Gaetano Bresci

Wexford_victims_ashore,_1913

Giovanni Gavilli
Era il pomeriggio di Giovedì 19 Luglio 1900, una delle più ridenti giornate del cielo di Napoli, le cui magnifiche vie che conducono dalla Stazione al Porto, si sentivano frescheggiate da una carezzevole brezzolina confortatrice, ed erano gremite di popolo vestito a festa; attendevano il re, che veniva a salutare la prima spedizione italiana che da Napoli salpava per la Cina. Mi sorprese che non un grido di gioia o di protesta, di saluto o di collera echeggiasse fra la folla assiepata, anzi pigiata dietro i cordoni dei soldati schierati sui due marciapiedi della Via Umberto I, per dove doveva passare la vettura reale. Quel silenzio o quella moderazione non mi pareva e non era naturale alla folla napoletana, e poco dopo mi convinsi che non m’ingannavo; qualche cosa distraeva in quel momento il buon pubblico che aspettava paziente da quasi un’ora il passaggio del re, annunziato con grandi manifesti murali dal sindaco della città: giovani socialisti, fra i quali riconobbi uno dei maggiorenti dell’attuale socialismo napoletano, distribuivano numerose copie d’un manifestino stampato su carta rossa e firmato: «i socialisti».

Allora mi accorsi che il pubblico discuteva sommesso quei manifestini, o era intento alla lettura di un grande cartellone murale, simile a quello che recava l’annuncio dell’arrivo del re, ma di diverso colore. Anch’io sostai, fra gli altri, innanzi a uno di quei cartelloni, e lessi. Era il saluto del Partito Socialista Italiano “Sezione Napoletana” ai soldati partenti per la Cina, saluto che con molta calma e serenità discuteva quella spedizione, concludendo con un invito ai napoletani ad accorrere a salutare i partenti, senza grida e senze proteste; la spedizione non era imputabile a cattiveria di nessuno, e solo doveva ascriversi a colpa del popolo stesso «che non aveva mandato al parlamento sufficiente numero di socialisti ad impedirla» (sic).
Passò il re; e salutato da scarsi applausi, giunse al porto gremito di gente. In quella folla che aveva ormai in quel punto rotto i cordoni e invasa la via, assistetti ad uno spettacolo per me nuovo e commovente: fra i soldati partenti, quasi tutti meridionali, alcuni ve n’erano che partivano piangendo; e lì uno di loro si era gettato in terra rifiutandosi di andare più oltre; la sua vecchia mamma, che era fra gli spettatori e aveva veduto trascinare suo figlio per le spalle sul lastrico, si era precipitata urlando come una pazza fra le fila dei soldati: altre donne l’avevano rapidamente seguita piangendo e urlando, e per un momento si era prodotto un po’ di subbuglio che per un attimo impedì il passo ai soldati che partivano. La vecchia avvinghiata al figliolo gridava con quanto fiato aveva in gola: «assassini, assassini! lasciatelo andare!». Ma fu un momento; i soldati dispersero a viva forza le donne urlanti, ricomposero il cordone rotto in quel punto e la marcia dei partenti, interrotta per un istante, fu ripresa senz’altro incidente fino al pontile d’imbarco. Là il re recò ai soldati della spedizione il saluto della patria, lontani dalla quale egli li seguirebbe col cuore.
Nel tragitto dal porto alla reggia un forsennato tentò avvicinarsi alla vettura reale che dalla grande folla era costretta ad andare al passo; e acciuffato in tempo da qualche cittadino non ebbe modo che di gridare un’atroce ingiuria al re, che lo guardò senza scomporsi. I poliziotti accorsero, ma l’incognito forsennato, liberatosi dalla stretta di coloro che lo avevano preso, si dileguò nella folla e gli fu facile, perché napoletano, e scomparve.
I giornali tacquero di codesti due incidenti; ma il giorno dopo fu aperta una inchiesta ministeriale nei riguardi della questura di Napoli, ed altro non ne seppi.
La sera della Domenica 29 dello stesso mese, la folla gremiva il viale del Parco di Monza; la gente aspettava il re di ritorno da non so più quale solennità ginnastica. Non v’era che uno scarso apparato di forza; là la popolazione idolatrava il suo re, che soleva farvi lunghi soggiorni. I carabinieri incaricati dell’ordine pubblico facevano fatica a fare sgombrare dalla folla il passo alla vettura del re.
Un signore vestito di nero precedeva la vettura, gridando garbatamente alla folla: «largo, largo, c’è la vettura del re!» e i cittadini si traevano in disparte rispettosi; quel signore credettero tutti un ispettore di pubblica sicurezza, ed era il Bresci.
Ma quando echeggiarono tre colpi di rivoltella, e si sparse rapidamente la voce che il re era stato ferito, e il feritore arrestato, fu un urlo d’indignazione, un coro di maledizioni, un uragano di proteste. Il Bresci fu percosso a sangue ed ebbe due denti spezzati per un colpo alla bocca. Di lui e del suo delitto fu piena l’Italia in poche ore, e dovunque tutti scagliarono la loro rampogna, il loro disprezzo sul feroce assassino, ed avevano ragione: aveva assassinato freddamente un uomo, il re, il loro re, il buon re Umberto I, che amava tanto il suo popolo, e che era così munifico soccorritore dei miseri!…
