Mattone su mattone (it/fr)

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Note sulla lotta contro il carcere
La capacità di adattamento dell’essere umano supera ogni immaginazione. Si può porre un uomo in pressoché qualsiasi condizione, anche nelle condizioni in cui ci sia solo la morte come filo rosso della storia, e riuscirà ancora ad adattarsi, ad accordare il suo comportamento al diapason dell’ambiente ostile. Da un lato, questa capacità è straordinaria e costituisce la specificità dell’essere umano in quanto tale. Dall’altro, essa è infinitamente tragica poiché il potere non incontra solo avversari implacabili, ma anche la rassegnazione che, in fin dei conti, rappresenta proprio il respiro vitale, per quanto putrido, del potere stesso.

Alcuni diranno che si tratta dell’istinto di sopravvivenza, altri si rifaranno all’inesauribile creatività di cui l’uomo ha dato prova attraverso la Storia nel far genuflettere e incatenare il suo prossimo. Altri ancora si faranno coraggio per l’elasticità che caratterizza la rivolta umana a fronte di condizioni insopportabili. Ad ogni modo, in prigione ritroviamo tutto questo in maniera concentrata. Ma è possibile criticare il carcere senza parlare immediatamente della sua genitrice, questa società basata sull’autorità e sul potere? Nulla in questo mondo può essere considerato a sé stante. Tutta la nostra vita è legata a quella degli altri (anche, se non soprattutto, ad un livello conflittuale), proprio come nel loro insieme le strutture della società che sono state erette nel nome del suo benessere — parliamo ovviamente del benessere «della società», distinguendolo da quello degli individui che ne fanno parte — sono legate fra loro. La struttura fisica di un ospedale, di una scuola, di un ospizio o di una fabbrica assomiglia a quella di un carcere.
I meccanismi intrinseci e che danno loro corpo si accordano e si trovano in dialogo permanente. Considerare la prigione come una questione separata, staccare la sua problematica dall’insieme della questione sociale, significherebbe passare a fianco di quanto abbiamo davanti. O, peggio, fare il gioco del potere che non presenta mai le sue strutture come un tutt’uno, ma come elementi separati (e quindi suscettibili di eventuali miglioramenti). Se questi elementi ne costituiscono le fondamenta, il potere è il cemento che li trasforma in muro dell’autorità. Gli ostacoli sul cammino verso la libertà non sono gli elementi separati, che sarebbero anche relativamente facili da abbattere, bensì il muro costituito da tali elementi e dal cemento apparentemente inattaccabile del potere.

Il carcere e la società come galera a cielo aperto
Benché la lotta contro la prigione non sia una questione di statistiche, di numeri e di cifre — è proprio la sua stessa logica a ridurre tutti gli uomini a numeri e a dossier giudiziari — non si può fare a meno di constatare che mai prima d’ora tante persone si sono ritrovate imprigionate in una delle molteplici strutture di reclusione dello Stato. La logica concentrazionaria e d’internamento non è stata seppellita dopo i campi nazisti. Al contrario, è stata approfondita ed estesa all’insieme della società. Il numero crescente di prigionieri — nel senso di persone a cui è stata tolta la libertà che lo Stato concedeva loro — va di pari passo con una diversificazione della reclusione: prigioni, centri di detenzione per clandestini, riformatori, carceri minorili, istituzioni psichiatriche e, da poco, la propria abitazione (trasformata in gabbia dall’intrusione del braccialetto elettronico).
Ma prendere in considerazione unicamente questa tendenza e staccarla dall’insieme della direzione presa dalla società ci porterebbe solo a porre domande sbagliate. Di fatto, si tratta di un duplice movimento. Da un lato l’estensione delle strutture di reclusione. Dall’altra, l’estensione ben più spinta del controllo sociale, soprattutto attraverso le nuove tecnologie. Il numero di carceri continua ad aumentare, proprio come il numero di persone che vi sono detenute. È la società nel suo insieme che si trasforma poco alla volta in una grande galera a cielo aperto. Si potrebbe perfino dire che l’estensione della capacità di reclusione costituisce in qualche modo un arcaismo a paragone della repressione preventiva, molto più «efficace».
La prigione non si limita certo soltanto alle quattro mura e nemmeno per estensione al controllo tecnologico o alla psichiatrizzazione dell’uomo. La reclusione — concepita come chiusura, restrizione o abolizione delle possibilità che un essere umano in libertà potrebbe cogliere — la ritroviamo in ogni oppressione sociale. Sarebbe quasi grottesco parlarne con l’aiuto di paroloni e di meccanismi autoritari, mentre basta vedere come prende corpo nella famiglia o in un contesto religioso. In tal senso, la prigione non può essere considerata altrimenti che come la conseguenza di tutti i rapporti autoritari che rendono ciò che chiamiamo «il nostro mondo» lo schifo che è. E inversamente. Poiché è ad immagine della prigione che il dominio nel suo insieme si radica nel corpo e nello spirito degli esseri umani. La prigione è l’incarnazione flagrante, visibile e palpabile di ogni logica autoritaria; così come l’autorità non potrà costruire altro che prigioni, anche se queste possono assumere diverse forme e molti colori.
Andiamo ora dritti al punto: è impossibile nell’attuale contesto sociale abolire la prigione. Anche se i muri fossero fatti saltare in aria e le porte delle celle sfondate, essa riapparirebbe sotto un’altra forma finché il principio d’autorità non verrà colpito in modo decisivo. Peggio ancora: ci si può aspettare che finché ci saranno Stati (poco importa la loro forma), una ipotetica riduzione della reclusione fisica non sia possibile che attraverso una reale riduzione della libertà, vale a dire facendo attenzione a diventare noi tutti secondini e detenuti nella grande prigione della società. È questa, ad esempio, la triste tragedia delle lotte contro le sezioni di isolamento… Non possono sfociare che nella distruzione di tutte le prigioni (ovvero in una rivoluzione sociale che spazzi via il principio d’autorità a favore di esperimenti di libertà), oppure nella generalizzazione di certe misure proprie dei regimi d’isolamento in tutte le carceri e in tutte le sezioni. La distruzione decisiva delle carceri sarebbe una conseguenza, anzi, una esigenza vitale, della rivoluzione sociale che intende sbarazzarsi di ogni autorità. Bisogna allora concluderne che una lotta contro la prigione non abbia alcun senso oggi, in un’epoca in cui lo slancio rivoluzionario e libertario non soffia certo forte quanto il dominio e i suoi falsi critici autoritari? E concludere che essa sarebbe votata a priori al fallimento e alla disfatta? Se arriviamo a rispondere sì a questo interrogativo, allora non intraprenderemo mai più alcuna lotta. Poiché, in una certa misura, si potrebbe dire la stessa cosa per qualsiasi altro conflitto, per qualsiasi lotta, per qualsiasi tentativo di insorgere e dare libero corso alla rivolta, non per un mero miglioramento, né per qualche briciola in più, ma per distruggere l’autorità. Ma la sovversione, quindi la rivoluzione sociale, non è una questione di vittorie parziali o di risultati misurabili sulla scala del dominio. La distruzione del carcere non comincia da nessun’altra parte — proprio come il radicale rovesciamento di tutti i rapporti sociali esistenti — se non nel conflitto attuale, nella scelta di frantumare in mille pezzi la rassegnazione e prendere gusto alla rivolta. Ogni rifiuto di obbedire al regime carcerario e ai suoi servitori, ogni atto di rivolta, ogni momento in cui il desiderio di libertà prenda il sopravvento sulla tragedia dell’adeguamento alle condizioni, mina i muri tanto odiati.

