Affinità, organizzazione informale e progetti insurrezionali
Perché tornare sulle questioni dell’affinità e dell’organizzazione informale? Di certo non perché manchino i tentativi di esplorare e approfondire questi aspetti dell’anarchismo, perché le discussioni di ieri come di oggi non ne siano in parte ispirate, o non esistano testi che abbordano tali questioni magari in maniera più dinamica. Ma certi concetti esigono senza dubbio uno sforzo analitico e critico permanente, se non vogliono perdere il loro significato a furia di essere frequentemente usati e ripetuti. Altrimenti le nostre idee rischiano di diventare dei luoghi comuni, delle «evidenze», terreno fertile per il gioco idiota della competizione di identità dove la riflessione critica diventa impossibile. Capita che la scelta dell’affine venga liquidata frettolosamente da alcuni come se si trattasse di un rapporto arroccato sulle proprie idee, un rapporto che non permetterebbe un contatto con la realtà e nemmeno con i compagni. Mentre altri agitano l’affinità come uno stendardo, una sorta di parola d’ordine — e come con tutte le parole d’ordine, spesso è il vero significato, profondo e propulsivo, ad esserne la prima vittima.
Nessuna attività umana è possibile senza organizzazione, almeno se per «organizzazione» si intende il coordinamento degli sforzi mentali e fisici ritenuti necessari per raggiungere uno scopo. Da questa definizione si ricava un aspetto importante spesso dimenticato: l’organizzazione è funzionale, essa è orientata verso la realizzazione di qualche cosa, verso l’azione nel senso più ampio del termine. Coloro che oggi sollecitano tutti ad organizzarsi e basta, per mancanza di scopi chiari e nell’attesa che da questo primo momento organizzativo derivi automaticamente tutto il resto, erigono il fatto di organizzarsi fine a se stesso. Nel migliore dei casi, forse sperano che ne scaturirà una prospettiva, una prospettiva che non sono capaci di immaginare da soli o di pensare a grandi linee, ma che diventerebbe possibile o palpabile solo in qualche ambiente collettivo e organizzato. Nulla di meno vero. Una organizzazione è fruttuosa quando è nutrita, non da una presenza banalmente quantitativa, ma da individui che la utilizzano per realizzare uno scopo comune. Detto altrimenti, è vano credere che organizzandosi si risolveranno le questioni del come, cosa, dove e perché lottare grazie alla magia del collettivo. Nel migliore dei casi — o il peggiore, dipende dai punti di vista — si potrà magari trovare un carro su cui saltare, un carro trainato da qualcun altro, e ci si potrà accomodare nel ruolo piuttosto spiacevole di seguace. Allora è solo una questione di tempo prima che, disgustati e insoddisfatti, si rompa con questa organizzazione.
L’organizzazione è quindi subordinata a ciò che si vuole fare. Per gli anarchici, bisogna inoltre aggiungere a ciò il legame diretto che deve esistere fra ciò che si vuole fare, l’ideale per cui si lotta e il modo di ottenerlo. Malgrado tutto il mascheramento contemporaneo e i giochi di parole, nei meandri più o meno marxisti alcuni partiti sono considerati come un mezzo adeguato per combattere i partiti politici. Si considera l’affermazione politica delle forze produttive avanzata ancora oggi (in tempi in cui la vastità del disastro industriale è sotto gli occhi di tutti) una strada per farla finita con i rapporti capitalisti. Alcuni vogliono prendere delle misure per rendere superflue tutte le altre misure. Gli anarchici non hanno nulla a che vedere con tutti questi giochi di prestigio, per loro fini e mezzi devono coincidere. L’autorità non può essere combattuta con forme organizzative autoritarie. Quelli che trascorrono il tempo a spulciare le finezze della metafisica, intendendo in questa affermazione un argomento contro l’uso della violenza, un alibi o una capitolazione da parte degli anarchici, dimostrano con ciò soprattutto il loro desiderio profondo di ordine e armonia. Ogni rapporto umano è conflittuale, il che non vuol dire che sia per forza autoritario. Parlare di simili questioni in termini assoluti è certo difficile, il che non toglie che la tensione verso la coerenza sia davvero una esigenza vitale.