Vile, vile assassino! La vita umana è sacra e inviolabile! — gridarono forte nelle vie, e dalle colonne dei giornali i borghesi e gli operai, i monarchici e i socialisti e persino gli anarchici. Rileggete la stampa di quel tempo e nei giornali di Roma — testé rievocati per l’argomento stesso di quest’articolo da Paolino Valera — alcuni degli anarchici più influenti si affrettarono a protestare pubblicamente che nulla essi avevano di comune col Bresci; la vita umana è sacra ed inviolabile.
Proteste simili a queste furono pubblicate da qualcuno sui giornali borghesi di Spezia, di Firenze e di qualche altra città, e accanita proruppe la discussione feroce tra gli individualisti, che l’azione individuale vogliono spinta fino alle ultime sue conseguenze, e i comunisti, gente equilibrata, cortese ed innocua, che dicono pensiero di pazzi ed opera d’assassini l’esempio della violenza individuale.
L’Agitazione, giornale comunista fondato da Malatesta ad Ancona, e che allora era diretto da altri; L’Avvenire Sociale di Messina, altro periodico degli anarchici codini, rincararono per settimane la dose contro Bresci e fecero benissimo: la vita umana è sacra ed inviolabile per tutti, persino pei re — direbbe il Pascoli — buon’anima sua.
Clamorose dimostrazioni di protesta contro Gaetano Bresci e contro gli anarchici furono improvvisate in quasi tutte le grandi città del regno.
Le gazzette poi durarono ad inveire per mesi contro il vile assassino pratese; a chiedere la rimessa in vigore delle leggi eccezionali contro gli anarchici e provvedimenti di speciale reazione contro la loro propaganda. Ne venne, come conseguenza, la presentazione d’una legge repressiva per gli anarchici, particolare fatica di sua Eccellenza il ministro Gianturco, ma non osarono votarla. Dall’Agosto al Novembre di quell’anno i tribunali d’Italia pronunziarono ben duemilasettecento condanne per apologia del Bresci e del suo delitto. Pochissimi fra quei tanti rei d’apologia del regicidio erano anarchici; gli altri, fra i quali parecchie giovani donne, erano tutti sconosciuti alla polizia e al pubblico, che mostravano a quel modo la loro ferocia, esecrata da tutte le persone di senno, contro il loro re, il buon Umberto I, che aveva sempre in cima al suoi pensieri il suo popolo, la patria sua.
Spaventati forse di codesta ferocia, i reggitori d’Italia stimarono opportuno consigliare a Vittorio Emanuele III un’amnistia, che fu emanata l’11 di quel Novembre. Quell’amnistia non valse a salvare dalle ire dei poliziotti un opuscoletto intitolato: «Bresci e i Savoia» del quale fu autore Amilcare Cipriani, che lo pubblicò a Parigi sotto la data del 10 Settembre 1900, proprio nel momento in cui più ruggiva la tempesta popolare e la rabbia poliziesca sul capo degli anarchici. Sono pagine scritte alla buona, senza pretese di stile e di eleganza, in un italiano discutibile, ma sono terribilmente suggestive ed efficaci. (Ne vedemmo una traduzione italiana). La polizia si affrettò a confiscarne quante più copie poté, operando rapidamente numerose improvvise perquisizioni in tutto il regno nelle case di tutti coloro che erano in odore d’anarchismo. Non pochi dei perquisiti si buscarono condanne non lievi.
Il 19 Maggio e non il 21 di quel mese, come ufficialmente fu detto, trovarono Bresci strangolato nella sua cella. Lo guardavano a vista giorno e notte: nella nottata ogni mezz’ora le due guardie di servizio a quella cella dovevano visitarne l’interno e disturbare il sonno del prigioniero. Di giorno lo tenevano d’occhio continuamente, e ne rimettevano un rapporto al direttore la mattina e uno la sera. Malgrado ciò della impiccagione di Gaetano Bresci non si erano accorti nessuno, nemmeno Alessandro Doria, il funzionario carcerario più volte incaricato di missioni delicatissime, un galantuomo coi fiocchi, non gesuita ed amatissimo dal suo re.
Gaetano Bresci, dissero, suicidato…
«Era ciò che di meno peggio poteva accadergli!» esclamò qualcuno in alto loco, quando fu riferita di quel vile assassino la morte tremenda. Era la vendetta di Dio che aveva colpito il tessitore ribelle, e qualcun altro, sempre in alto loco, esclamò cadendo in ginocchio nella propria cappella innanzi a Gesù crocifisso: «Fiat voluntas tua».
Contro Gaetano Bresci durano ancor vivi nelle persone benpensanti il rancore e l’ira ed è giusto: non si uccide la gente con quella spaventosa freddezza crudele, a tradimento, sotto gli occhi di chi l’ama e la venera.
Chi agisce così, non si dolga poi della vendetta di Dio e di quella, più positiva, degli uomini; ma così non può né deve pensare il popolo quando cadono sui lastricati d’Italia o sui campi africani i figli suoi, colpiti a morte o storpiati per sempre, a tutela dell’ordine pubblico o per la grandezza della patria, alla quale ogni buon cittadino deve tutto sacrificare, anche il buon senso.
Evviva l’Italia e morte agli assassini!

[Gli scamiciati, 1913]