L’inganno Democratico

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Aldo Aguzzi

L’inganno democratico è di quelli che assumono i più seducenti aspetti, che fanno presa in un infinito numero di cervelli e che, perciò, rendono aspra e lenta la fatica per liberarsene.

Pochi hanno scritto, come gli anarchici, contro la democrazia. Eppure: si potrebbe affermare che gli anarchici si sono totalmente e definitivamente liberati delle sue seduzioni? Contro la Democrazia parliamo quando viviamo in essa. Ma non appena si effettua un cambio politico ed un regime democratico viene rimpiazzato da un qualsiasi altro, ne sentiamo la nostalgia e ci sentiamo disposti a lottare per il suo ritorno. Anche noi ci siamo così intimamente imbevuti del sofisma democratico che ad esso dobbiamo gran parte dei nostri mali e delle nostre sventure.

La diserzione dal nostro campo di uomini che ci erano molto cari, nel 1914, si deve appunto alla loro sincera convinzione di difendere, difendendo la plutocrazia demagogica delle nazioni “democratiche”, la causa della Democrazia, e con essa, della libertà. Oggi stesso tutti noi, anche se non sempre lo gridiamo sui tetti, ci sentiamo disposti ad afferrarci all’àncora democratica, persuasi che un ritorno ai begli anni di Giolitti è un ritorno alla libertà.

Nostalgie, amori e predisposizioni umanamente spiegabili, non privi, anzi, di certo fondamento. E se negarlo, questo fondamento, sarebbe insensato, sopravvalutarlo è pericoloso e denota un misconoscimento della realtà.

Noi, uomini di parte, singolarmente e collettivamente assillati dal desiderio e dal bisogno di diffondere i nostri pensieri e compiere, coi mezzi più produttivi che la civiltà ci porge, cioè scritto e parola, la nostra opera di proselitismo, non possiamo prescindere dal riunirci, gridare, stampare. E tutto questo, è permesso in Democrazia e, in Democrazia ci sentiamo perciò – noi – più forti e più liberi.

Su questo terreno, che ha la sua importanza, non v’è luogo a discussione.

Ma non confondiamo “le libertà” con la libertà.

A me non pare, per esempio, che lo Stato democratico sia più vicino alla libertà che lo stato oligarchico.

Può sembrare un paradosso. Ed a molti lettori è sembrato paradossale Damiani, che su questo giornale ha definito totalitario, alla pari dello Stato fascista, anche lo Stato liberale, democratico e repubblicano. Ma se noi osserviamo, giudichiamo e deduciamo con criterio an-archico, e non attraverso e con mentalità di democratici, svanisce il paradosso e ne resta una elementare verità.

Noi identifichiamo, e non certo capricciosamente, l’autorità nello Stato, la libertà nel non-Stato. Nel cammino ascensionale verso la Libertà, questa sarà tanto più vera più ampia e più profonda – anarchicamente parlando – quanto più lo Stato viene ridotto, mutilato, rimpicciolito. Non Stato è uguale a Libertà, meno Stato è uguale a maggior libertà. Dunque la Democrazia sarà maggiore libertà in confronto d’un regime assoluto se in essa lo Stato sarà minore in confronto di quello esistente in questo regime.

Lo Stato democratico è meno assorbente, meno prepotente, meno esteso che lo Stato oligarchico?

Ho già più volte sottolineata la straordinaria facilità con cui in questi ultimi anni, così densi d’insegnamenti, – specialmente per noi che facciamo la nostra scuola nella vita agitantesi e pulsante d’intorno, e non nei libroni, tombe d’inerte sapienza – s’è effettuato in vari paesi il passaggio dalla democrazia alla dittatura, e viceversa.

Solo in Italia il fascismo s’è caratterizzato nel tentativo di mutare fondamentalmente le istituzioni governative conquistate. Ma solo fino ad un certo punto.

La Camera corporativa, lo Statuto riformato, che rappresentano, se non modificazioni o mutilazioni, secondo i casi, degli istituti, dei sistemi, delle norme integranti il preesistente sistema democratico? Non davvero il loro annientamento. In fondo, lo Stato fascista, come lo Stato democratico, ha dovuto o voluto darsi parvenza di legalità ed ha rinnovato, con le elezioni ed il plebiscito, l’inganno democratico della sovranità popolare.

Posteriori, comunque, al suo trionfo come dittatura sono le riforme introdotte dal fascismo. Mentre in altri paesi la dittatura s’è sovrapposta al sistema democratico e s’è stabilizzata, come nel Cile, nel Perù ecc., senza punto aver bisogno di mutare menomamente la struttura statale. Eletto legalmente o auto-elettosi con il colpo di forza, il dittatore non ha fatto che assidersi. La… tavola era già imbandita.

