Un colpo al cerchio, uno alla botte

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Gianfranco Bertoli

Non vi enuncerò certo una grande scoperta, né dirò qualcosa di molto nuovo, dicendovi di essere convinto che una delle cause del perpetuarsi di forme di convivenza sociale gerarchizzate e fondate sull’autoritarismo (nonché non solo delle difficoltà di diffusione delle idee anarchiche, ma anche di, talvolta gravi, errori di valutazione delle situazioni reali in cui si opera, in cui anche gli anarchici come individui e come Movimento, spesso cadono,) possa venir individuata nella assuefazione di massa, interiorizzata a livello individuale, a subire adeguandosi il conformismo intellettuale e politico, con la conseguente disponibilità a far proprie le opinioni dominanti e a ragionare facendo uso di schemi logici e di chiavi di interpretazioni della realtà forniti belli e pronti dalla cultura e dalle ideologie predominanti e, come tali, proprie e funzionali alla casta dei padroni.

Riuscire a sottrarsi all’influenza dei condizionamenti sociali è sempre stato difficile ed ancor più lo è oggi, quando l’arte e le tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica e delle coscienze individuali, hanno raggiunto vertici di perfezionamento quasi ottimali.
Personalmente mi è, spesso, accaduto, al momento di riprendere in esame avvenimenti sui quali mi ero fatto una certa opinione ed ero arrivato ad esprimere un giudizio, di dovermi rendere conto che ero caduto nella trappola psicologica del potere confondendo l’apparenza mistificata e fittizia con la realtà con il risultato di arrivare a conclusioni e convinzioni sbagliate e devianti. Così quando nel luglio dello scorso anno, mi sono trovato afferrato dall’ingranaggio di quell’autentico “arcipelago gulag” versione italiana, che è costituito dalle nuove “supercarceri” del super secondino, della repubblica (“democratica” “antifascista”, “partorita dalla resistenza” ecc. ecc.), generale della “benemerita” e residuato di guerra delle “camice nere”, Carlo Alberto Dalla Chiesa, la mia prima reazione di fronte a quello che mi era capitato ed alla allucinante atmosfera in cui mi trovai immerso fu quella di considerare ed etichettare tutto come “controriforma”.
Mi convinsi addirittura, impressione questa d’altra parte abbondantemente suggerita dall’ipertrofico e grottesco apparato militare mobilitato per le traduzioni (per trasportarci in dieci dal carcere di Porto Azzurro a quello di Cuneo si impiegarono non meno di un centinaio di carabinieri, con cani, corpetti antiproiettile, elicottero dell’esercito, furgoni corazzati, ecc. ecc.), che si stesse realizzando un vero e proprio “mini golpe” controriformista.
Oggi, a distanza di qualche mese, considero la mia prima impressione come del tutto superficiale e sbagliata. Vedere infatti, in quell’operazione l’attuazione di una “controriforma” significa attribuire alla precedentemente emanata legge di riforma penitenziaria un significato e un valore che non ha. Rappresenta un modo di cadere nell’equivoco di prendere per buone le immagini deformate dalla realtà politico-sociale che ci vengono proiettate attraverso i “mass-media” del sistema per indurci ad un coinvolgimento, se non altro emotivo, nella logica mistificante del gioco politico e dei suoi equilibrismi di potere.
Significa credere possibile l’esistenza, all’interno di una oppressione sociale (che, se può apparire diversificata ed è in effetti multiforme perché attualmente cogestita ed in via di trasformazione, è unica e totalitaria), di una dicotomia ed una contrapposizione tra un potere “buono” e uno “cattivo”.
Malgrado le apparenze, “riforma” e “arcipelago Dalla Chiesa” non si contraddicono e non sono che due facce di un medesimo progetto di ristrutturazione dell’istituzione carceraria. Progetto che è, a sua volta, integrato in una più vasta operazione intesa rafforzare razionalizzandolo un sistema di gestire lo sfruttamento economico ed il dominio politico che stava rivelando contraddizioni ed obsolescenze in ragione ed a causa del processo di trasformazione tecnoburocratica della società tardo-capitalista. Anche se ciò può non apparire evidente a prima vista, sia la “riforma penitenziaria” sia l’attuale “giro di vite” perseguono lo stesso fine che è quello di un rafforzamento del potere dello Stato, attraverso il tentativo di assicurarsi il grado di consenso più elevato ed esteso che sia possibile all’azione di potenziamento e perfezionamento dell’apparato e dei metodi di repressione.
La riforma carceraria del 1975 non ha origine, come si è fatto credere, dalla volontà di venire incontro alle aspirazioni della popolazione detenuta, né da propositi di umanizzazione del sistema penale, ma dalla esigenza dello Stato di disciplinare e riorganizzare un settore delle sue istituzioni che stava crollando a causa della sua inadeguatezza ad affrontare le situazioni nuove che doveva fronteggiare. Per questo si è provveduto ad emanare un provvedimento legislativo idoneo, per le sue ambiguità, la profusione di affermazioni demagogiche, certe concessioni, a venire accolte senza proteste, ed anzi con soddisfazione, dai detenuti stessi.