Delinquenza e ribellione
Il romanticismo di un bandito che rompe con l’insieme delle leggi, l’ultimo combattimento eroico del fuorilegge contro i difensori dello Stato, le storie popolari dei molti Robin Hood… sono storie bellissime. Danno speranza e, in fin dei conti, non si tratta tanto di sapere se siano «vere» o meno; l’immaginario e il sogno sono forse «veri»? Eppure ispirano, incoraggiano, guidano in numerosi comportamenti, in numerose avventure, in numerosi percorsi umani.
Ma non si dovrebbe confondere questa forza magica dell’immaginazione, autentica essenza della rivolta, con l’ambiente delinquente così come esiste oggi. È abbastanza semplice: uno dei pilastri di questo mondo è il denaro. Ed esistono modi legali ed illegali per procurarselo. Ci sono ad esempio il saccheggio ed il furto legali, esercitati da e per il profitto di padroni, ricchi e potenti. Di solito ciò viene definito «lavoro salariato» (saccheggiare il corpo, l’energia e lo spirito del lavoratore), «sfruttamento delle risorse naturali» (saccheggiare la terra), «commercio» (fare denaro col denaro e monetizzare i bisogni delle persone, parassitare i loro desideri e i loro sogni trasformandoli in merci acquistabili). I modi illegali, sapendo che questo termine appartiene a coloro che ne traggono profitto, sono allora il saccheggio (prendere merci senza pagarle), il traffico di droga (monetizzare la dipendenza dei drogati), il furto e la rapina (accaparrarsi con la forza la proprietà altrui) e via di seguito. È quindi chiaro che, se anche qualcuno supera i limiti della legalità, non per questo è sul punto di sovvertire le fondamenta di questo mondo. Ma non si può gettare il bambino con l’acqua sporca.
Affrontiamo il problema da un’altra angolazione. La nostra lotta contro questo mondo di autorità e di denaro non può essere che delinquente nel vero senso della parola: perdersi e rompere con le norme dominanti. Non è immaginabile farla finita con un mondo diviso tra una minoranza di ricchi e una grande maggioranza di poveri senza far cadere dal proprio piedistallo la sacrosanta proprietà privata. L’impossibile e invivibile moralismo della proprietà privata non ha niente a che vedere con un qualsivoglia «rispetto del benessere altrui», ma ha soprattutto fatto in modo che i poveri abbiano un po’ meno scrupoli a derubarsi a vicenda o a vendersi ai ricchi, piuttosto che andare a prendere il denaro a chi si trova in alto nella scala sociale. Non è possibile sradicare la tensione delinquente dai poveri e dagli sfruttati di questo mondo, così il potere cerca di contenerla attraverso la morale, la religione, l’ideologia e la repressione. Invece di cercare di sradicare questa tensione, lo Stato ha scelto un’altra via: non più eliminare la delinquenza, ma gestirla, includerla e servirsene. Il miglior esempio di ciò è una delle maniere più facili offerte dalla società per raggranellare relativamente in modo rapido molto denaro (o perlomeno poter abbracciare questa illusone): il traffico di droga. Lo Stato gonfia i prezzi delle droghe sul mercato rendendole illegali ed approfitta così delle conseguenze ad esso favorevoli: trafficare, stimolare la trasformazione della delinquenza in impresa, tramortire le tensioni sociali con una vasta anestesia sociale e via di seguito.
Attraverso l’apparato giudiziario — e quindi la pena detentiva — lo Stato gestisce e dirige una parte di questa branca della delinquenza. Con la minaccia di inchieste e pene detentive, si assicura inoltre una vasta rete di informatori e delatori. E non dimentichiamo neanche i numerosi esempi storici in cui lo Stato arruola coloro che non esitano a infrangere le leggi per massacrare i rivoluzionari e le masse insorte. Insomma: l’ambiente delinquente o la delinquenza non possono certo essere considerati come una sorta di antipodi al potere statale o altro.
Ma, con ciò, non si è ancora detto tutto. All’interno della delinquenza esistono anche quelli che non accettano le regole del gioco e rompono con esse così come rompono con le leggi statali. Quelli che vanno a cercare il denaro laddove si trova in abbondanza e che non obbediscono come soldatini agli ordini di un qualche capo mafioso o clanico. Lungi da noi l’intenzione di costruire qui una qualche categoria di «ribelli sociali», ma questo non cancella la presenza dell’aspetto ribelle. È esattamente questo aspetto che molti vorrebbero nascondere volentieri. Lo Stato, proprio come i suoi avversari di sinistra e di destra, vuole i poveri bravi e docili. Quando il povero rompe con la sua rassegnazione e si mette alla ricerca di mezzi per cominciare l’espropriazione necessaria, è l’inizio di un possibile percorso di ribellione e di sovversione, un percorso che non viene riconosciuto da nessuna tendenza politica, proprio perché la sua conseguenza ulteriore è logicamente il rifiuto della politica in quanto modo di gestione degli individui. Mantenere viva questa tensione storica ed approfondirla è di interesse fondamentale per qualsiasi progetto sovversivo. Lungi da un’adorazione del crimine in quanto tale, si tratta qui dell’appropriazione a-legale dei mezzi per combattere la proprietà privata.

