre (o forse quattro) livelli di mobilitazione strategica messi in atto dal potere. 1) Innanzitutto di quale ecosistema andiamo parlando? O meglio, posto che la strategia all’opera nell’emergenza ambientale riguarda una divisione spaziale che regolerà l’accesso gerarchizzato alla merce-natura,(1) a quale merce-natura ci dovremmo riferire? Soffermarsi sull’apporto distruttivo che le nocività hanno arrecato all’ecosistema primigenio, significa andarsi a cristallizzare su un aspetto che non esaurisce certo il problema; anzi, da quest’angolazione è il problema stesso a mostrarsi esaurito. Gli scenari che ospitano gli investimenti strategici (finanziari/spettacolari) quantitativamente e qualitativamente più rilevante sono lì a dimostrare che l’ecosistema primigenio non ha più un ruolo determinante nel gioco.

La collocazione sotterranea dei nuovi ipermercati in progettazione un può ovunque, denota l’aria condizionata come elemento qualificante di questi centri decentrati di condensazione turistico-mercantile. Le colossali cupole di plastica che vanno erigendosi sui campi di grano dell’Arizona fanno luce sulle finalità del chiacchiericcio massmediatico – più o meno allarmistico – su buco d’ozono et similia. Infine nel set dell’ultima tele-guerra – d’un’emblematicità invero eccessiva – avevamo un’intera metro-poli – Kuwait City – funzionante ad aria condizionata e stagliantesi nell’accaldata contemplazione del deserto (altro memento storico, data la desertificazione progressiva e planetaria, della messa fuori gioco del vecchio ecosistema). Ora, insomma, il sistema (post-industriale) sostituisce l’ecosistema. Il sistema-Capitale si fa ecosistema. L’ambiente-merce in gioco è pertanto quello tecnologico. Ed è nelle differenze di habitat tecnologico la topologia della divisione spaziale di cui sopra, ovvero della sempre più violenta separazione tra inclusi ed esclusi: i reami dell’aria condizionata per i primi, l’appestata metropoli del controllo sociale (poliziesco e/o neo-tribale) per i secondi. E poco importa l’eventuale indistinguibilità a livello territoriale di questi spazi divisi: dovremo accettare che la condizione dei nemici di classe mostri sempre più analogie con quella del principe Prospero all’inizio de La maschera della Morte Rossa, ma con una più confortevole (per loro) ripartizione di pro e contro. Ed è evidente come in tal modo i rapporti di classe attuali non limitino più a naturalizzarsi (in senso ideologico): essi tendono a naturalizzarsi, ovvero a portare avanti un vero e proprio processo d’ambientificazione delle proprie coordinate strutturali. Per quanto riguarda il vecchio ambiente primigenio in questo quadro è fin troppo facile ipotizzarlo come un lusso per gli inclusi e, evidentemente, come serbatoio di materia prima. L’emergenza ambientale ci rivela in prospettiva delle modificazioni antropologiche di causa tecnologica ad un grado di onnipervadenza e irreversibilità radicalmente inedito. Vien dunque e paradossalmente d’affermare che non c’è un ecocidio da scongiurare; ci sarebbe casomai un ecocidio da compiere. 2) Ma la futurologia è solo un optional ai fini d’individuare nella nostra quotidianità questo processo naturalizzante. La plasmazione dell’ambiente vitale, cioè dello spazio, secondo i paradigmi dominanti comincia soprattutto con la plasmazione dei valori d’uso di quest’ultimo: il ghetto della televisione, della pubblicità, il ghetto dei consumatori/consumati, dei lettori letti in anticipo, dei decodificatori codificati in tutti i messaggi, dei circolanti/circolati della metropolitana, dei sollazzatori/sollazzati del tempo libero, ecc.. Ogni istante della vita quotidiana è assegnato da codici multipli (dal codice) ad uno spazio-tempo determinato.(2) E ciò va quindi ad incidere sostanzialmente sulle caratteristiche ambientali degli spazi circolatori e stanziali del contesto urbano, scompartizzati ed omologati allo stesso tempo. Logico poi che questo fenomeno di scompartizzazione/omologazione produca un effetto di ritorno, coercizzando e cristallizzando a sua volta e ancor di più i valori d’uso dello spazio. Viene insomma a determinarsi un circolo vizioso a riproduzione esponenziale. 