Se oggi pensiamo che l’affinità e i gruppi d’affinità siano i più adeguati per la lotta e l’intervento anarchico nella conflittualità sociale, è perché tale considerazione è intimamente legata a come concepiamo questa lotta e questo intervento. Esistono infatti due strade per affrontare la questione, strade che non sono diametralmente opposte, ma che nemmeno coincidono del tutto. Da un lato, c’è l’esigenza non-negoziabile di coerenza. La questione che si pone allora è in quale misura certe forme organizzative anarchiche (pensiamo alle organizzazioni di sintesi con dei programmi, delle dichiarazioni di principio e dei congressi come le federazioni anarchiche o le strutture anarco-sindacaliste) rispondano alla nostra idea di anarchismo. Dall’altro, c’è la questione dell’adeguamento a tale o talaltra struttura organizzativa. Questo adeguamento sostituisce la questione più sul campo delle condizioni storiche, degli scopi che si vogliono raggiungere (e dunque della forma organizzativa che si considera più adatta per questo), dell’analisi della situazione sociale ed economica… Alle grandi federazioni avremmo preferito, anche in altre epoche, piccoli gruppi agili e autonomi, ma sul piano dell’adeguamento alla situazione difficilmente si può escludere a priori che, in determinate condizioni, la scelta di una organizzazione anarchica di lotta specifica e federata, di una costellazione di guerriglia… possa (o piuttosto, abbia potuto) rispondere a certi bisogni.
Noi pensiamo che contribuire a rotture insurrezionali o svilupparle sia oggi l’intervento anarchico più adeguato per lottare contro il dominio. Per rotture insurrezionali intendiamo una rottura voluta, foss’anche temporanea, nel tempo e nello spazio del dominio; quindi una rottura necessariamente violenta. Sebbene tali rotture abbiano anche un aspetto quantitativo (trattandosi di fenomeni sociali che non possono essere ridotti a una qualsivoglia azione di un pugno di rivoluzionari), esse sono orientate verso la qualità dello scontro. Prendono di mira le strutture e i rapporti di potere, rompono con i loro tempi e spazi e permettono, attraverso le esperienze fatte e i metodi utilizzati di auto-organizzazione e di azione diretta, di rimettere in discussione e di attaccare sempre più aspetti del dominio. In breve, le rotture insurrezionali ci sembrano necessarie sul cammino verso la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.
Da tutto ciò deriva logicamente la questione di sapere come gli anarchici possano organizzarsi per contribuire a una simile rottura. Senza rinunciare alla diffusione sempre importante delle idee anarchiche, a nostro avviso non si tratta oggi di radunare ad ogni costo quante più persone attorno all’anarchismo. In altri termini, non pensiamo che occorrano forti organizzazioni anarchiche con una diffusione in grado di attrarre gli sfruttati e gli esclusi, preludio quantitativo a queste organizzazioni che successivamente daranno (quando i tempi saranno maturi) il segnale dell’insurrezione. Pensiamo inoltre che le rotture insurrezionali non siano pensabili ai giorni nostri partendo da organizzazioni che difendono gli interessi di un gruppo sociale particolare, a partire per esempio da forme più o meno anarcosindacaliste. L’integrazione di tali organizzazioni nella gestione democratica risponde infatti perfettamente all’economia capitalista contemporanea; è questa integrazione ad aver reso impossibile qualsiasi passaggio sperato da una posizione difensiva ad una offensiva. Per finire, ci sembra allo stesso modo impossibile che oggi una forte «cospirazione» sia capace, attraverso interventi chirurgici, di far vacillare il dominio e trascinare gli sfruttati nell’avventura insurrezionale; al di là delle stesse obiezioni che si possono fare contro questa maniera di considerare le cose. In contesti storici in cui il potere era molto centralizzato, come nella Russia zarista, si poteva ancora da qualche parte immaginare l’ipotesi di un attacco diretto contro il cuore (in questo caso, l’assassinio dello zar) come preludio alla rivolta generalizzata. In un contesto di potere decentrato come quello che conosciamo, la questione non può più essere di colpire un cuore, e tanto meno sono immaginabili scenari in cui un colpo ben assestato possa fare tremare il dominio sulle sue fondamenta (il che ovviamente non toglie nulla alla validità di un colpo ben assestato). Bisogna quindi esplorare altri percorsi.
Affinità e gruppi di affini
Molte persone arretrano davanti all’affinità. In effetti è molto più facile e meno esigente aderire a qualcosa, che si tratti di un’organizzazione, di un’assemblea permanente o di un ambiente e di riprenderne e riprodurne le caratteristiche formali, piuttosto che intraprendere la ricerca lunga e mai compiuta di compagni con cui condividere idee, analisi ed eventuali progetti. Perché l’affinità è esattamente questo: la conoscenza reciproca fra compagni, analisi condivise che conducano a prospettive d’azione. L’affinità è così orientata da un lato verso l’approfondimento teorico e dall’altro verso l’intervento nella conflittualità sociale.