Ci si trovava, per lo Stato, in una situazione paradossale, quella di una istituzione che per definizione ha lo scopo di punire i trasgressori di leggi e regolamenti, che ha il compito di controllare e disciplinare gli incontrollabili, gli indisciplinati, i ribelli all’ordine sociale e che non ha essa stessa un “regolamento” preciso ed univoco su cui reggersi. Si è detto che si trattava di riformare il vecchio regolamento fascista del 1931 ma si è dimenticato di dire che questo “regolamento”, di fatto non esisteva più.
Se nel cercare di capire i veri scopi della “Riforma” soffermeremo la nostra attenzione su quei punti che furono vantati come maggiormente qualificanti in senso progressista ed umanitario, e cioè l’introduzione di istituti quali la “semi-libertà”, l’affidamento al servizio sociale, la possibilità di brevi permessi da trascorrere fuori, la decurtazione di quaranta giorni all’anno, la remissione del debito relativo alle spese processuali, non sarà difficile rendersi conto di come tutti questi “benefici” (per l’ottenimento dei quali è prescritta la “conditio sine qua non” della dimostrata volontà di ravvedimento e la “collaborazione” all’opera di rieducazione), siano stati concepiti per poter servire da strumenti di sottomissione e per poter ricattare e spingere l’uno contro l’altro i detenuti.
Vennero per esempio autorizzati gli orologi e venne concesso l’uso del telefono. Si incominciarono ad elargire licenze con una certa liberalità. Chi non la otteneva subito si sentiva raccomandare di avere pazienza e gli veniva promessa come sicura per il futuro. Questo periodo vide crearsi antipatie e gelosie tra detenuti e vide molti diventare servili e striscianti, in qualche caso perfino delatori. Venne poi, com’era prevedibile e forse programmato, il momento in cui si cominciò a far marcia indietro. Il potere aveva realizzato la prima parte dell’operazione, era riuscito a mostrare magnanimità e buone intenzioni e si era assicurato complicità e consensi.
A questo punto si limitò al massimo la concessione delle licenze e si limitò l’uso del telefono, il tutto venne motivato col mancato rientro di alcuni detenuti, con l’uso del telefono che qualcuno avrebbe fatto per organizzare crimini, più in generale con l’aumento della criminalità e la difficile situazione dell’ordine pubblico.
Il risultato psicologico ottenuto fu duplice, perché fu tale da suscitare in molti che si erano illusi una rabbia innaturale cioè non più per la loro condizione di prigionieri ma per la delusione di non aver visto premiato il loro “buon comportamento” ed inoltre questo rancore si prestava a venir deviato indirizzandolo verso coloro che venivano additati come responsabili: i detenuti “cattivi” che col loro comportamento avrebbero danneggiato anche i “buoni”.
Era giunto il momento per far scattare l’operazione “carceri sicure”. Questa operazione, studiata e programmata da tempo, venne realizzata con l’attivazione (e a tempo di record e con disponibilità di mezzi pressoché illimitata) di un certo numero di penitenziari realizzati per la custodia ed il “trattamento” di quei detenuti che (per il fatto di avere idee politiche, o per essere stati ritenuti poco disposti alla sottomissione, o per varie altre ragioni) sono stati qualificati come dei “cattivi soggetti” e per i quali oltre a ritenere conveniente un trattamento particolarmente rigido, si ritiene sia raccomandabile che vengano allontanati dai “buoni” che potrebbero venirne influenzati.
L’istituzione all’interno dell’universo carcerario di un ulteriore stadio di ghettizzazione per i detenuti speciali, assolve nei confronti degli altri detenuti una doppia funzione: quella cioè di deterrente psicologico consistente nella paura di poter finire in carcere speciale e di, paradossalmente, generatore di consenso, in quanto il fatto di non esservi stato assegnato gli fa considerare la sua posizione come privilegiata. Triste privilegio, questo, che consiste nel non essere sottoposti ad una pena peggiore! E, per di più precario, perché basta un nonnulla per perderlo, venir classificato “cattivo” e venir trasferito in un “supercarcere”.
Quanto a quali siano le condizioni di vita all’interno di questi posti credo superfluo dilungarmi ora in una descrizione dettagliata. Ciò prima di tutto perché se n’è già parlato un po’ su tutti i giornali e come queste “supercarceri” siano organizzate più o meno lo si sa, non potrei quindi che ripetere cose già dette da altri, poi perché una descrizione anche perfetta non sarebbe di grande utilità. È infatti difficile, anzi impossibile, poter far capire a chi non si sia trovato a subire di persona il peso della condizione di detenuto in un carcere “speciale”, quanto soffocante sia questa condizione. Vi sono mille piccole cose che messe là in fila e raccontate possono apparire di poca importanza e che vissute hanno un effetto distruttivo sulla personalità che è incredibile.