I diritti del potere
Come nella maggior parte dei conflitti sociali, i protagonisti della lotta nel e contro il carcere hanno spesso fatto ricorso a un documento vecchio di alcune centinaia d’anni: i diritti dell’uomo. Si potrebbe effettivamente affermare che tutti i regimi carcerari siano in contraddizione con i diritti dell’uomo, ma in fin dei conti ciò vale per tutto in questo mondo. Ma, non a caso, sia i potenti che i loro critici parlano tanto dei diritti dell’uomo. È nel nome di quegli stessi diritti che vengono concluse impossibili alleanze. Che ci si siede attorno a un tavolo per negoziare, per giungere a un compromesso. Il discorso che si basa sui diritti ha un solo risultato: ci riavvicina allo Stato, perché è quest’ultimo ad assegnare e proteggere l’insieme dei diritti. E quando uno dei diritti concessi viene violato, è lo Stato, o uno dei suoi settori, a stabilire la gravità di questa violazione, le eventuali soluzioni o la scelta di negare l’esistenza della violazione. I diritti sono sempre diritti dello Stato.
Prendiamo l’esempio dei diritti dei prigionieri. Questi diritti sono stati formulati e attribuiti dallo Stato o dalle direzioni penitenziarie. Essi possono quindi essere ritirati o sospesi in qualsiasi momento. La segreta o la messa in isolamento è in effetti la sospensione «legale» di tutti i diritti. Tutto ciò che i detenuti hanno ottenuto in termini di margine di manovra è stato ottenuto con la lotta. Ogni margine di manovra che non sia stato oggetto di lotta può, proprio come nel resto della società, essere abolito domani se lo Stato lo ritiene auspicabile. Tutto il chiacchiericcio sui diritti dei detenuti costringe gli eventuali conflitti futuri in una camicia di forza, una camicia che fa sì che i risultati vadano sempre a vantaggio della prigione stessa. Ciò appare chiaro nei numerosi tentativi delle direzioni di coinvolgere formalmente i prigionieri nella gestione della reclusione, facendoli partecipare alla propria oppressione. All’interno del quadro fissato, i detenuti possono allora lasciar sentire «la loro voce». E, invece di battersi, negoziano aggiustamenti.
Con ciò non vogliamo dire che questi aggiustamenti non potrebbero operare una vera differenza, ma la questione rimane sempre nel come sono stati ottenuti. Facciamo un esempio concreto per spiegarci meglio.
Esiste una differenza fondamentale fra, da un lato, dei prigionieri che rifiutano di rientrare in cella dopo la fine dell’ora d’aria al fine di rivendicare più ore di passeggiata; e, dall’altro, dei prigionieri che tentano attraverso le vie giudiziarie di far valere i loro «diritti» a più passeggiate, o che si accingono a negoziare con la direzione eventuali prolungamenti. Nel primo caso, la direzione dovrà o reprimere la rivolta o accettare il prolungamento… e, in caso di ripensamento della concessione, saprebbe di potersi aspettare altri rifiuti di rientrare in cella. Nel secondo caso, alla direzione basterebbe citare qualche obiezione legale od offrire ai prigionieri che si lamentano un semplice trasferimento verso un’altra prigione. Anche nel caso in cui questi riuscissero ad ottenere un miglioramento, nulla impedirebbe alla direzione di ritirarlo nel momento voluto, perché la sola minaccia sarebbe una nuova negoziazione e non certo una prigione in sommossa. La questione non sta quindi tanto in una opposizione fra riformismo (riforma progressiva del sistema carcerario) e rivoluzione (distruzione immediata della prigione); ma piuttosto nello sviluppo di un percorso di lotta, nella costruzione di una tensione refrattaria e nella possibilità di forgiare complicità nella rivolta condivisa. Tutto il resto sarà sempre un segno di debolezza che non otterrà altro che risultati apparenti, validi solo sulla carta.