L’affinità si situa radicalmente sul campo qualitativo. Essa aspira alla condivisione di idee e metodi, e non ha come scopo una crescita all’infinito. Ora, benché camuffata, la preoccupazione principale di numerosi compagni sembra restare il numero. Quanti siamo? Come fare per essere più numerosi? Dalla polarizzazione su tale questione e dalla constatazione che, se oggi non siamo numerosi, questo è dovuto anche al fatto che molti non condividono le nostre idee (no, anche non inconsciamente), deriva la conclusione che bisognerebbe, per aumentare numericamente, evitare di mettere troppo l’accento su certe idee. Ai giorni nostri sono rari coloro che tentano ancora di vendere tessere per qualche organizzazione rivoluzionaria, destinata a crescere quantitativamente e aspirante a rappresentare sempre più sfruttati; ma sono in tanti a pensare che la maniera migliore di conoscere altre persone consista nell’organizzare attività «consensuali» come per esempio bar autogestiti, laboratori, concerti, ecc. Di sicuro attività del genere possono avere un loro ruolo, ma quando si affronta l’argomento di approfondire l’affinità si parla di qualcosa d’altro. L’affinità non è la stessa cosa dell’amicizia. Certo, le due non si escludono, ma non è perché si condividono certe analisi che si va anche a letto assieme, e viceversa. Così come non è perché si ascolta la stessa musica che si intende lottare nello stesso modo contro il dominio.
La ricerca dell’affinità avviene su un piano interindividuale. Non è un evento collettivo, un affare di gruppo, in cui sarà sempre più facile seguire che riflettere da sé. L’approfondimento dell’affinità è evidentemente una questione di pensiero e azione, ma in fondo l’affinità non risulta tanto dal fatto di portare avanti un’azione insieme, è piuttosto il punto di partenza per poter passare all’azione. Sì, è ovvio, obietteranno alcuni, ma questo allora significa che non incontrerò molte persone che potrebbero essere buoni compagni, perché in qualche modo mi rinchiudo nell’affinità. È vero che la ricerca e l’approfondimento dell’affinità richiedono molto tempo ed energia, e che quindi non è pensabile generalizzarla a tutti i compagni. Il movimento anarchico in un paese, in una città o anche in un quartiere non può diventare un grande gruppo di affini. Non si tratta di ingrossare i diversi gruppi affini con sempre altri compagni, ma di rendere possibile la moltiplicazione di gruppi autonomi di affinità. La ricerca, l’elaborazione e l’approfondimento delle affinità porta a piccoli gruppi di compagni che si conoscono, condividono delle analisi e passano insieme all’azione.
La parola è insufficiente. L’aspetto «gruppo» del gruppo d’affinità è stato regolarmente criticato, a torto e a ragione. Spesso ci sono compagni che condividono la nozione d’affinità, ma si fa più complicato quando si comincia a parlare di «gruppi», che da un lato superano il solo carattere interindividuale e dall’altro sembrano limitare la «crescita». Le obiezioni consistono il più delle volte nel sottolineare i meccanismi perniciosi dell’«interiore/esteriore», del «dentro/fuori» che tali gruppi d’affinità possono generare (come per esempio il fatto di rinunciare al proprio percorso per seguire quello degli altri, la sclerosi e i meccanismi che possono derivarne come certe forme di competizione, di gerarchia, di sentimenti di superiorità o di inferiorità, la paura…). Ma questi problemi si pongono con qualsiasi genere di organizzazione e non sono legati esclusivamente all’affinità. Si tratta piuttosto di riflettere su come evitare che la ricerca d’affinità porti a una stagnazione e ad una paralisi piuttosto che a un’espansione, a una diffusione e ad una moltiplicazione.
