L’inferno è lastricato di buone intenzioni

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Crociate umanitarie all’alba del terzo millennio

In questo mondo alla rovescia vorrebbero farci credere che alcune anime belle umanitarie si dedichino con tutte se stesse per dar sollievo alla miseria dei più miseri. Se ci degnassimo di dar loro qualche obolo potremmo dormire fra due guanciali, dato che quei professionisti della buona azione si impegnerebbero al nostro posto. Qualche euro e il cittadino soddisfatto di sé potrà fare ritorno ai suoi piccoli affari. Riciclando la questua alla fine della messa che nutre prima d’ogni cosa la buona coscienza del fedele, le organizzazioni non governative ci sanno fare. Il loro marketing dell’empatia si basa su una retorica dell’urgenza che non lascia spazio a interrogativi sul senso delle cose, su ciò che non va, sui modi di affrontarlo. Così caritatevoli e così bene organizzate, bisogna farsene una ragione, esse gestiscono.

Ovvio che gestiscono. Ma cosa di preciso? La miseria, naturalmente! Quella degli altri, di quelli che sono percepiti soprattutto nel registro dell’alterità, allorché si scontrano in pieno con lo stesso mondo. L’umanitario si presenta come un tecnico che risponde a presunti «bisogni», tenendo sempre i suoi «aventi diritto» nel ruolo di vittime passive. Diciamolo senza fronzoli: l’umanitario non è là per sopprimere la miseria che intende affrontare. Anzi, vive su di essa e la perpetua. In questo mondo che non si fonda solo sul bastone ma anche sull’adesione volontaria o sul consenso passivo, l’umanitario serve né più né meno da garante per far accettare l’inaccettabile. Allora perché certi compagni si mostrano sempre così esitanti ad esprimere loro un qualche antagonismo? Perché farvi ancora riferimento come possibile risorsa in alcune delle nostre pubblicazioni?  Ne conosciamo il ruolo e la funzione autoritaria, però… all’interno c’è quel tale che «non è poi così male» e che in qualche caso potrebbe perfino dare più di una mano. Le critiche svaniscono davanti una persona e ai suoi servigi. Se è vero che ci possono essere individui sinceri all’interno delle organizzazioni umanitarie, è altrettanto vero che difficilmente restano a lungo in imprese che sfruttano senza vergogna la buona volontà dei loro dipendenti. Spesso le lasciano per ragioni vere, quelle che per l’appunto vengono affrontate di rado. Forse allora si potrebbe avviare una messa in discussione di quel che è l’umanitario in questo mondo, a partire dalla sua evoluzione, dalla sua funzione, dal suo spazio crescente, in modo un po’ più generale. Forse c’è una certa urgenza in materia, un’altra urgenza rispetto alla loro, l’urgenza della riflessione, l’urgenza di affinare le armi della critica quando il dominio diventa più complesso. Poiché ormai da una ventina d’anni l’umanitario si è notevolmente sviluppato, e non può più essere percepito alla stessa maniera. La foglia di fico iniziale ha assunto un posto e una dimensione che non è possibile occultare. Di più, si ha come l’intuizione che questo strumento del dominio faccia sistema.
Dietro la vernice umanitaria
La maschera della neutralità
Si sa, a partire dal XIX secolo e dal trattamento dei poveri, che ogni politica assistenziale è nel contempo uno strumento di controllo. La storia di questo vasto insieme che si indica col nome di umanitario non ha nulla di neutro. Le prime organizzazioni caritatevoli sono d’origine confessionale, con tutto ciò che questo comporta in termini di ipocrisia e di buona coscienza, di puritanesimo e d’igienismo, di morale e d’ordine.
Le organizzazioni non governative si sono gradualmente imposte sulla scena internazionale perché hanno saputo giocare sul sedicente principio di neutralità che le porrebbe al di sopra degli Stati, pur giurando loro in realtà la più devota fedeltà.