3) Ma questo circolo vizioso si realizza anche al livello della costruzione di realtà: il dominio del codice, l’amalgama di tutti i ruoli e di tutte le singolarità al suo interno, si collega a quell’annichilimento della comunicazione provocato dalla sua stessa saturazione. Il binario morto, la gelatina afasica, il dominio asfissiante del già sentito.(3) Tutto ciò complementa e naturalizza il regno totalitario dell’immanenza, l’epoca del Presentariato, l’azzeramento d’ogni valore referenziale ed opposizionale nell’omogeneizzato multimediale. Tutti questi fattori, la loro reciprocità funzionale, fanno ecosistema. Nulla è più percepibile concettualmente e sensibilmente se non ciò che è immanente. 3 bis) La naturalizzazione combinata dei valori d’uso spaziali e comunicazionali ha irrevocabilmente lacerato il già tenue filo separatorio tra realtà reale (?) e realtà mediata (costruzione di realtà). Tanto l’azione quanto la comunicazione s’invischiano neutralizzati nell’immanenza soverchiante. Nessun tipo di autonomia ambientale è possibile in questo spazio: i nostri attuali corpi post-moderni sono privati delle coordinate spaziali e praticamente incapaci di distaccamento, tanto i volumi di questo nuovo spazio globale sono stipati e pervasivi.(4) Questo sta a significare che l’esasperazione generata dalle contraddizioni di classe – naturalizzante e naturalizzata – viene a trovarsi deprivata d’ogni potenzialità effettivamente sovversiva; viene cioè a trovarsi ridotta a fuoco di paglia, valvola di sfogo, impianto fognario, alibi emergenzialista, entropia programmata (come, ad esempio, i recenti fatti di Los Angeles). Poiché qualsiasi discorso, recante valori o recante disvalori, recante senso o recante non-senso, tenderà ad incastrarsi nelle maglie del meta-senso dominante. Qualsiasi messaggio sarà destinato a fluttuare nell’ambiente e ad ambientificarsi a sua volta, per il semplice fatto di riprodurre il valore d’uso dello spazio; tanto maggiore sarà la singolarità, la propensione antagonistica del contenuto, tanto più ne risulterà glorificata l’onnicomprensività del codice. È rimasta infatti ben poca alterità dicibile, v’è ancor meno di norma deturnabile, giacché il codice – ricettacolo ecosistemico di tutti gli opposti – è autoreversibile e si deturna già da sé. Allo stesso modo, qualsiasi gesto, armonico o violento, lecito od illecito, per il fatto stesso di muoversi entro le medesime coordinate ambientali, tenderà comunque ad apologizzare lo spazio e i suoi valori d’uso, ad inscriversi in questa teleologia complessiva che è l’autorispecchiamento, il parlarsi addosso dell’ecosistema, l’ingrassamento polimorfo del flusso multimediale, l’onnivoro ed onnidefecante videodrome. La via d’uscita possibile passa per l’attacco al processo di ambientificazione; una prassi che metta in discussione lo spazio/codice e i valori d’uso da esso imposti. Ma innanzitutto occorrerebbe definire il chi di tale attacco. Vi sono forse soggetti sociali pertinenti allo scopo? In realtà il soggetto in quanto tale, nonché la qualità che lo caratterizza – la singolarità – costituiscono l’ente che più fatalmente concorre all’edificare questa dimensione iper-molteplice ed onnicomprensiva. Dimensione su cui si fonda l’efficacia pervasiva dell’ecosistema contemporaneo. Dimensione dell’immanenza che è alle origini, oltretutto, dell’amalgamato annullamento di più o meno tutte le soggettività sociali; anzi, dello scorporamento del sociale stesso; anzi – come sempre più insistentemente sussurrano alcune voci -, della sua morte e decomposizione … L’individuo e la sua istanza peculiare – l’originalità – costituiscono, invece, quell’ente non (ancora) totalmente riducibile all’omologazione dell’immanenza ambientale. Ma, in questo caso, s’impone la necessità di fugare rischi (più o meno eventuali) d’idealizzazioni sacralizzanti: anche l’originalità individuale, infatti, non è categoria comunicabile o interazionabile se non in questo contesto materiale. Quest’ (auspicabile) istanza d’irriduci-bilità, se esiste, è riscontrabile in effetti ad un livello assolutamente liminare, perennemente in bilico; è anch’essa facilmente tendente a risolversi, come in parte già avviene, in una triste ricaduta in quel limbico minestrone ch’è l’archivio del già sentito.