Come poter spiegare cosa vuol dire per quelli che vanno ad un colloquio con una moglie, una madre, dei figli, che magari per poter arrivare fino a qui hanno dovuto affrontare un viaggio di centinaia di chilometri, doverli vedere per una mezz’ora attraverso un vetro e poterci parlare solo attraverso un citofono! Come poter far capire cosa voglia dire per un detenuto essere continuamente osservato, controllato anche al cesso, non poter neppure spostare il letto perché è fissato sul pavimento, dover per mangiare, far uso di ridicole posate di plastica da “picnic”, dover ogni giorno per andare all’aria passare attraverso una doppia fila di guardie e per il resto del tempo (21 ore al giorno) restare chiuso da solo in uno spazio di pochi metri, senza che sia consentito neppure di tentare di personalizzare la cella incollando sul muro una cartolina, non avere la possibilità di un lavoro?
Non è un caso che il feldmaresciallo Dalla Chiesa quando accettò il suo incarico che, a quanto si diceva all’inizio, doveva limitarsi alla “sorveglianza esterna”, abbia preteso di aver voce in capitolo e potere decisionale anche sull’ordinamento interno delle sue carceri. D’altra parte, fermi restando ai principi guida generali ispiratori del trattamento riservato agli ospiti delle “supercarceri”, sono riscontrabili talune varianti nelle modalità di applicazione.
Difficile è per me, allo stato attuale della situazione e della mia esperienza (ho finora conosciuto solo questo posto e degli altri so solo quello che mi è stato raccontato) poter azzardare un’ipotesi esplicativa di ciò. Potrebbe trattarsi di differenze di trattamento programmato “in alto loco” al fine di esperimentare anche nelle sfumature quali tecniche repressive siano da privilegiare come le più efficaci.
Così come potrebbe spiegarsi col fatto che, posti di fronte ad una situazione per loro nuova, molti dirigenti di istituto siano talvolta incerti sulla esatta interpretazione delle disposizioni ricevute. Un’altra ipotesi potrebbe essere quella che piano piano, si intendano strutturare queste prigioni con livelli di durezza e di privazioni diversi e graduati così da introdurre anche in questo piccolo mondo i principi del “merito”, del “premio” e del “castigo”. Naturalmente queste non sono che alcune ipotesi, mille altre se ne potrebbero fare. Chi vivrà vedrà.
Egualmente solo ipotesi posso avanzare sul fatto che qui (in altre supercarceri non so), non solo da qualche tempo non vi sono più stati “pestaggi” ma il comportamento degli agenti è divenuto molto meno arrogante dei primi tempi. Ora se ci si pone nell’ordine di idee di considerare possibile che certe violenze, più che di precisi ordini superiori fossero il frutto di eccesso di zelo di certe guardie e del desiderio di queste di cogliere l’occasione per sfogare il loro sadismo, allora è possibile attribuire l’accettazione di questa pratica come originata da interventi della direzione o di magistrati anche in considerazione di alcune denunce presentate da detenuti e della circostanza che in occasione dello sciopero della fame venne, tra i motivi di lagnanza e le richieste scritte presentate, inserita la questione dei “pestaggi”.
Qualora, invece, anche le violenze facessero parte di un preciso piano ed obbedissero a disposizioni superiori (ufficio dodicesimo, gen. Dalla Chiesa) sarebbero possibili varie interpretazioni e conseguenti previsioni per i futuri sviluppi. Nel caso, comunque, che un elevato grado di violenza iniziale fosse stato predisposto a fini intimidatori e dimostrativi, per prevenire ribellioni e proteste, potremmo prevedere che, anche nelle altre “supercarceri”, gli atti di violenza gratuita tenderanno a rarefarsi e dedurne che per l’annientamento della personalità del detenuto si intende confidare sugli effetti a lungo termine di un regime di detenzione in cui alla monotonia e stupidità di certe prescrizioni, alla ripetitività dei gesti si aggiungono gli effetti deleteri di un isolamento quasi continuo e del senso di insicurezza permanente per i frequenti spostamenti di cella e di sezione (decisi spesso dai carabinieri anche all’interno del carcere) dai trasferimenti sempre improvvisi ed a ore impensabili.
     Non è improbabile poi che si sia progettato di attuare un trattamento tipo “doccia scozzese”, così ad un periodo di particolare violenza si alternerebbe un periodo di attenuazione della durezza e, magari, di moderati miglioramenti, per poi, improvvisamente (e quindi con maggiore efficacia psicologica) e creando magari il pretesto, reintrodurre l’uso di frequenti pestaggi, e così via. Molto probabile è poi, dato che è già stato preannunciato che il periodo di permanenza in carcere speciale è previsto come limitato e (sotto pretesto di evitare il formarsi di contatti) si dovrà poi essere trasferiti in un altro, che al momento dell’arrivo nel nuovo carcere sia sempre riservato un trattamento “brusco”, destinato man mano ad attenuarsi, per poi ripetersi col prossimo trasferimento.
Cari compagni, non ho certo la pretesa di aver trattato esaurientemente un argomento tanto complesso. Ho solo avanzato alcune ipotesi che propongo alla vostra valutazione.


Fonte: Gianfranco Bertoli,  Un colpo al cerchio, un colpo alla botte.
Tratto da Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.
Originariamente pubblicato su A Rivista anarchica del marzo 1978, n. 63, con il titolo: Dal carcere di Cuneo.