Sono state prima di tutto la Croce Rossa (1863) e poi altre organizzazioni caritatevoli (come Save the Children Fund dal 1919) fondate da membri dell’alta borghesia in accordo con le grandi potenze, ad essersi affermate intervenendo durante e dopo la prima guerra mondiale. Fin dall’origine, queste organizzazioni «non» governative hanno tessuto legami con imperatori, zar, presidenti, ministri e con la Società delle Nazioni affinché gli Stati condividessero il campo del trattamento dei feriti. Nel corso di quello che è stato uno dei più grandi massacri mondiali, questi caritatevoli così premurosi permetteranno ai macellai di vantarsi di compiere un «progresso» sociale attraverso un trattamento «umano» delle loro vittime.
In seguito alla seconda guerra mondiale, la Croce Rossa riuscirà persino ad ottenere dei «mandati umanitari», beneficiando così di diritti e prerogative accordati dagli Stati sui feriti, i prigionieri di guerra e una parte delle popolazioni civili (per cure ed aiuti alimentari). La sedicente indipendenza e neutralità della Croce Rossa sollevarono allora alcuni commenti irriverenti. E mentre le ONG nel corso degli anni 60 si rivolgono al «Terzo Mondo» e allo «sviluppo», una nuova generazione di organizzazioni si appresta a giustificare la sua apparizione sullo sfondo di queste critiche, personificata in Francia da Médicins sans frontières, Médecins du Monde, Aide médicale internationale, Action contre la faim o Handicap international.
Queste ultime, apparentemente più distanti nei confronti dell’ONU e dalle politiche pubbliche, in realtà sono ben lontane dall’essere organizzazioni «non» governative. Gli uomini girano. Come comprendere altrimenti il percorso di Bernard Kouchner, fondatore di Médicins sans frontières e poi di Médecins du Monde, membro di quasi tutti i governi socialisti dal 1988 al 2001, poi amministratore del Kosovo in qualità di rappresentante della comunità internazionale degli Stati, quindi ministro agli Affari esteri ed europei dei due governi Fillon, e parallelamente remunerato per le sue attività di consigliere alle imprese (la sua relazione contribuirà a discolpare Total in Birmania in merito al lavoro forzato) e ai governi stranieri (Congo o Gabon…)? Le passerelle non si limitano tuttavia solo a costui, ed hanno la loro importanza anche nelle missioni accordate a queste istituzioni umanitarie.
Costruito in apparenza a fianco delle politiche pubbliche, l’intervento umanitario si rivela così, in modo molto più strutturale di quanto si pensa di solito, assai vicino agli interessi degli Stati. Non si tratta di una logica che sarebbe stata deviata dal suo significato originario: queste organizzazioni, certo con coperture diverse, occupano spazi che gli Stati hanno voluto lasciare loro, e sono quindi da considerare né più né meno come «para-istituzionali». Fornitrici di servizi per il potere, quando non coprono con il proprio silenzio le atrocità perpetrate, possono permettersi al limite un’opposizione di facciata, tipo quelle che in particolare non danno fastidio. Esse non si troveranno mai dalla parte della contestazione dell’ordine esistente, se non per pacificarla.
Una finzione totalitaria
Ai piedi dei potenti, queste organizzazioni «non» governative propagano allo stesso modo una certa visione del mondo e dei rapporti sociali, e un modo di vedere e di fare in cui l’individuo sia completamente spossessato della sua capacità di agire, di riflettere, di sperimentare.
In questa finzione dell’umanitario, il mondo non è discutibile, bisogna solo gestirne le vittime. Il dissenso non esiste. La possibilità di emancipazione in rapporto a tutto ciò non è contemplata, né contemplabile. L’umanitario si basa su una certa concezione dell’individuo, o piuttosto del non-individuo, nel senso che non è né un essere pensante né un essere agente. Con la sofferenza come solo attributo, tutti coloro che si ritrovano presi in un dispositivo umanitario sono intercambiabili e vengono poi ritagliati nelle categorie dei «vulnerabili» che il mondo umanitario designa come suoi «aventi diritto».