I secondini e la responsabilità individuale
Anche se non c’è il minimo dubbio sul fatto che chi veste un’uniforme accantona una parte della sua umanità, non serve a nulla presentare i secondini come mostri disumani, capaci di qualsiasi forma di tortura e di abuso. Ciò somiglierebbe troppo ad un rovesciamento dell’immagine che la società costruisce «dei prigionieri», per essere sovversivi. È certamente vero che la maggioranza, ovvero la totalità dei secondini, dopo anni di abbrutimento e di abitudine ad esercitare l’autorità e la violenza, non sono più capaci di comportarsi altrimenti. Ma è ugualmente vero che vi sono, come si suol dire, dei secondini «umani» che di tanto in tanto si preoccupano della sorte del tale detenuto o chiudono gli occhi laddove una applicazione troppo alla lettera del regime ne comporterebbe la morte. Si può dire di loro che sono «disumani»? Inoltre, dove si situa la differenza essenziale fra il «secondino implacabile» ebbro del suo potere ed il direttore — senza uniforme e, in genere, non coinvolto personalmente negli atti di tortura e di violenza? Ecco la ragione per cui quando parliamo di «secondini» in questo testo, ci riferiamo a tutti coloro che rendono formalmente possibile il funzionamento quotidiano della prigione: secondini, psichiatri, assistenti sociali penitenziari, direttori, ausiliari, medici…
Forse bisognerebbe procedere diversamente. Invece di classificare i secondini secondo il loro grado di «umanità» — omettendo in tal modo che il sistema si fonda sia sulla brutalità che sulla carità e la benevolenza o, ancor meglio, sulla loro insopportabile combinazione — sarebbe meglio partire dal fatto che i secondini sono in tutto e per tutto «esseri umani», con tutte le contraddizioni e la complessità che ciò implica. Anche nel torturatore, l’essere umano continua ad esistere. La questione non è allora di sapere «chi si comporta in maniera accettabile e chi supera i limiti e sarà punito di conseguenza», cosa che ci condurrebbe per forza ad una visione riformista della lotta (anche se questa fosse armata), ma di sapere piuttosto in quali modi sia possibile battere i secondini che sono — proprio come i muri, le sbarre, la giustizia e la morale dominante — degli ostacoli sul cammino della libertà. Un attacco contro i secondini non diventa allora «unicamente» una questione di rappresaglia, ma una questione di come eliminare un ostacolo al nostro desiderio di libertà. Se ci saranno dei morti, non ci si nasconderà dietro la battuta «d’aver sparato su un’uniforme», ma ci si assumerà in piena coscienza la responsabilità di aver sparato su un uomo che, per la sua responsabilità individuale e la sua scelta di esercitare la funzione di difensore dell’ordine esistente, è un ostacolo per la libertà.
Ovviamente, il potere se ne frega altamente di questo genere di riflessioni etiche e della ricerca di coerenza in ciò che vogliamo e nel come lottiamo. Da parte dei potenti, non si fa mai economia di crudeltà. Ma noi non siamo come loro. Non vogliamo diventare come loro. Non siamo giustizieri che erigono patiboli per punire i colpevoli, lottiamo semplicemente con tutti i mezzi che reputiamo adeguati affinché non ci siano più patiboli né carnefici.
Non abbiamo quindi bisogno di rispedire ai secondini l’immagine di mostri che essi ci accollano — rientrando così nella lunga tradizione di coloro che presentano popolazioni intere come sotto-uomini, infami, traditori della nazione, infedeli, inferiori, allo scopo di poterli sradicare. Li considereremo per ciò che sono: uomini che scelgono giorno dopo giorno di girare la chiave nelle serrature delle celle. Non è perché non pensiamo che sia possibile «convertire» o «convincere» i carnefici che neghiamo loro la loro umanità. È questa tensione, la tensione etica verso la libertà che non vuol essere un’altra versione della «giustizia» con le sue leggi e le sue punizioni, a renderci talmente differenti e da cui traiamo la forza e il coraggio per continuare a combattere l’autorità con le armi dell’anti-autorità. Ciò ci permette del resto di passare all’attacco senza equivoci. Poiché, anche se la prigione è una macchina che riesce a distribuire all’infinito la responsabilità della tortura che è di fatto la reclusione, e assume così la fisionomia nebulosa di un tentacolare e anonimo mostro, certi personaggi possiedono paradossalmente delle responsabilità specifiche. Identificarli è di importanza vitale per qualsiasi progetto di lotta contro la prigione. Comprendere chi, dove e come tiene i fili. Chi decide di mettere in isolamento i prigionieri recalcitranti. Chi permette ai secondini di nascondersi. Chi è responsabile della decisione degli internamenti etc. Discernere queste responsabilità individuali è un compito imprescindibile dei nemici del carcere.

Il carcere e la sua mentalità
All’interno delle mura, i secondini non solo i soli ad istruirsi in materia di tecnica di dominio. I rapporti tra detenuti sono altrettanto impregnati di autorità di quelli delle persone esterne. Da un lato, il regime carcerario formalizza questi rapporti gerarchici concedendo privilegi, coinvolgendo direttamente una parte dei detenuti nella gestione del carcere e isolando certi elementi perturbatori dal resto della popolazione carceraria. Dall’altro lato, tutto nella prigione incoraggia i prigionieri ad appropriarsi delle tecniche di dominio ed a uniformarsi. I rapporti fra prigionieri non sono determinati tanto da un qualsiasi sentimento di «fratellanza» dovuto alla comune condizione, ma piuttosto dalla morale dominante di questa società: concorrenza, ricatto, racket, delazione, divisione, esclusione, commercio, rassegnazione, accettazione, anestesia, gerarchia. I momenti in cui i prigionieri insorgono sono allora quasi sempre interruzioni, superamenti di questi rapporti. L’insurrezione contro la prigione comincia laddove la delazione fa posto alla fiducia, la concorrenza alla solidarietà, la rassegnazione alla lotta. La prigione fa tutto ciò che è in suo potere per dimostrare che quelle interruzioni o quei superamenti volgono sempre al peggio per i detenuti insorti. Lo fa con le celle di punizione, l’isolamento, i pestaggi, la soppressione dei «diritti», la fine di una prospettiva di libertà condizionale, ma anche attraverso il messaggio che fa pervenire costantemente ai suoi ospiti: se stai calmo, tutto passerà più in fretta.
L’atto di insorgere, dentro come fuori, si rivela così una esigenza vitale, piuttosto che una semplice formalità per ottenere qualcosa. Non smetteremo mai di sottolineare prima di tutto il lato intimamente umano e vitale della rivolta, l’importanza che ha per l’individuo ribelle in sé.

