La rivoluzione non è una questione di classe

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L’esame e la considerazione di certe attitudini demagogiche, come quella che implica la parola d’ordine dei bolscevichi sull’unità del proletariato, ci hanno condotto, noi anarchici, di nuovo in faccia d’una questione punto facile a risolversi: l’idea delle classi e della lotta di classi. Noi non abbiamo dato alcuna soluzione teorica fondamentale a questo problema; non abbiamo fatto altro che mettere in dubbio la concezione marxista, criticarne le basi e, forse, preparare il terreno a qualcuno dei nostri che un giorno s’occupi seriamente del soggetto dal punto di vista libertario.

Costi quel che costi alla nostra divergenza naturale con la dottrina marxista, dobbiamo riconoscere che molte delle nostre idee correnti procedono da Marx, al quale – pur negandogli certe qualità morali fondamentali ed attribuendogli smisurate ambizioni autoritarie – non possiamo togliere il merito d’aver creato un sistema sociale alla tedesca, cioè accuratamente elaborato, con una risposta per ogni domanda e una teoria per ogni atteggiamento.
I primi anarchici accettarono le dottrine economiche di Marx molto prima che apparissero i marxisti; ma, come ha detto Malatesta, se non c’inganniamo, questo fu dovuto al fatto che non rimaneva tempo a trattar queste questioni da loro stessi. Gli anni son passati, il marxismo, nella sua parte politica, fu totalmente estirpato nell’ambiente anarchico; mentre le sue impronte rimangono nelle affermazioni economiche, e se si può con esse transigere finché la realtà non reclama posizioni definite e chiare o risposte concrete, il momento arriva in cui noi notiamo delle contraddizioni e in cui sentiamo la necessità di attenerci alle nostre idee e di subordinare il marxismo alla concezione libertaria della rivoluzione e della vita sociale.
L’idea di classe, nella nostra opinione, contraddice i principi sostenuti dall’anarchismo. Noi crediamo di vedere in essa l’ultimo rifugio dell’autoritarismo; noi ci vantiamo di aver rimosso l’influenza dei partiti politici dal movimento operaio, ma lasciando fomentare l’idea di classe prepariamo il terreno ad un nuovo dominio. A questo è servito meravigliosamente il sindacalismo. I sindacalisti, anche quelli che si pretendono libertari, vedono il mondo attraverso il prisma unilaterale che mette una classe di fronte all’altra; essi si sono creati un’idea fissa di sfruttatori e di sfruttati, di capitalisti e di salariati, e invece di confermare con l’esame della vita reale il contenuto di quest’idea, l’esistenza dell’omogeneità delle classi in lotta, fanno l’operazione contraria.
Se ciascuno di quelli che militano e occupano il loro posto nella lotta sociale e rivoluzionaria si domanda perché agisce in un dato modo, non risponderà come membro d’una classe sociale, ma come partigiano di un’idea. Quando intraprendiamo un’azione contro i capitalisti o contro lo Stato, lo facciamo più per le nostre concezioni di giustizia, d’uguaglianza e di libertà che come membri d’una classe economica. La miseria individuale o collettiva può essere uno stimolante alla ribellione, alla considerazione dei mali attuali, alla ricerca dei rimedi, cosa che non facciamo come operai, ma come uomini. I riformisti corporativisti e marxisti hanno fatto tutto il possibile perché il pensiero dei lavoratori sia in accordo col mestiere che esercitano e non col loro stato di uomini.
Inoltre la vita quotidiana ci offre uno spettacolo che è tutto il contrario della lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori; la lotta che noi osserviamo è quella degli sfruttati contro… se stessi; rarissimamente i privilegiati sono ricorsi all’azione diretta, e si servono generalmente dell’ignoranza, della miseria ecc., del subordinato per difendere le proprie posizioni e piazzare uno sfruttato in faccia all’altro.
I sindacalisti dicono: «tutti i lavoratori, tutti i salariati devono unirsi per la lotta comune contro il comune nemico, il capitalista; gli interessi di tutti i lavoratori sono gli stessi, tutti i lavoratori sono fratelli!».
Noi dubitiamo che l’interesse dello scioperante sia identico a quello del crumiro, che l’interesse del salariato operaio sia uguale a quello del salariato gendarme, o che l’interesse del lavoratore rivoluzionario sia pari a quello del lavoratore cristiano; lungi dal constatare l’esistenza di linee generali di lotta comune fra i salariati noi notiamo la più grande divisione, e anarchici noi non dovremmo combattere questa divisione (la quale sarà come si vedrà altrettanto artificiale e inconsistente) in nome di supposti interessi di classe comune, ma nel nome degli interessi umani. Noi non dovremmo ripetere, come i sindacalisti, «tutti i lavoratori sono fratelli!», ma «tutti gli uomini sono fratelli!», perché l’idea di classe contiene implicitamente l’idea di dominio di classe. È certo che i combattenti della rivoluzione sociale appartengono, sono appartenuti e apparterranno quasi esclusivamente alle masse lavoratrici; è comprensibilissimo che la parte ribelle della società sia quella che soffre, ed è ugualmente comprensibile che sia la parte della società che soffre dello sfruttamento e del dominio, ad aspirare, ad essere capace di aspirare alla soppressione di questi mali fondamentali per tutti. Ciò non ci autorizza però a proclamare che la rivoluzione è una questione di classe, che la soluzione dei problemi della vita sociale sia secondo i punti di vista d’una parte della società che pensa come tale e non come frazione dell’umanità. Sinora la storia ci ha dato bastanti esempi di questo esclusivismo di razza, di casta, di dinastia, di partito. L’anarchismo patirebbe la più grande disfatta se stimolasse gli uomini a pensare come meccanici o come contadini, come salariati o come negri e non come uomini; al disopra del mestiere, della razza, del colore si trova l’umanità.