(5) Dinanzi ad uno scenario così insidioso, l’originalità individuale non può pertanto essere assunta come contenuto ideale o idealizzato, né come illustrazione corollaria dell’agire; dovrebbe bensì essere assunta e radicalizzata come categoria pragmatica volta (primariamente) a sovvertire lo spazio e i suoi valori d’uso: sia lo spazio individuale che – tramite deriva e saccheggio – quello cosiddetto collettivo. Potremmo provare a chiarire la faccenda immaginando un individuo muoventesi al centro d’uno spazio urbano, ovvero d’un luogo strutturalmente deputato a catalizzatore e neutralizzatore per la circolazione di tutti gli input immaginabili; qualunque atto fattibile, in base a quanto detto sopra gli risulta annichilito -o meglio, ambientificato- in partenza. Che può fare? Può, come si diceva, operare sullo spazio. Ed operare in maniera genuinamente distruttiva (giacché quando è nella sostanza stessa dello spazio che si determina la valenza coercitiva ed autoritaria, non è che rimanga a disposizione un gran numero di altre strade percorribili…). Quindi operare in maniera distruttiva non soltanto sugli oggetti esplicitamente collegabili al dominio e allo scontro di classe, ma anche su quegli oggetti la cui funzione è limitata al definire lo spazio, all’esservi collocati. Dunque dalle fabbriche ai vespasiani, dalle caserme militari all’asfalto dei marciapiedi: una distruzione effettualmente fine a se stessa e provvista d’un campo applicativo virtualmente illimitato; non inquinata da illustrazioni di contenuto, da forme di comunicazione positiva volte ad innaffiare la tinozza del codice, ma operante in modo distruttivo anche sulle forme comunicative in quanto tali. Tutto quel che c’è da dire e comunicare dev’essere dettato dallo stesso criterio discrezionale che dovrebbe orientare l’agire e la scelta del cosa distruggere. Criterio che -in quanto individuale- dovrebbe investire il più possibile non solo l’attività politica, ma anche i momenti del tempo libero e della solitudine. Criterio che io individuo nella GRATUITÀ, ovvero nel seguire le proprie necessità espressive nel loro più gratuito determinarsi (ovvero quell’originalità individuale assunta come categoria pragmatica, di cui si diceva poc’anzi). Criterio mutevole da individuo a individuo, di elaborazione delle facoltà creative, fantastiche e situazionautiche, fino al debordamento delle stesse necessità espressive di base (tra processo auto-liberatorio ed attacco all’ecosistema non può né dev’esserci alcuna diacronia). Criterio, per così dire, anti-comunicazionale (anche se l’anti-comunicazione si rivelerebbe destinata a rimanere una perenne tensione sperimentale …). Appare evidente che quanto affermato si pone in contrasto e nell’intenzione di andare oltre buona parte del logoro armamentario auto-rappresentativo e contro-informazionale che appesantisce il movimento anarchico e rivoluzionario in genere. E -si badi bene- non perché certe pratiche finiscono sempre recuperate dal/nel codice; anzi, dovremmo piuttosto prendere atto una buona volta che il recupero non esiste più! Il nuovo contesto naturalizzante ed ecosistemico inscrive, programma ed ipercodifica ogni dinamica comunicativa e contro-comunicativa già a partire dalla sua genesi, dalla sua ragion d’essere. Cosa rimane da recuperare? Per concludere (provvisoriamente): non c’è modo migliore di salutare lo spettacolo emergenzialista di Rio De Janeiro che iniziando, ciascuno di noi, a cimentarsi in qualche fantasioso esperimento di autodeterminazione ambientale.

(1) Encyclopédie des Nuisances, “Indirizzo a tutti coloro che non vogliono gestire le nocività ma sopprimerle”, Nuova Ipazia, Ragusa, 1991, pag. 29.

(2) Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979, pag. 91.

(3) Mario Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1992.

(4) Fredric Jameson, Il post-moderno o la logica culturale del tardo-capitalismo, Garzanti, Milano, 1989, pag. 92.

(5) Non bisogna difatti dimenticare che l’individualità è divenuta ormai un target per i programmi produttivi delle industrie culturali. Cfr. “Due gradini più in alto del gradino più in basso” – preprint di “L’ammutinamento del pensiero…” Bologna, s.d. (primavera del 1991) paragrafi 7-8.

–estratto da “L’Ammutinamento del Pensiero” rivista di critica anarchica n. 2 giugno 1992