[da Brique par brique, se battre contre la prison et son monde
(Belgique 2006-2011), Tumult Editions, 2012]

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Briques par briques
Quelques remarques autour de la lutte contre la prison

La capacité d’adaptation de l’être humain dépasse toute imagination. On peut placer un homme dans quasi n’importe quelle condition, même dans des conditions où il n’y a que la mort comme fil rouge de l’histoire, qu’il parvient encore à s’adapter, à accorder son comportement au diapason du milieu hostile.
D’un côté, cette capacité est extraordinaire et fait de l’être humain sa spécificité en tant qu’être humain. De l’autre côté, elle est infiniment tragique, car le pouvoir n’y rencontre pas seulement des adversaires implacables, mais aussi la résignation qui, en fin de compte, est justement le souffle de vie, soit-il putride, du pouvoir lui-même.
Certains diront qu’il s’agit là de l’instinct de survie, d’autres se référeront à la créativité inépuisable dont l’homme a fait preuve à travers l’Histoire en matière de faire s’agenouiller et d’enchaîner son prochain. D’autres encore puiseront du courage dans la résilience que marque la révolte humaine face aux conditions insupportables. Quoi qu’il en soit, en prison, on retrouve tout ça de manière concentrée. Mais est-il possible de critiquer la prison sans immédiatement parler de sa génitrice, cette société basée sur l’autorité et le pouvoir ? Rien dans ce monde ne peut être considéré en soi. Toute notre vie est liée à celle des autres (même, voire surtout, à un niveau conflictuel), tout comme l’ensemble des structures de la société qui ont été érigées au nom de son bien-être – nous parlons bien du bien-être « de la société », le distinguant de celui des individus qui en font partie – sont liées entre elles. La structure physique d’un hôpital, d’une école, d’une maison de repos ou d’une usine ressemble à celle de la prison.
Les mécanismes qui y sont à l’œuvre et qui lui donnent corps s’accordent et se trouvent en dialogue permanent. Considérer la prison comme une question séparée, détacher sa problématique de l’ensemble de la question sociale, reviendrait à passer à côté de ce qui se pose à nous. Ou pire, faire le jeu du pouvoir qui ne présente jamais ses structures comme un tout, mais comme des éléments séparés (et donc susceptibles à d’éventuelles améliorations). Si ces éléments en sont bien les assises, le pouvoir est le ciment qui les transforment en mur de l’autorité. Les obstacles sur le chemin vers la liberté ne sont pas ces éléments séparés, qui seraient même relativement faciles à abattre, mais bien ce mur constitué par ces éléments et le ciment en apparence inentamable du pouvoir.

La prison et la société en tant que camp à ciel ouvert

Bien que la lutte contre la prison ne soit pas une question de statistiques, de numéros et de chiffres – c’est justement sa logique à elle que de réduire tous les hommes à des numéros d’écrou et à des dossiers judiciaires – on ne peut se passer de faire le constat que jamais auparavant autant de gens ne s’étaient retrouvés incarcérés dans une des multiples structures d’enfermement de l’Etat. La logique concentrationnaire et d’internement n’a pas été enterrée après les camps nazis. Bien au contraire, elle a été approfondie et s’est élargie à l’ensemble de la société. Le nombre croissant de prisonniers – dans le sens de personnes à qui la liberté que l’Etat leur concédait a été enlevée – va de pair avec une diversification de l’enfermement : prisons, centres fermés pour clandestins, instituts de redressement, centres fermés pour mineurs, institutions psychiatriques et, depuis peu, sa propre maison (transformée en cage par l’intrusion du bracelet électronique).
Mais prendre uniquement en considération cette tendance et la détacher de l’ensemble de la direction prise par la société, ne nous amènerait qu’à poser les mauvaises questions. En fait, il s’agit d’un double mouvement. D’un côté l’élargissement des structures d’enfermement. De l’autre, l’élargissement bien plus poussé du contrôle social, notamment via les nouvelles technologies. Le nombre de prisons continue à augmenter, tout comme le nombre de personnes qui y sont enfermées. C’est bien la société dans son ensemble qui se transforme petit à petit en un grand camp à ciel ouvert. On pourrait même dire que l’élargissement de la capacité d’enfermement constitue en quelque sorte un archaïsme en comparaison à la répression préventive, beaucoup plus « efficace ».
La prison ne se limite certes pas uniquement aux quatre murs ni même par extension au contrôle technologique ou à la psychiatrisation de l’homme. L’enfermement – conçu comme clôture, restriction ou abolition des possibilités qu’un être humain en liberté pourrait saisir – se retrouve à l’œuvre dans toute oppression sociale. Il serait presque grotesque d’en parler à l’aide de gros mots et de mécanismes autoritaires, alors qu’il suffit de jeter un œil sur comment l’enfermement prend corps dans la famille ou dans un contexte religieux. En ce sens, la prison ne peut être considérée autrement que comme la conséquence de tous les rapports autoritaires qui font de ce qu’on appelle « notre monde » la saloperie qu’il est. Et, inversement. Car c’est à l’image de la prison que la domination dans son ensemble s’implante dans le corps et l’esprit des êtres humains. La prison est l’incarnation flagrante, visible et palpable de toute logique autoritaire ; tout comme l’autorité ne peut jamais construire autre chose que des prisons, même si elles peuvent prendre bien des formes et bien des couleurs.
Allons maintenant droit au but : il est impossible dans le contexte social actuel d’abolir la prison. Même si les murs étaient plastiqués et les portes des cellules défoncées, elle réapparaîtrait sous une autre forme tant que le principe d’autorité n’aura pas reçu de coup fatal. Pire encore : on peut s’attendre à ce que tant qu’il y aura des Etats (peu importe la forme qu’ils recouvrent), une réduction hypothétique de l’enfermement physique ne soit possible qu’à travers une réelle réduction de la liberté, c’est-à-dire, en prenant soin que nous soyons tous devenus gardiens et prisonniers dans la grande prison de la société. C’est là, la triste tragédie des luttes contre les quartiers d’isolement par exemple… Elles ne peuvent aboutir qu’à la destruction de toutes les prisons (c’est-à-dire à une révolution sociale qui balaye le principe d’autorité en faveur d’expérimentations de liberté), ou alors à la généralisation de certaines mesures propres aux régimes d’isolement dans toutes les prisons et sur toutes les sections. La destruction décisive des prisons serait une conséquence, mieux, une exigence vitale, de la révolution sociale qui voudrait se débarrasser de toute autorité. Faut-il alors en conclure qu’une lutte contre la prison n’a aucun sens aujourd’hui, à une époque où l’élan révolutionnaire et libertaire ne souffle certes pas aussi fort que la domination et ses faux critiques autoritaires ? En conclure qu’elle serait d’avance vouée à l’échec et à la défaite ? Si nous en venions à répondre par oui à cette question, alors nous n’entamerions plus jamais aucune lutte. Car, dans une certaine mesure, on pourrait dire la même chose de n’importe quel conflit, de n’importe quelle lutte, de n’importe quelle tentative de s’insurger et de laisser libre cours à la révolte, pas pour une simple amélioration, pas pour quelques miettes en plus, mais pour détruire l’autorité. Mais la subversion, et donc la révolution sociale, n’est pas une question de victoires partielles ou de résultats mesurables sur les échelles de la domination. La destruction des prisons ne commence nulle part d’autre – tout comme le bouleversement radical de tous les rapports sociaux existants – que dans le conflit actuel, dans le choix de briser en mille morceaux la résignation et de prendre goût à la révolte. Tout refus d’obéir au régime carcéral et à ses serviteurs, tout acte de révolte, tout moment où le désir de liberté prend le dessus sur la tragédie de l’adaptation aux conditions, mine les murs tant haïs.