Si è troppo trascurato l’apprezzamento dal valore delle idee nella vita sociale mentre gli uomini sono separati o uniti più dalle idee o dalla mancanza di idee, che dalla nazionalità, dal mestiere, dal colore. La pretesa dei sindacalisti (appoggiata da qualche anarchico) di misurare gli uomini dal lavoro e da ciò che pensano, ci è sempre sembrato un grande assurdo. Se il sindacato ha una missione più elevata che quella di mantenere un segretario stipendiato, se ha un’intenzione di lotta per una società più equa, quando agirà constaterà conflitti senza fine e dovrà riconoscere che fra lavoranti d’uno stesso mestiere son le idee che determinano la condotta degli individui: il cristiano considererà la ribellione come un crimine, perché il suo scopo è di conquistare un posto in cielo e non in terra; il marxista vorrà evitare i terribili momenti d’un urto col salariato poliziotto o coi soldati dell’esercito e preferirà affidare la missione di difendere i suoi interessi a un rappresentante parlamentare. Gli anarchici non potranno transigere né con la rassegnazione cristiana né con la panacea marxista. Vediamo quindi che l’armonia dei lavoratori sindacati d’una corporazione cessa nel momento in cui si voglia fare più che pagare le quote e mantenere il segretario stipendiato.
I sindacalisti dicono anche che i lavoratori devono unirsi in base agli interessi di classe; non sappiamo di qual classe d’interessi si tratti, perché non è tanto facile immaginarsi di definire ciò che una classe è. Certo si è che non conosciamo interessi che non siano legati ad idee rispettive e non si può parlare d’interessi senza tener conto delle idee che essi suscitano o di quelle che li hanno fatti nascere. È possibilissimo che in qualcuno l’idea di giustizia nasca dall’interesse per il giusto, ma è anche vero che l’interesse per il giusto può nascere dall’idea di giustizia. Cioè, la libertà, per esempio, può nascere dall’interesse per la vita libera, ma essa può essere anteriore e indipendente anche da questo interesse. Non amiamo il bene solo quando questo è unito a un interesse, l’amiamo anche quando è pregiudizievole ai nostri interessi.
Noi non abbiamo mai creduto alla logica delle associazioni rivoluzionarie basate sugli interessi e non abbiamo potuto concepire che si facesse astrazione delle idee, senza le quali qualunque associazione è artificiale.
L’idea di classe esclude naturalmente l’azione delle idee nella vita delle collettività; l’idea di classe fomenta il determinismo storico, il fatalismo marxista; essi sono inseparabili. E se noi siamo convinti che la classe lavoratrice non è chiamata fatalmente a rimpiazzare la classe borghese o a muoversi in alcun senso, noi dobbiamo far entrare nel movimento sociale un nuovo fattore: la volontà umana; e se accettiamo la volontà umana nel movimento sociale, non potremo affermare che la rivoluzione sia un affare esclusivo di questa o di quella classe, perché non verificheremmo l’esistenza di questa volontà attraverso un prisma unilaterale di partito o di frazione economica. Nel secolo scorso si credeva ai Popoli-Messia; i sindacalisti hanno escogitato la leggenda delle Classi-Messia. Noi anarchici vediamo le cose da un punto di vista più vasto, ed affermiamo che la rivoluzione che deve apportare la libertà e l’eguaglianza non può essere fatta nel nome d’una classe ma nel nome dell’umanità, benché fermamente convinti che essa sarà realizzata quasi esclusivamente dai lavoratori rivoluzionari.
Protestiamo contro i sindacalisti che dicono che la rivoluzione è una questione di classe per la stessa ragione che protestiamo quando i bolscevichi o i social-democratici affermano ch’essa è una questione di partito, del loro proprio partito.
Abbiamo visto la dittatura del proletariato diventare in ultima analisi la dittatura di Lenin. Se l’esperimento sindacalista si farà un giorno noi vedremo che l’idea di classe si limiterebbe ai lavoratori sindacati, e, più, alle commissioni esecutive, e, più ancora, ai più abili, ai più astuti di queste commissioni esecutive. E come Lenin avrebbe potuto dire: «la dittatura del proletariato son io», noi potremo vedere un qualunque sindacalista dire: «la classe son io!».
Vi fu, nel 1908, sulle colonne della Protesta (Buenos Aires) una polemica interessante sulla questione delle classi; i principali protagonisti furono E.G. Gilimon, uno dei cervelli  solidi che siano passati nella redazione del vecchio quotidiano anarchico, e Antonio Loredo, allora redattore de L’Azione Operaia di Montevideo. Sarebbe interessante rileggere gli argomenti di quella polemica. Gilimon espone in quella occasione le idee che abbiamo di nuovo visto sulla Protesta una dozzina d’anni più tardi e che meriterebbero un’ancor più ampia discussione.
L’idea di classe non può soddisfare gli anarchici e noi vorremmo soltanto attirare l’attenzione dei compagni su ciò, e se ci manca un Marx che l’esamini dal punto di vista libertario, potremmo sostituire l’assenza d’un teorico col nostro sforzo comune.

[da L’Adunata dei Refrattari, anno IV, n. 36 del 5-9-1925]