Un gruppo di affinità non è la stessa cosa di una «cellula» di partito o di una formazione di guerriglia urbana. Siccome la sua ricerca è permanente, l’affinità evolve in permanenza. Può «aumentare» fino al punto in cui un progetto condiviso diventa possibile, o al contrario può anche «diminuire» fino a rendere impossibile fare alcunché insieme. L’arcipelago dei gruppi d’affinità muta quindi costantemente. Spesso questo costante cambiamento viene d’altronde messo all’indice dai critici: non si può costruire nulla a partire da ciò, perché non è stabile. Noi siamo convinti del contrario: non c’è nulla da costruire su forme organizzative che ruotano su di sé, fuori dagli individui che ne fanno parte. Poiché presto o tardi, al primo contraccolpo, pioveranno scuse e sotterfugi. Il solo terreno su cui possiamo costruire è la ricerca reciproca di affinità.
Infine, vogliamo anche sottolineare che questo modo di organizzarsi ha l’ulteriore vantaggio di essere particolarmente resistente alle misure repressive dello Stato, perché non ha bastioni rappresentativi, strutture o nomi da difendere. Laddove formazioni cristallizzate e di grandi organizzazioni possono essere smantellate quasi d’un colpo per il fatto stesso d’essere piuttosto statiche, i gruppi d’affinità restano agili e dinamici anche quando la repressione colpisce. Siccome i gruppi d’affinità si basano sulla conoscenza reciproca e sulla fiducia, i rischi d’infiltrazione, di manipolazione e di delazione sono molto più limitati che nelle grandi strutture organizzative a cui le persone possono aderire formalmente o nei vaghi ambienti in cui basta riprodurre certi comportamenti per far parte del club. L’affinità è una base assai difficile da corrompere, proprio perché parte dalle idee ed evolve anche in funzione di esse.
Organizzazione informale e progettualità
Siamo del parere che gli anarchici abbiano maggiore libertà di movimento e di autonomia per intervenire nella conflittualità se si organizzano in piccoli gruppi basati sull’affinità, piuttosto che in grandi formazioni o in forme organizzative quantitative. Beninteso, è auspicabile e spesso necessario che questi piccoli gruppi riescano quanto meno ad accordarsi. Non per trasformarsi in moloch o falange, ma per realizzare scopi specifici e condivisi. Questi scopi determinano allora l’intensità della cooperazione, dell’organizzazione. Non è escluso che un gruppo di affini organizzi da solo una manifestazione, ma in molti casi un coordinamento fra diversi gruppi potrebbe rivelarsi auspicabile e necessario per realizzare questo obiettivo specifico, radicato nel tempo. La cooperazione potrebbe anche essere più intensa nel caso di un progetto di lotta concepito più sul medio termine, come per esempio una lotta specifica contro una struttura del potere (la costruzione di un centro di identificazione, di una prigione, di una centrale nucleare…). In questo caso, si potrebbe parlare di organizzazione informale. Organizzazione, perché si tratta di un coordinamento di volontà, mezzi e capacità fra differenti gruppi di affini e individualità che condividono un progetto specifico. Informale, perché non si tratta di promuovere un nome qualsiasi, di rafforzare quantitativamente l’organizzazione, di aderirvi formalmente o di sottoscrivere qualche programma o dichiarazione di principio, ma di un coordinamento agile e leggero per rispondere ai bisogni del progetto di lotta.
In un senso, l’organizzazione informale si trova anche sul campo dell’affinità, ma essa supera il carattere interindividuale. Esiste solo in presenza di una progettualità condivisa. Una organizzazione informale è dunque direttamente orientata verso una lotta, non potendo esistere staccata da questa. Come dicevamo prima, serve a rispondere a determinate esigenze di un progetto di lotta che non possono affatto, o difficilmente, essere sostenute da un singolo gruppo d’affinità. Essa può per esempio consentire di mettere a disposizione i mezzi che si reputano necessari. L’organizzazione informale non ha quindi lo scopo di raggruppare tutti i compagni dietro la stessa bandiera o di ridurre l’autonomia dei gruppi d’affinità e delle individualità, ma di far dialogare questa autonomia. Essa non è la scappatoia per fare tutto assieme, ma è uno strumento per dare corpo e anima ad un progetto comune, attraverso gli interventi particolari dei gruppi di affini e delle individualità.