Un insieme di organizzazioni, di reti, di agenti e di mezzi finanziari ripartiti fra i diversi paesi percorrono il mondo in qualità di araldi di una «causa superiore» come sedicente sola ragione d’essere. Tuttavia, questo messaggio non è quello della libertà, il suo opposto non è il dominio, ma la sventura delle «vittime», alcune delle quali potrebbero temporaneamente vedersi imporre un kit di «diritti» col pretesto di un universalismo in realtà a geometria variabile: le «vittime umanitarie» possono essere costrette a restare o a partire da un giorno all’altro e vedere modificata la propria condizione, perdendo o ottenendo il diritto di restare, secondo il troppo comprensibile benvolere delle organizzazioni internazionali e/o dei governi.
È per esempio l’obbligo imposto nel giugno 2003 ai liberiani e ai sierraleonesi di Conakry di iscriversi presso gli ACR [Alto Commissariato per i Rifugiati] per avere uno statuto ufficiale (che essi hanno richiesto con manifestazioni nella capitale della Guinea) affinché la caccia della polizia segnasse una pausa poi, qualche giorno dopo, l’annuncio del governo guineano immediatamente seguito da quello dell’ACR secondo il quale i rifugiati dovevano trasferirsi nei campi della regione forestale, a 600 km di distanza, altrimenti sarebbero stati considerati illegali e «presi con la forza». All’obbligo di andare nei campi per alcuni può seguire quello di partire per altri, come quei sierraleonesi installati da anni negli stessi campi guineani e rimpatriati non volontariamente nel contempo verso le loro regioni devastate da anni di conflitti e ancora infestate da miliziani, due anni dopo la fine ufficiale della guerra.
In tutte le tappe di questi percorsi, i rifugiati e trasferiti scoprono fianco a fianco i dipendenti e i veicoli bianchi delle agenzie Onu, dei caschi blu e delle organizzazioni non governative umanitarie. Strumenti di controllo quanto di pacificazione, la loro presenza serve a scoraggiare ogni rivolta e a bloccare per meglio contenere i movimenti incontrollati delle popolazioni potenzialmente pericolose per la stabilità degli Stati e per lo sfruttamento delle ricchezze locali.
Un mercato in piena espansione
Se il trucco umanitario con cui si imbelletta il dominio forse non è più un mistero, da una ventina d’anni questo settore ha conosciuto un tale sviluppo che la critica non può rimanere ferma.
A partire dagli anni 90, il mercato dell’aiuto urgente è letteralmente esploso in un contesto di «crisi» sovramediatizzate. Sempre più numerosi sono coloro che intervengono e si contendono sul campo una parte della torta. Al Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) e alle istituzioni umanitarie tradizionalmente presenti nelle situazioni di conflitto si sono infatti aggiunte le Ong, ma soprattutto determinati programmi delle Nazioni Unite. Il sistema Onu e suoi satelliti possono essere considerati una potenza umanitaria mondiale: nel corso dell’ultimo decennio, migliaia di persone sono state dispiegate su oltre 60 «teatri di intervento», migliaia di tonnellate di cibo distribuite, migliaia di campi per rifugiati e immigrati costruiti, e poi gestiti. Di volta in volta, Diyarbakir, Phnom Penh, Mogadiscio, Lokichokio, Sarajevo, Goma, Pristina, Dili, Banda Aceh sono diventate temporaneamente immense humanitaire lands colpite dalla febbre degli aiuti: impennata dei prezzi, aumento degli affitti, ingorgo di veicoli di lusso, su ogni spazio il logo delle loro organizzazioni impresso. La moltiplicazione dei programmi umanitari divora così caoticamente montagne di denaro assegnato all’urgenza e poi alla ricostruzione, fino a quando un nuovo dramma spingerà la nomenclatura internazionale dell’aiuto verso un nuovo epicentro.