Délinquance et rébellion

Le romantisme d’un bandit qui rompt avec l’ensemble des lois, le dernier combat héroïque du hors-la-loi face aux défenseurs de l’Etat, les histoires populaires des nombreux Robins des Bois… sont de très belles histoires. Elles donnent de l’espoir et, en fin de compte, il ne s’agit pas tellement de savoir si elles sont « vraies » ou pas ; l’imaginaire et le rêve sont-ils « vrais » ? Pourtant, elles inspirent, encouragent, guident de nombreuses démarches, de nombreuses aventures, de nombreux parcours d’hommes.
Mais il ne faudrait pas confondre cette force magique de l’imagination, véritable essence de la révolte, et le milieu délinquant tel qu’il existe aujourd’hui. C’est assez simple : un des piliers de ce monde est l’argent. Et il y a des manières légales et illégales de s’en procurer. Il y a, par exemple, le pillage et le vol légal, exercé par et au profit des patrons, des riches et des puissants. Habituellement, on appelle ça le « travail salarié » (piller le corps, l’énergie et l’esprit du travailleur), l’« exploitation des ressources naturelles » (piller la terre), le « commerce » (faire de l’argent avec de l’argent et monnayer les besoins des gens, parasiter leurs désirs et leurs rêves en les transformant en marchandises achetables). Les manières illégales, en sachant que ce terme appartient à ceux qui en tirent profit, sont alors le pillage (prendre des marchandises sans payer), le trafic de drogues (monnayer la dépendance des drogués), le vol et le braquage (s’accaparer de force la propriété d’autrui) et ainsi de suite. Il est donc clair que ce n’est pas parce que quelqu’un dépasse les limites de la légalité, qu’il est en train de subvertir les fondements de ce monde. Mais on ne peut pas jeter le bébé avec l’eau du bain.
Abordons la question sous un autre angle. Notre lutte contre ce monde d’autorité et d’argent ne peut être que délinquante au vrai sens du terme : s’égarer et rompre avec les normes dominantes. Il n’est pas imaginable d’en finir avec un monde divisé entre une minorité de riches et une grande majorité de pauvres sans faire tomber de son piédestal la sacro-sainte propriété privée. L’impossible et invivable moralisme de la propriété privée n’a rien à voir avec un quelconque « respect du bien-être de l’autre », mais a surtout fait en sorte que les pauvres aient un peu moins de scrupules à se voler entre eux ou à se vendre aux riches qu’à aller prendre l’argent chez ceux qui se trouvent en haut de l’échelle sociale. Il n’est pas possible d’éradiquer la tension délinquante chez les pauvres et les exploités de ce monde, tout comme le pouvoir cherche à la contenir à travers la morale, la religion, l’idéologie et la répression. Au lieu d’essayer d’éradiquer cette tension, l’Etat a choisi une autre voie : ne plus éliminer la délinquance, mais la gérer, l’inclure et s’en servir. Le meilleur exemple de ça est une des manières les plus faciles qu’offre la société pour ramasser rapidement relativement beaucoup d’argent (ou pour au moins pouvoir embrasser cette illusion) : le trafic de drogues. L’Etat gonfle les prix des drogues sur le marché en les rendant illégales et profite aussi des conséquences qui lui sont favorables : trafiquer, stimuler la transformation de la délinquance en entreprenariat, amortir les tensions sociales par une ample anesthésie sociale et ainsi de suite.
A travers l’appareil judiciaire – et donc la peine de prison – l’Etat gère et dirige une partie de cette branche de la délinquance. Par la menace de poursuites et de peines de prison, il s’assure en plus un vaste réseau de balances et d’indicateurs. Et, n’oublions pas non plus, les nombreux exemples historiques où l’Etat recrute ceux qui n’hésitent pas à enfreindre les lois pour massacrer les révolutionnaires et les masses insurgés. En somme : le milieu délinquant ou la délinquance ne peut certes pas être considéré comme une sorte d’antipode du pouvoir étatique ou autre.
Mais avec ça, on n’a pas encore tout dit. A l’intérieur de la délinquance, existent aussi ceux qui n’acceptent pas les règles du jeu et rompent avec elles comme ils en rompent avec les lois étatiques. Ceux qui vont aller chercher l’argent là où il se trouve en abondance et qui n’obéissent pas comme des soldats aux ordres d’un quelconque chef maffieux ou clanique. Loin de nous l’envie de construire ici une quelconque catégorie de « rebelles sociaux », mais ceci n’efface pas la présence de l’aspect rebelle. C’est exactement cet aspect que de nombreuses personnes aimeraient volontiers cacher. L’Etat, tout comme ses adversaires de gauche ou de droite, veut des pauvres sages et dociles. Quand le pauvre rompt avec sa résignation et se met à la recherche de moyens pour commencer l’expropriation nécessaire, il y a là le début d’un possible parcours de rébellion et de subversion, un parcours qui n’est reconnu par aucune tendance politique, justement parce que sa conséquence ultérieure est logiquement le refus de la politique en tant que mode de gestion des individus. Garder vivant cette tension historique et l’approfondir est d’un intérêt fondamentale pour n’importe quel projet subversif. Loin d’une adoration du crime en tant que tel, il s’agit là de l’appropriation a-légale des moyens pour combattre la propriété privée.