Non è senza significato che il sopraggiunto dittatore trovi preventivamente preparati, a sua completa disposizione e in numero e qualità sufficienti, i mezzi coi quali imporre il suo personale potere! Questi mezzi, questa forza, gli preesistevano. Vigevano ed operavano in piena democrazia!

Il passaggio dal regime democratico al regime unipersonale non si riduce in sostanza che ad un accentramento. La forza coattiva che preme sul popolo, dall’alto dello Stato, prima era manovrata e affidata, attraverso una complicata suddivisione e distribuzione di funzioni, a più persone e più istituti: col trionfo della dittatura questa forza passa – relativamente, del resto – ad uno solo.

Ma questa forza è sempre uguale, il popolo ne è sempre ugualmente vittima. Ed al popolo non importa affatto sapere s’egli è tirannizzato da questi o da quelli, da molti pochi o uno solo. Gli importa sapere se, ed in quale misura, egli gode di libertà.

***

Si è che Democrazia non significa affatto «meno Stato». L’ipertrofizzarsi dello Stato Moderno, è fenomeno parallelo e contemporaneo al sorgere ed allo svilupparsi della Democrazia. Deduzione storica incontrovertibile e quasi unanimemente accettata. Tutte le teorie escogitate a spiegarla o giustificarla non fanno che confermarla.

Ad aumentare le dimensioni e la complessità dello Stato, l’aumento di popolazione ed il progresso industriale non parteciparono che in minima misura. Altre cause bisogna dunque ricercare, e ve ne possono essere di diversa natura, ma indubbiamente la fondamentale è la seguente: la Democrazia ha fatto dell’autorità una pura questione di forza.

Prima della rivoluzione francese, le monarchie assolute pullulanti in tutta Europa non abbisognavano, per sostenersi, d’un così complesso e così pesante apparato di violenza e di forza armata quanto ne abbisogna il più saldo e normale degli attuali «governi di popolo». È piuttosto sulla forza morale che sulla forza materiale che quelle monarchie si reggevano. La loro vera potenza e la loro vitalità, risiedeva nel fatto che, allora, il principio d’autorità aveva ancora il valore di dogma indiscusso di cui usufruiva secolarmente. Non una di quelle monarchie, incarnante uno Stato di struttura primitiva ed esigua, avrebbe potuto sostenersi un sol giorno se i popoli loro assoggettati non avessero serbata per la persona del Re o dell’Imperatore la più profonda delle venerazioni, l’amore più idolatra ed il più oscuro timore. In lui vedevano il rappresentante di Dio sulla terra, il grande benefattore e il capo inamovibile. L’idea di Dio è appunto un commisto di venerazione, amore e terrore. V’era schiavitù, ma schiavitù volontaria. Però la Rivoluzione Francese, genitrice della Democrazia, svuotò del suo contenuto teologico e mistico il principio d’autorità, ne estirpò la sostanza vitale e senza volere lo uccise. In quell’uragano di razionalismo e di positivismo – uragano che scendeva ruggendo ed ingrossandosi dai monti lontani del Rinascimento e della Riforma – si rivendicò all’uomo di diritto di riscattarsi dai padroni del cielo e della terra. Dio cadeva ed i rappresentanti terreni lo seguivano al precipizio. Se non si giunse alla negazione completa del principio d’autorità si fu perché gli stessi demolitori, spaventati dell’opera loro, s’affrettarono a ricostruire ciò che avevano distrutto. V’è una contraddizione interiore, un ritorno sui propri passi, patente nel pensiero di quasi tutti i filosofi di quell’epoca. Dopo aver negato l’esistenza di Dio, Voltaire s’accorge che un popolo ateo non sarebbe ubbidiente e s’affretta a proclamare la religione una menzogna necessaria per il popolo. Dopo aver dimostrato che autorità e proprietà non son frutto d’un libero patto, Rousseau  invoca il nuovo patto sociale che genera la «sovranità popolare». Dopo aver proclamata la più completa libertà individuale, Kant immagina uno Stato, la cui forza sia garanzia di tutte le libertà e garanzia della «libera associazione degli individui» concorrenti in «libera gara d’intelletti». E così via. Come l’Araba Fenice l’autorità risorge dalle sue ceneri. Ma il rogo l’ha trasformata. Nella fiamma ha per sempre perduto il suo carattere sacro. Venuta meno per sempre la “schiavitù spontanea” bisogna che la schiavitù sia imposta con la forza. Dio è stato scacciato e il gendarme occupa il suo posto. Lo Stato è il carabiniere, dice Mussolini.