In definitiva queste organizzazioni non hanno più nulla a che vedere con l’immagine che si poteva avere delle associazioni caritatevoli. Nel corso degli anni sono diventate vere e proprie imprese che forniscono servizi gestendo notevoli somme di denaro, rispondono a gare d’appalto, sono in concorrenza le une con le altre, applicano principi manageriali. Per cui hanno reclutato specialisti della comunicazione, del marketing, delle risorse umane, del diritto internazionale, della gestione e delle finanze internazionali, specialisti del lobbing europeo, ecc. Riproducendo il sistema del rendimento, il loro modo di funzionare è né più né meno che quello di una multinazionale.
Umanitario e militare
Ambiguità per gli uni o ipocrisia costitutiva per gli altri, queste imprese para-istituzionali accompagnano un altro sostanziale mutamento. È a partire dall’inizio degli anni 90 che gli interventi militari hanno cominciato ad essere camuffati col termine umanitario. Dopo l’utilizzo della forza statunitense in Somalia nel 1992, forse è stato ancor più il genocidio perpetrato in Ruanda nel 1994 a introdurre l’idea della «guerra umanitaria». Allorché lo stermino programmato dei Tutsi viene pudicamente definito dalle Nazioni Unite «crisi umanitaria», Médicins sans frontières, di cui una parte del personale locale verrà massacrato, reclama un intervento militare delle grandi potenze. Il punto non è più applicare una medicazione sulle atroci conseguenze di ogni conflitto, ma difendere il fatto che queste guerre debbano essere condotte per «ragioni umanitarie». Operando un rovesciamento del discorso, in tal senso è il rifiuto stesso di fare la guerra a diventare «criminale». E reclamando «corridoi» e «santuari umanitari», queste organizzazioni auspicano inoltre di inserirsi nella sua scia!
La temporalità e la forma di intervento umanitario tendono da allora in poi a ricalcare quelle dell’azione militare, come abbiamo visto nella ex-Jugoslavia e poi in Kosovo. Da quel momento, non è sorprendente che molti di coloro che vengono soccorsi non facciano alcuna differenza fra militari che sfoggiano umanitarismo ed umanitari arrivati con i militari. In Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003, i lanci aerei di viveri e medicine accompagnavano i bombardamenti. Inoltre il calcolo del numero di sopravvissuti ed orfani potenziali da nutrire, la localizzazione cartografica dei futuri campi per un numero calcolato di trasferimenti, l’installazione di tende e la consegna di migliaia  di coperte, vengono ormai compresi in partenza e anticipati nei quartieri generali degli Stati Maggiori. L’umanitario appone solo un leggero strato di vernice sul kaki che accompagna.
L’umanitario come modo di gestione degli indesiderabili
A fianco delle operazioni militar-umanitarie di «mantenimento della pace» lanciate a forza di telecamere, un altro versante dell’azione delle Ong attira assai meno attenzione, sebbene sia considerevole. Fra il 1990 e il 2000, tutti gli Stati hanno inasprito la loro legislazione accordando lo statuto di rifugiati solo a pochi. Così hanno cominciato a spuntare nuove categorie: immigrati interni, asilo territoriale, asilo umanitario, ecc. Categorie cui è seguita la creazione di una molteplicità di campi con forme e regole di vita non molto diverse. La strategia è volta a installare le popolazioni migranti in prossimità del loro luogo di partenza e, qualora ciò non fosse possibile, a privilegiare paesi «tampone», soprattutto nell’Africa del Nord, per relegare e filtrare gli «stranieri». I campi, che abbiano mura o filo spinato, non sono che il dispositivo contemporaneo con le sue molteplici sfaccettature di smistamento e reclusione dei migranti. A partire dagli anni 90, questi ultimi vengono sempre più percepiti come indesiderabili e sono diventati una variabile da controllare in un quadro di «controllo dei flussi migratori». E a tale gestione le imprese umanitarie collaborano attivamente: oltre a partecipare ai dispositivi contemporanei di accettazione del dominio attraverso l’ideologia che distillano, si fanno carico anche di una parte dello smistamento e del confino di molte popolazioni.