Les droits du pouvoir

Comme dans la plupart des conflits sociaux, les protagonistes de la lutte dans et contre la prison ont souvent recours à un document vieux de quelques centaines d’années : les droits de l’homme. On pourrait effectivement dire que tous les régimes carcéraux sont en contradiction avec les droits de l’homme, mais en fin de compte, ceci vaut pour tout dans ce monde. Mais ce n’est pas un hasard qu’aussi bien les puissants que leurs critiques parlent autant des droits de l’homme. C’est au nom de ces mêmes droits, que d’impossibles alliances sont conclues. Que l’on s’assoit autour de la table pour négocier, pour arriver à un compromis. Le discours se référant aux droits n’a qu’un résultat : il nous rapproche de l’Etat, parce qu’il est celui qui attribue et protège l’ensemble des droits. Et quand un des droits concédés est violé, c’est l’Etat, ou une des ses branches, qui décidera de la gravité de cette violation, des éventuelles solutions ou du choix de nier l’existence de cette violation. Les droits sont toujours les droits de l’Etat.
Prenons l’exemple des droits des prisonniers. Ces droits ont été formulés et attribués par l’Etat ou les directions pénitentiaires. Ils peuvent donc être retirés ou suspendus à n’importe quel moment. Le cachot ou le placement en isolement est en effet la suspension « légale » de tous les droits. Tout ce que les prisonniers ont obtenu en termes de marge de manœuvre a été obtenu par la lutte. Toute marge de manœuvre n’ayant pas été objet de combat peut, tout comme dans le reste de la société, être abolie demain si l’Etat le juge souhaitable. Tout le baratin sur les droits des prisonniers enferme les éventuels conflits à venir dans une camisole de force, une camisole qui fait en sorte que les résultats soient toujours profitables à la prison elle-même. Cela apparaît clairement dans les nombreuses tentatives des directions d’impliquer formellement les prisonniers dans la gestion de l’enfermement, en les faisant participer à leur propre oppression. A l’intérieur du cadre posé, les prisonniers peuvent alors laisser entendre « leur voix ». Et, au lieu de se battre, on négocie des aménagements.
Nous ne voulons pas dire par là que ces aménagements ne pourront pas opérer une vraie différence, mais la question réside toujours dans le comment ils ont été obtenus. Prenons un exemple concret afin de mieux illustrer notre propos.
Il y a une différence essentielle entre, d’un côté, des prisonniers qui refusent de réintégrer les cellules après le préau afin de revendiquer plus d’heures de promenade ; et, de l’autre côté, des prisonniers qui essayent, par la voie des tribunaux, de faire valoir leurs « droits » à plus de promenade, ou qui vont négocier avec la direction sur d’éventuelles prolongations. Dans le premier cas, la direction devra soit réprimer la révolte, soit accepter la prolongation… et si elle revenait sur cette concession, elle saurait qu’elle peut s’attendre à de nouveaux refus de réintégrer les cellules. Dans le deuxième cas, il suffira à la direction de citer quelques objections légales ou d’offrir aux prisonniers plaignants un aller simple vers une autre prison. Même dans le cas où ceux-ci parviendraient à obtenir une amélioration, rien n’empêcherait la direction de la retirer au moment voulu, car la seule menace serait alors une nouvelle négociation et pas du tout une prison en émoi.
La question ne se trouve donc pas tellement dans une opposition entre réformisme (la réforme progressive du système carcérale) et révolution (la destruction immédiate de la prison) ; mais bien dans le développement d’un parcours de lutte, dans la construction d’une tension réfractaire et dans la possibilité de forger des complicités dans la révolte partagée. Tout le reste sera toujours un signe de faiblesse n’obtenant rien d’autre que des résultats mis en scène, qui n’ont de valeur que sur papier.