Cosa significa avere un progetto? Gli anarchici vogliono la distruzione di ogni autorità, si può quindi supporre che essi siano di continuo alla ricerca di modi per farlo. In altri termini, si può di sicuro essere anarchici e attivi in quanto tali senza un progetto specifico di lotta. D’altronde è ciò che accade di solito. Sia che gli anarchici seguano più o meno le direttive delle organizzazioni alle quali appartengono (cosa che sembra essere più relegata al passato), sia che essi attendano l’arrivo di conflitti a cui partecipare, o tentino di far rientrare quanti più aspetti anarchici è possibile nella loro vita quotidiana. Nessuna di queste attitudini presume la presenza di una vera progettualità — cosa che, sia chiaro, non rende ovviamente questi compagni meno anarchici. Un progetto è per contro basato su un’analisi del contesto sociale, economico e politico in cui ci si trova, da cui si distilla una prospettiva che permetta di intervenire nel breve e medio periodo. Un progetto racchiude quindi un insieme di analisi, idee e metodi, coordinati per raggiungere uno scopo. Possiamo ad esempio pubblicare un giornale anarchico perché siamo anarchici e vogliamo diffondere le nostre idee. Bene, ma un approccio più progettuale esigerebbe un’analisi delle condizioni nelle quali una pubblicazione con un certo taglio venga ritenuta adatta per intervenire nella conflittualità. Possiamo decidere di lottare contro le deportazioni, contro il deterioramento delle condizioni di sopravvivenza, contro il carcere… perché tutte queste cose sono semplicemente incompatibili con le nostre idee; sviluppare un progetto necessiterebbe un’analisi per comprendere dove un intervento anarchico sarebbe più interessante, quali metodi utilizzare, come poter pensare di dare impulso o intensificare una tensione conflittuale in un dato lasso di tempo. Va da sé che simili progetti sono spesso l’occasione di una organizzazione informale, di un coordinamento fra differenti gruppi e individualità anarchiche.
L’organizzazione informale non può quindi essere fondata, costituita o abolita. Essa nasce in modo del tutto naturale secondo i bisogni di un progetto di lotta e scompare quando questo progetto viene realizzato o quando si valuta che non è più possibile o adeguato cercare di realizzarlo. Essa non coincide con l’insieme della lotta in corso: le tante forme organizzative, i diversi luoghi di incontro, le assemblee, ecc. prodotti da una lotta esisteranno indipendentemente dall’organizzazione informale, il che non vuol dire che gli anarchici non possano anche essere presenti.
Gli «altri»
Ma fin qui abbiamo parlato soprattutto delle forme organizzative fra anarchici. Senza dubbio, numerose rivolte forniscono preziosi suggerimenti che mostrano paralleli con quanto abbiamo appena detto. Si pensi per esempio alle rivolte degli ultimi anni nelle metropoli. Numerosi ribelli si organizzano in piccoli gruppi agili. O pensiamo alle sommosse dall’altra parte del Mediterraneo. Non c’è stato bisogno di una forte organizzazione o di qualche rappresentanza degli sfruttati per scatenare quei sollevamenti, la loro colonna vertebrale era costituita dalle molteplici forme informali d’auto-organizzazione. Beninteso, con ciò non ci siamo espressi sul «contenuto» di quelle rivolte, ma senza forme organizzative piuttosto antiautoritarie, sarebbe del tutto impensabile che esse vadano in una direzione liberatrice e libertaria.
È ora di dire addio una volta per tutte ai riflessi politici, ancor più in questi tempi in cui le rivolte non rispondono (o non più) alle prerogative politiche. Le insurrezioni e le rivolte non devono essere dirette, né dagli autoritari, né dagli anarchici. Non chiedono di essere organizzate in qualche grande formazione. Ciò non toglie che il nostro contributo a tali avvenimenti, a fenomeni veramente sociali, non possa restare semplicemente spontaneo, se aspira ad essere un contributo qualitativo — esso richiede quindi una certa organizzazione e progettualità. Ma gli sfruttati e gli esclusi non hanno bisogno degli anarchici per rivoltarsi o insorgere. Noi possiamo essere tutt’al più un elemento supplementare, benvenuto o meno, una presenza qualitativa. Ma che nondimeno rimane importante, se vogliamo far aprire le rotture insurrezionali in un senso anarchico.