Gli ACR e il controllo dei flussi
La missione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati non è che una vaga intenzione umanitaria e morale, assimilata alle politiche di controllo dei flussi e del rifiuto degli indesiderabili. L’AC segue completamente le politiche di chiusura delle frontiere che da una ventina di anni hanno attuato tutti gli Stati. Di più, esternalizza per loro tale questione. Ha così messo in atto dei programmi di «rimpatrio volontario» che di fatto sono il più delle volte rimpatri forzati, e si è specializzato nel trattamento degli «immigrati interni», impedendo che questi vadano nei paesi dei suoi finanziatori. La gestione dei campi è il secondo mestiere dell’AC, che sa crearli d’urgenza a fronte di un afflusso di rifugiati, ma anche gestirli nel tempo coordinando i compiti delle associazioni dipendenti dai suoi finanziamenti. Lavorando con un budget di 1,8 miliardi di dollari, organizza le missioni di oltre 500 Ong, il che permette anche di accordare «l’asilo» a una parte di esiliati, ma lontano e in luoghi – campi di internamento o zone geografiche di concentrazione – che non potranno lasciare facilmente per tentare di raggiungere l’Europa. E mantenendoli sotto dipendenza e dunque sotto controllo.
Per molti aspetti questa logica va di pari passo coi tentativi di auto-organizzazione che gli esiliati possono sperimentare nei propri percorsi. Questa è stata ad esempio la triste esperienza del campo auto-installato vicino al villaggio di Buedu in Sierra Leone, a una quindicina di chilometri della frontiera liberiana. Un buon numero di rifugiati dalla Liberia erano arrivati nel 2001 in seguito alla ripresa dei combattimenti nella loro regione, dopo una relativa calma durata diversi anni. Provenendo da città e villaggi situati proprio dall’altro lato della frontiera, più di 35000 liberiani sono giunti nel solo distretto di Buedu. Dato che provenivano da località vicine e appartenevano a stirpi alleate, gli abitanti del villaggio in poco tempo non sono stati più in grado di accoglierli e soprattutto nutrire. Allora hanno chiesto ai loro «parenti» di sistemarsi in uno spazio vuoto all’uscita di Buedu. L’occupazione è diventata un campo auto-installato nel 2001. Raggruppava fino a 4000 persone, prima che l’AC lo svuotasse del tutto e con la forza l’anno seguente, col pretesto della sua vicinanza alla frontiera, ma di fatto e soprattutto al fine di radunare tutti i rifugiati nei campi dell’AC situati nel centro del paese. In questi luoghi di confino, essi si ritrovarono completamente dipendenti dalla magra razione distribuita dal Programma alimentare mondiale (PAM), dalle tende e altri «servizi» standard generosamente prodigati e a cui prima avevano loro stessi trovato soluzioni.
È innanzitutto una storia di gestione dei flussi migratori che guidano queste scelte, e l’intervento umanitario fa più che accompagnarli, vi partecipa direttamente. Tra l’altro, i grandi dimenticati di queste politiche sono naturalmente quelli a cui sono destinate: in nessun momento esiste la possibilità che si facciano carico di se stessi. Sono una variabile da controllare, da stabilire o da spostare a seconda degli interessi politici, economici e militari delle regioni toccate (stabilità, possibilità di sfruttare le ricchezze locali, accordi geo-strategici…) e di una gestione internazionale delle migrazioni (volontà di stabilire i candidati al viaggio lontano dalle porte d’Europa).