Les gardiens et la responsabilité individuelle

Même s’il n’y a pas le moindre doute quant au fait que celui qui revêtit un uniforme met de côté une partie de son humanité, ça ne sert à rien de présenter les gardiens comme des monstres inhumains, capables de n’importe quelle forme de torture et d’abus. Cela ressemblerait trop à un renversement de l’image que la société dresse « des prisonniers » pour être subversif. Il est certes vrai que la majorité, voire la totalité des gardiens, au bout d’années d’abrutissement et d’accoutumance à exercer de l’autorité et de la violence, ne sont plus capables de se comporter autrement. Mais il est également vrai qu’il y a, comme on le dit alors, des gardiens « humains » qui de temps en temps se soucient du sort d’un tel détenu ou ferment les yeux là où l’application trop à la lettre du régime signifierait la mort. Peut-on dire de ceux-là qu’ils sont « inhumains » ? De plus, où se trouve la différence essentielle entre l’« impitoyable gardien » ivre de son pouvoir et le directeur – sans uniforme et, en général, pas impliqué personnellement dans les actes de tortures et de violence ? Voilà la raison pour laquelle quand nous parlons de « gardiens » dans ce texte, nous parlons de tous ceux qui rendent formellement possible le fonctionnement quotidien de la prison : gardiens, psychiatres, assistants sociaux pénitentiaires, directeurs, adjoints, médecins,…
Il nous faudrait peut-être procéder autrement. Au lieu de classer les gardiens selon leur degré d’« humanité » – en omettant de cette manière que le système se fonde aussi bien sur la brutalité que sur la charité et la bienveillance ou, mieux encore, dans son insupportable combinaison –, on ferait mieux de partir du fait que les gardiens sont bel et bien des « êtres humains », avec toutes les contradictions et la complexité que cela implique. Même chez le tortionnaire, l’être humain continue à exister. La question n’est alors plus de savoir « qui se comporte de manière acceptable et qui dépasse les limites et sera puni en conséquence », ce qui nous amènerait forcément dans une vision réformiste de la lutte (même si celle-ci est armée), mais bien de quelles manières peut-on vaincre les gardiens qui sont – tout comme les murs, les barreaux, la justice et la morale dominante – des obstacles sur le chemin de la liberté. Une attaque contre les gardiens ne devient plus alors « uniquement » une question de représailles, mais une question de comment éliminer un obstacle de notre désir de liberté. S’il y a des morts, on ne se cachera alors pas derrière la boutade « d’avoir tiré sur un uniforme », mais on assumera en pleine conscience d’avoir tiré sur un homme qui, de par sa responsabilité individuelle et son choix d’exercer la fonction de défense de l’ordre existant, est un obstacle pour la liberté.
Evidemment, le pouvoir s’en fout royalement de ce genre de réflexion éthique et de la recherche de cohérence dans ce que nous voulons et dans le comment nous luttons. Du côté des puissants, on ne fait jamais économie de cruauté. Mais nous ne sommes pas comme eux. Nous ne voulons pas devenir comme eux. Nous ne sommes pas des justiciers qui érigent des échafauds pour punir les coupables, nous nous battons simplement avec tous les moyens que nous pensons adéquats pour que plus jamais, il n’y ait ni d’échafauds ni de bourreaux.
Nous n’avons donc pas besoin de renvoyer aux gardiens l’image de monstres qu’ils nous accolent – s’inscrivant ainsi dans la longue tradition de ceux qui présentent des populations entières comme des sous-hommes, des cafards, des traîtres de la nation, des infidèles, des inférieurs afin de pouvoir les éradiquer. Nous les considérons pour ce qu’ils sont : des hommes qui choisissent jour après jour de tourner le clef dans les serrures des cellules. Ce n’est pas parce que nous ne pensons pas qu’il soit possible de « convertir » ou de « convaincre » les bourreaux, que nous leur nions leur humanité. C’est cette tension, cette tension éthique vers la liberté, qui ne veut pas être une autre version de la « justice » avec ses lois et ses punitions, qui nous rend tellement différents et dans laquelle nous puisons notre force et notre courage pour continuer à combattre l’autorité avec les armes de l’anti-autorité.
Cela nous permet d’ailleurs de passer à l’attaque sans équivoque. Car même si la prison est une machinerie qui réussit à distribuer à l’infini la responsabilité de la torture qu’est de fait l’enfermement, et prend ainsi le visage nébuleux d’un monstre tentaculaire et anonyme, certains personnages portent paradoxalement des responsabilités spécifiques. Les identifier est d’une importance vitale pour n’importe quel projet de lutte contre la prison. Comprendre qui, où et comment tire les ficelles. Qui décide du placement en isolement de prisonniers récalcitrants. Qui permet aux gardiens de se couvrir. Qui est responsable de la décision des internements etc. Discerner ces responsabilités individuelles est une tâche incontournable des ennemis de la prison.

La prison et sa mentalité

A l’intérieur des murs, les gardiens ne sont pas les seuls à s’instruire en matière de technique de domination. Les rapports entre détenus sont aussi bien imprégnés d’autorité que ceux des gens à l’extérieur. D’un côté, le régime carcéral formalise ces rapports hiérarchiques en octroyant des privilèges, en impliquant directement une partie des prisonniers dans la gestion de la prison et en isolant certains éléments perturbateurs du reste de la population carcérale. De l’autre côté, tout dans la prison encourage les prisonniers à s’approprier les techniques de domination et à s’y former. Les rapports entre prisonniers ne sont pas tellement déterminés par un quelconque sentiment de « fraternité » dû la condition partagée, mais bien par la morale dominante de cette société : concurrence, chantage, racket, délation, division, exclusion, commerce, résignation, acceptation, anesthésie, hiérarchie. Les moments où des prisonniers s’insurgent sont alors presque toujours des interruptions, voire des dépassements, de ces rapports. L’insurrection contre la prison commence là où la délation fait place à la confiance, la concurrence à la solidarité, la résignation au combat. La prison fait tout ce qui est en son pouvoir pour démontrer que ces interruptions ou ces dépassements tournent toujours au pire pour les prisonniers insurgés. Elle le fait par le cachot, l’isolement, les passages à tabac, la suppression des « droits », l’enlèvement d’une perspective de libération conditionnelle, mais aussi à travers le message qu’elle fait parvenir constamment à ses hôtes : si tu te tiens calme, tout passera plus vite.
L’acte de s’insurger, dedans comme dehors, se révèle ainsi être une exigence vitale, plutôt qu’une simple formalité d’obtenir quelque chose. On ne cessera jamais de souligner avant tout le côté intimement humain et vital de la révolte, l’importance qu’elle a pour l’individu révolté en soi.

[Extrait de Brique par brique, se battre contre la prison et son monde
(Belgique 2006-2011), Tumult Editions, printemps 2012]