I Banditi Rossi

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I Banditi Rossi
Il Reprobo [Giovanni Gavilli]



Erano essi anarchici?
«Un’automobile lanciata a tutta corsa con uomini armati di pistole automatiche che spargono il terrore e la morte lungo il cammino, è cosa più moderna certo, ma non più pittoresca di un masnadiero ornato di piume ed armato di trombone che ferma e svaligia una carovana di viandanti, o del barone vestito di ferro, su cavallo barda

to che impone la taglia ai villani; e non è cosa migliore».
Così scrive nel n. 2 di “Volontà” il Malatesta, emerito fabbricatore di coscienze rivoluzionarie, per provare irrefutabilmente che nessuno ha il diritto di considerare quegli uomini o quei delinquenti — se più vi piace — quali anarchici.
Noi che già trattammo dei banditi rossi nel n. 1, sotto il titolo La politica del suicidio, e nel nostro n. 3, sotto il titolo Cui gladia ferit gladia perit — non ci ripeteremo; ce ne mancherebbe lo spazio: ci basterà provare pubblicamente ad Errico Malatesta che non è da condottiero accorto il respingere, a priori, come egli fa, una certa tal quale responsabilità dell’opera propria. Predicò egli mai la necessità che spesso la povera gente ha di rubare per provvedersi la soddisfazione dei più impellenti bisogni? Disse egli mai alle turbe che lo ascoltavano deferenti, della necessità tremenda di respingere la violenza con la violenza?
Badi il Malatesta che il masnadiero e il ferrato barone taglieggiavano col fucile e colla rivoltella, e che coi fucili e colle rivoltelle i rivoluzionari respingono i Vandeani o difensori dei preti e dei padroni.
Ma egli esclama: «i banditi rossi uccisero borghesi ed anche impiegati che erano poveri diavoli; e l’anarchico non vuole essere né oppresso né oppressore: anarchico non è chi domina ed opprime gli altri».
Ci scusi: ma ci pare che a questa frase potrebbe ridursi il lungo articolo suo per ciò che in esso riguarda Bonnot e compagni i quali non è vero che fossero mossi dall’unico intento di godere la vita. Avrebbe davvero cattivo gusto chi, per godere la vita, dichiarasse guerra, ad armata mano, al mondo intero; chi operasse così farebbe poco cammino, anche se avesse a sua disposizione, come i banditi rossi, una veloce automobile; i poliziotti e le persone per bene gli darebbero la caccia e lo consegnerebbero al boia, e Malatesta deve convenire che i vandeani difensori del prete e dei padroni sono, per lo più, povera gente, alla quale non si farebbe davvero carezze piacevoli accogliendola a colpi di fucile, per conseguire e difendere il trionfo della rivoluzione.
… Oh lo sappiamo, lo sappiamo; l’anarchico non solo non vuole la violenza ma da essa rifugge per educazione e per carattere, giacché aspira alla solidarietà umana, alla libertà e alla felicità per tutti; ma le aspirazioni, ma la vita, sono una cosa, e un’altra ben diversa è la lotta a cui ci costringe non di rado l’ignobile ambiente nel quale nostro malgrado viviamo.
All’anarchismo si viene per lo studio, per il sentimento o per la disperazione; e quando non tutte e tre queste cose concorrono a modellare e a maturare il carattere dell’anarchico, spesso o diventa una specie di asceta adoratore della propria idea, o un disperato che si butta allo sbaraglio, gittando nella lotta tutto ciò che gli rimane: la propria vita, per far tremare i potenti, ricordando loro a quel modo che la loro possanza vive tutta nella viltà degli oppressi; e per ammonire gli schiavi, dimostrando coi fatti, più che con le parole, qual è la via della vittoria.
Noi potremo ingannarci, ma codesti cavalieri della morte ci paiono rivoluzionari ed anarchici quant’altri mai; e, se non ne seguiamo l’esempio, gli è perché, come già stampammo nel n. 1 e nel n. 3 di questo modesto foglio, ci pare codesta politica dei suicidi e noi non abbiamo voglia di suicidarci, almeno per ora.
A chi ben cerchi nella vita quotidiana, non parrà strana la nostra tesi, giacché nei fatti di tutti i giorni ne abbondano le prove. Ad esempio: ai denari di chi faceva la caccia colui che tagliò pubblicamente la gola ad un prete a Milano, tratto al disperato passo dal suo inestinguibile odio contro i massimi trafficatori delle menzogne sociali? Egli se vi andò all’ergastolo incognito, nessuno poté dire finora il suo nome, l’essere suo; lo dissero pazzo, e noi non sappiamo ancora se avessero ragione.
Stretti dalle vicissitudini della vita, dalle malattie, dalle passioni, e più che da altro dalla miseria, si suicidano nella sola Europa da 180 a 200 mila persone all’anno — dicono le statistiche borghesi — e se anche limiteremo a soli 50 mila la cifra dei suicidii di coloro che al passo estremo vengono tratti dalla miseria, e quindi dall’epoca scellerata degli sfruttatori, è facile figurarsi lo spaventoso pandemonio che accadrebbe, se ognuno di costoro, prima di morire, mandasse a casa del diavolo qualcuno degli oppressori e di quelli che li servono e li difendono.
Ma questa non sarebbe anarchia — ci osserverà il Malatesta — perché l’anarchico vuole la pace e la libertà per tutti.
Osserviamo, a questo punto, che sarebbe bene non travisare né contorcere il significato o il valore dele parole: Anarchia non vuol dire soltanto — come i lessici spiegano — «società senza governo»; ma vuol dire anche «guerra con ogni mezzo all’autorità d’ogni specie che abbia per obiettivo il dominio e lo sfruttamento degli oppressi». Errore gravissimo è, secondo noi, il dire che in anarchia faremo nel tale o nel talaltro modo; quando la rivoluzione avesse trionfato, e il tristo privilegio di disporre della vita e della libertà degli altri — privilegio che ora impera venerato sotto il nome di autorità — fosse scomparso, l’anarchia, o guerra al privilegio, sarebbe finita, e non resterebbe che la libertà per tutti. Per questo, e non per altro, ci diciamo libertari.
Comprendiamo che forse queste nostre affermazioni parranno minuzie al Malatesta, ma la colpa non è nostra.
Concludendo: ebbero il plauso di Malatesta, e di altri numerosi comunisti, i rivoluzionari russi che in pieno giorno assalivano le banche e uccidevano gl’impiegati che osavano opporre resistenza, e ne vuotavano le casseforti, per i loro intenti contro lo Czarismo. Ed ora noi non giungiamo a comprendere — e qui la colpa sarà tutta nostra — che lo stesso non riconosca a Bonnot e compagni la qualità di anarchici o di rivoluzionari. Chi quei caduti considera non come gente sospinta a quel genere di battaglia dalla disperazione, o dalla eccessiva tensione nervosa prodotta dalle proprie impazienze non meno che da propri dolori, non ha davvero il diritto di dirsi anarchico, giacché la legge gli tolse di dosso un tremendo incubo, consegnando al carnefice quei vinti; e deve confessare che, in fondo in fondo, anche la legge, anche il carnefice sono civilmente benefici, e non gli resta che inchinarsi ad essi.

[gli Scamiciati, anno I, n. 6, 28 giugno 1913]