Se gli sfruttati e gli esclusi sono perfettamente capaci di rivoltarsi senza gli anarchici e senza il loro concorso, non per questo siamo pronti a rinunciare a cercare dei punti e un terreno in cui si possa lottare insieme con loro. Questi punti e terreni non sono conseguenze «naturali» o «automatiche» delle condizioni storiche. L’incontro fra gruppi d’affinità, come l’organizzazione informale degli anarchici e degli sfruttati che sono disposti a lottare, avviene meglio nella lotta stessa, o almeno in una proposta di lotta. La necessità di diffondere ed approfondire le idee anarchiche è innegabile e in nessun momento bisognerebbe nasconderle, relegarle nelle retrovie o camuffarle in nome di una qualsivoglia strategia, ma in un progetto di lotta insurrezionale non si tratta di convertire quanti più sfruttati ed esclusi alle proprie idee, quanto piuttosto di rendere possibili esperienze di lotta con la metodologia anarchica e insurrezionale (attacco, auto-organizzazione e conflittualità permanente). A seconda delle ipotesi e dei progetti, occorre effettivamente riflettere sulle forme organizzative che può assumere questo incontro fra anarchici e coloro che vogliono lottare su una base radicale. Queste forme organizzative non possono certamente essere delle costellazioni esclusivamente anarchiche, visto che altri ribelli vi partecipano. Esse non sono quindi di supporto per «promuovere» l’anarchismo, ma hanno lo scopo di dare forma e sostanza alla lotta insurrezionale.
In alcuni testi, redatti a partire da una serie di esperienze, si parla di «nuclei di base» formati nell’ambito di un progetto specifico di lotta, di forme organizzative basate sulle tre caratteristiche fondamentali della metodologia insurrezionale. Gli anarchici vi prendono parte, ma insieme ad altri. In un certo senso, sono soprattutto punti di riferimento (non dell’anarchismo, ma della lotta in corso). Funzionano un po’ come polmoni della lotta insurrezionale. Quando questa lotta è intensa coinvolge molte persone, che diminuiscono quando la temperatura ridiscende. La denominazione di tali forme organizzative ha ovviamente poca o nessuna importanza. Si tratta di scorgere, nell’ambito di certi progetti di lotta, se simili forme organizzative sono immaginabili e necessarie. Bisogna inoltre sottolineare che non si tratta di collettivi, di comitati, di assemblee di quartiere, ecc. formati ancor prima e che hanno di solito lo scopo di durare, la cui composizione è raramente antipolitica e autonoma (vista la presenza di elementi istituzionali). I «nuclei di base» si formano all’interno del progetto di lotta e non hanno che uno scopo concreto: attaccare e distruggere un aspetto del dominio. Non sono quindi organizzazioni parasindacali che difendono gli interessi di un gruppo sociale (dei comitati di disoccupati, delle assemblee di studenti…), ma occasioni organizzative orientate verso l’attacco. Le esperienze di auto-organizzazione e di attacco non garantiscono ovviamente che in una prossima lotta gli sfruttati non accolgano o non tollerino più elementi istituzionali. Ma senza quelle esperienze, questo genere di reazione sarebbe pressoché impensabile.
Per riassumere, a nostro avviso non si tratta di costituire delle organizzazioni per «attirare le masse» o per organizzarle, ma di sviluppare e mettere in pratica proposte concrete di lotta. All’interno di queste proposte di lotta, dal carattere insurrezionale, bisogna quindi riflettere sulle forme organizzative ritenute necessarie e adeguate per realizzare la proposta d’attacco. Sottolineiamo ancora che queste forme organizzative non implicano per forza delle strutture con riunioni, luoghi di incontro, ecc., ma che esse possono anche nascere direttamente nella strada, nei momenti di lotta. In certi luoghi ad esempio può essere più facile creare dei «punti di riferimento» o dei «nuclei di base» con altri sfruttati interrompendo la routine, innalzando una barricata in strada… piuttosto che attendere che tutti vengano ad un appuntamento per parlare della possibilità di una barricata. Questi aspetti non possono essere lasciati totalmente al caso e alla spontaneità. Una progettualità permette di rifletterci sopra e di valutare le differenti possibilità e la loro pertinenza.
In breve
Se la questione non è più come organizzare le persone per la lotta, essa diventa come organizzare la lotta. Pensiamo che degli arcipelaghi di gruppi di affinità, indipendenti gli uni dagli altri, che possono associarsi secondo prospettive condivise e progetti concreti di lotta, costituiscano la maniera migliore per passare direttamente all’offensiva. Questa concezione offre la più grande autonomia e il più ampio campo d’azione possibile. Nell’ambito di progetti insurrezionali, è necessario e possibile trovare modi di orga nizzarsi informalmente che permettano l’incontro fra anarchici e altri ribelli, forme organizzative non destinate a perpetuarsi, ma orientate verso uno scopo specifico e insurrezionale.
[Salto -subversion & anarchie-, n. 2, Bruxelles, novembre 2012]