Nessun governo attuale oserebbe proclamarsi il rappresentante di Dio sulla terra. «Per volontà di Dio» è un motto arcaico che fa sorridere e che in molti Stati è ormai dimenticato. A queste scemenze i popoli non credono più. Non credono in Dio, e meno credono che Mussolini, o Alcalà Zamora, o Hindenburg, o MacDonald e Hoover, siano stati mandati dal cielo sulla terra, dotandoli d’onniveggenza e d’infallibilità, ad esigere le tasse, riempire le prigioni, intascare stipendi favolosi e scatenare le guerre. Se essi sono ancor al loro posto, è perché solo una rivoluzione futura potrà iniziare il cammino di dove si fermarono, atterriti della loro audacia, gli iconoclasta dell’ ’89.

Siamo in un periodo di transizione. Questo è il secolo scettico e castrato. L’individuo del secolo XX è amorale anche quando s’atteggia a moralista; è convinto che la ricchezza è un furto anche quando anela ad arricchirsi; è certo che il governante è un disonesto ciarlatano anche quando gli dà il suo voto. Il vecchio mondo è spiritualmente distrutto e solo la violenza, che genera in basso rassegnazione e corruzione, lo mantiene in marcia.

«Una volta ancora – esclama un democratico italiano, Guglielmo Ferrero – la nostra volontà s’è velata d’una bella menzogna per non vedere ciò ch’ella vuole realmente. Il difetto che, sotto il nome di tirannia, l’èlite del secolo XVIII non seppe mai perdonare all’Antico Regime, è la debolezza e l’impotenza. Ciò che dopo due secoli le nuove generazioni vollero sotto il nome di “libertà” è la potenza, la ricchezza, la dominazione del mondo. Questo tremendo equivoco è il segreto di tutta la nostra storia, dalla Rivoluzione Francese alla Guerra Mondiale».

Ed infine egli osserva: «Si domanda da ogni parte lo Stato forte! Ma lo Stato Moderno, enorme potenza che non è più mossa da un’intelligenza netta e chiara, cosciente dei suoi propri disegni, è fin troppo forte! È qui il suo vero difetto. Ciò che gli manca non è la forza; è la saggezza, la dignità ecc. e quindi il prestigio e l’autorità».

Si nota, in questo democratico, quasi un rimpianto per le antiche oligarchie.

(Ma queste han fatto il loro tempo. Satana non torna indietro. Le dittature di oggi non hanno né saggezza né dignità – ne ebbero mai le antiche? – e comunque non hanno autorità morale, anche se regalano miliardi al Sommo Pontefice per farsi proclamare eletti da Dio).

Lo Stato del nouveau regime tutto quanto ha perduto in forza morale lo sostituisce in violenza ed in frode. Lo Stato Democratico, mentre dà al popolo l’illusione di esser lui a comandare, crea il servizio militare obbligatorio, moltiplica le tasse, escogita nuovi codici che col pretesto di far la legge uguale per tutti legano il cittadino con un’infinità di catene da capo a piedi. Anche ciò che sembra una nuova conquista della libertà, sotto un governo democratico, si concreta in una nuova legge, cioè in un obbligo di più pel cittadino che mai come ora fu un suddito. Mai l’individuo fu strumento così impotente dello Stato, mai lo Stato così ciclopico, così complesso, triturante e soffocante. Sì, lo Stato Democratico elargisce al cittadino facoltà di critica, perfino… d’insulto. «Insultami, ma obbediscimi!».

Incominciare a parlare di libertà e finire per imporsi con la forza brutale: ecco la caratteristica della Democrazia. Esempio imperioso l’ultima guerra, fatta in nome dell’auto-determinazione dei popoli e terminata con un trattato di pace la cui oltraggiante prepotenza disonora un’intera civiltà.

***

La Democrazia non è un progresso pratico, nel senso della libertà.

Se noi anarchici, senza rinunciare alla realizzazione dei nostri postulati, realizzazione secondo me molto lontana, vogliamo – e secondo me dovremmo volere – conquistare gradualmente la libertà quando ci sia possibile, nelle lotte attuali, non facciamoci illusioni sulla Democrazia.

Con essa, nulla di comune.

Preferiamo, si, la democrazia alla dittatura per quanto in «democrazia» è più facile opporci alla prepotenza Statale, almeno a parole. Cioè sfruttiamo, per un nobile fine, il tallone d’Achille ch’essa ci porge, per ucciderla.

Il «più libertà» è il «meno Stato» e noi vogliamo tendere al non-Stato, il sempre meno Stato. Ma la democrazia è l’ultra-Stato.

Perciò il nostro movimento non deve ridursi a fiancheggiare sulla piazza, tanto per conservare le sue tradizioni, le “conquiste” che si compiono in parlamento; non devono ridursi ad un incentivo dei partiti democratici che vanno dal democratico al socialista.

L’azione nostra, intesa a “diminuire” lo Stato, a strappargli un’unghia, un dente o un capello in attesa di decapitarlo, dovrebbe essere totalmente diversa.

Ne riparleremo.

 

[da L’Adunata dei Refrattari, anno X, n. 29 del 8-8-1931]