Smistare
L’immigrato, la donna rifugiata, il bambino rifugiato ricevono un «kit di sopravvivenza» essendo riconosciuti come appartenenti a tali categorie. All’interno dei campi, la categoria «rifugiato» è essa stessa suddivisa in categorie distinte di «vulnerabilità», come ad esempio il bambino non accompagnato, la sopravvissuta alla violenza, il genitore solo o la donna sola, che finiscono per produrre una gerarchia della sventura. Questa moltiplicazione delle categorie è assai pratica. Essa permette di creare delle separazioni laddove si potrebbero tessere delle solidarietà. Ognuno si trova assegnato a una falsa realtà, perché come minimo troppo parziale, soprattutto per non uscirne. Questa ingiunzione ad un dato posto non è legata al percorso o al vissuto degli individui, ma alla loro gestione. Sistematizzando, imponendosi come modo di governare l’«instabilità», l’umanitario ha generato una burocrazia della sofferenza, dove l’urgenza e l’arbitrio spesso si congiungono: urgenza di spostamenti più o meno forzati; arbitrio di un potere su situazioni categorizzate come dissimili, accettando o rifiutando la presenza, relegandola in luoghi più o meno carcerari…
Quando gli individui non accettano le categorie in cui vengono relegati, questi umanoidi sono pronti persino a dare carta bianca alle autorità locali per massacrarli. È così che la polizia egiziana ha assassinato più di 150 sudanesi che occupavano un parco situato vicino alla cinta dell’AC il 30 dicembre 2005. Nel giro di più di tre mesi, un migliaio di abitanti di diverse regioni del Sudan rifiutarono sia di restare in Egitto dove erano preda del razzismo, sia i rimpatri «volontari» (neolingua per forzati) previsti per il primo semestre 2006 nelle regioni ancora parzialmente in guerra. La settimana prima dell’intervento di 6000 sbirri egiziani, l’AC considerando il loro dossier «chiuso» aveva chiesto più volte al governo egiziano di «prendere urgentemente tutte le misure appropriate per risolvere questa situazione» che non era più di sua competenza, sbarazzando i confini della nobile istituzione da quell’occupazione troppo visibile. Così facendo, l’AC è stato complice attivo del massacro di coloro che ha successivamente considerato come rifugiati, richiedenti asilo, respinti, ed infine problema d’ordine pubblico.
Confinare
In maniera assai palpabile nel caso dei rifugiati e immigrati dei paesi del Sud, l’umanitario è l’entità che, ovunque sia necessario, costruisce, gestisce e controlla dei campi per mantenervi delle «popolazioni» considerate simultaneamente o alternativamente come vulnerabili e indesiderabili, vittime e pericolose. Un campo richiede sistemazioni di spazi vergini, vie di accesso e di circolazione, installazione di tende e baracche, di tubature, pozzi e canalizzazioni d’acqua, di cliniche e di scuole, ecc. A ciò corrisponde una ripartizione di compiti e un coordinamento fra gli impiegati (stranieri e locali) delle diverse Ong e agenzie Onu, che sono altrettanti «rami» di un umanitario operante a mo’ d’un governo. Alimentazione, salute, rete viaria, riparo, sicurezza, ambiente, gioventù: a ciascuno il suo «portafoglio». È tutta una burocrazia che si mette in moto e che prolunga l’urgenza per un tempo più o meno lungo. Gli «aventi diritto» sono allora mantenuti in vita al minimo, cioè secondo norme di mera sopravvivenza (abitazioni precarie, razioni alimentari insufficienti, ecc.) e sono anche e soprattutto tenuti sotto controllo.
Ma capita che essi escano dal ruolo di vittime passive che viene loro assegnato. Nel luglio-agosto 2003,nel campo di Tobanda in Sierra Leone, alcune vedove chiesero dei teloni plastificati per proteggere le loro case in terra battuta dalle piogge torrenziali. In quella stagione gli interni erano diventati rapidamente umidi: pavimento, stuoie, materassi, vestiti. Un mese prima, il tetto di paglia e poi il muro di terra di una casa erano crollati mentre un bambino vi dormiva dentro. Altri ripari subirono la stessa sorte. Nello stesso periodo, l’AC distribuì teloni plastificati a rifugiati appena arrivati, lasciando che i più vecchi, presenti nel campo da quasi tre anni, si bagnassero. Davanti all’assenza di risposte degli amministratori del campo, una cinquantina di donne occuparono con i loro figli la via principale del campo scandendo «vogliamo i teloni!», poi sequestrarono dei volontari europei di una Ong per diverse ore tenendoli sotto la pioggia, prima di bloccare un veicolo della Croce Rossa «perché vedano cosa significa stare sotto la pioggia». Esse consideravano tutti quei membri delle Ong appartenenti ad un solo e medesimo mondo, quello delle «Nazioni Unite». Davanti alla protesta dei dipendenti che spiegavano che la questione non era di loro competenza, le donne ebbero una sola risposta: «Vi consideriamo tutti lavoratori di una Ong, come voi ci considerate tutti rifugiati».
Le associazioni e le Ong, rispondendo alle gare d’appalto dei governi, dell’Unione Europea o dell’Onu, «facendosi carico» dei differenti settori relativi alla detenzione e alla sopravvivenza nei campi, partecipano al dispositivo di controllo e di confino dei migranti. L’azione umanitaria si trova così non «distolta» ma inclusa fin dall’inizio nelle strategie di controllo dei flussi migratori di ogni genere. Queste politiche d’immigrazione hanno fatto dell’internamento dei rifugiati e dei migranti una industria florida e invadente, di cui l’umanitario fa parte. In questo spazio in cui le frontiere si rafforzano attorno a Stati-nazione come altrettanti muri e si moltiplicano all’interno dei territori, visibili e invisibili, molti sono respinti, il che produce svariate forme di zone di controllo, di smistamento, di confino e di reclusione.
Per concludere
Ciò che è stato attuato attraverso questa storia convergente dell’umanitario e dei campi, non è solo il trattamento dei rifugiati, è una modalità di organizzazione sociale che si dispiega su scala mondiale. La moltiplicazione dei campi, lo sviluppo di zone d’attesa alle frontiere o di zone di «asilo interno», ma ugualmente le operazioni di «mantenimento della pace», sono alcuni degli aspetti di un processo più ampio che conferisce all’azione umanitaria un ruolo crescente nel mondo in generale. È tutta una politica e una economia della «catastrofe» e della «urgenza» che si sviluppano e si strutturano su scala planetaria. È significativo vedere che sono i battaglioni della Guardia nazionale in Florida, specializzati nel dopo-catastrofe sul suolo americano, ad essere intervenuti in Iraq nel 2003 due mesi dopo la fine ufficiale delle ostilità, per tentare di ristabilire l’ordine a Bagdad. Sono ancora dei battaglioni della stessa Guardia Nazionale a farsi avanti per reprimere gli atti di saccheggio commessi a New Orleans nell’agosto-settembre 2005, dopo il passaggio dell’uragano Katrina. Catastrofi dette «naturali» come «guerra preventiva»; esilio provvisorio o duraturo di milioni di persone che fuggono dalla fame e dalla guerra, dai paramilitari o anche dalla miseria in cui sono tenute certe regioni dell’Africa, dell’Asia, dell’America centrale e del Sud: in tutti i casi, dei dispositivi tecnici e organizzativi simili sono mobilitati per rispondervi, facendo intervenire fianco a fianco battaglioni militari e organizzazioni umanitarie. Gli interventi delle Ong hanno un ruolo considerevole in un mondo che non può che produrre «catastrofi», guerre e «crisi», permettendo che queste restino sotto controllo  e che aprano prospettive di profitti allettanti. Partecipando direttamente alla messa in campo di una parte sempre più importante della popolazione mondiale, queste imprese umanitarie gestiscono, smistano, confinano coloro che sono considerati alternativamente come indesiderabili che bisogna rinchiudere o espellere, e «sovrannumeri» ridotti per una parte alla condizione di esseri passivi che bisogna contenere. Se si vuole scalzare e abbattere questo mondo, è ora di prendersela anche contro queste organizzazioni non governative, ormai diventate una risorsa del dominio moderno, sia in termini di immagine e di pacificazione che di gestione e controllo. Lo sbirro migliore non indossa necessariamente l’uniforme…
[Subversions, revue anarchiste de critique sociale, n. 2, aprile 2013]
http://finimondo.org/node/1278