Charles Malato
Tra i martiri della rivoluzione s’è posto durante l’anno 1906, Matteo Morral, emulo di Eliaboff, di Sofia Perowskaja e di Bresci.
È infatti al capo che mirò Morral, come già codestoro.
Convinto che la propaganda, sotto pericolo di essere sterile, deve completarsi con l’azione rivoluzionaria sotto qualsiasi forma ella sia, meno la forma inintelligente; egli ha predicato con l’esempio ed ha dato la vita, cercando di prender quella di Alfonso XIII, incarnazione della Spagna monarchica ed inquisitoriale.
Matteo Morral, nato a Sabadell e figlio di un ricco fabbricante di tessuti di questa piccola città industriale, conosceva meglio che tanti altri le miserie dell’operaio, e il suo spirito generoso s’era indignato all’idea che la fortuna dei privilegiati — ed egli era privilegiato — era fatta dalle sofferenze della classe lavoratrice. Erudito, poliglotta, d’una ininterrotta attività e d’un coraggio che egli ha dimostrato a sufficienza, egli abbandonò la borghesia, il cui egoismo feroce lo rivoltava, e venne a combattere, corpo ed anima per l’emancipazione del proletariato.
Certamente, egli non si faceva delle illusioni: egli aveva veduto troppo da presso gli operai lavoranti nella fabbrica di suo padre per disconoscere le tare morali ed intellettuali che il regime del salariato produce fatalmente.
Ignoranza, grossolanità, brutalità e servilismo vigliacco, mancanza quasi totale di iniziativa e di idee generali, nette e pratiche, tale è ancora lo stato della grande mandria umana oscillante tra l’azione della sua avanguardia cosciente, che la trascina verso l’avvenire; e l’azione contraria di tutte le forze regressive che l’immobilizzano nel meandro mortifero del passato. Carne da lavoro e da cannone, l’operaio moderno non può, meglio dello schiavo antico essere in una società ove si cerca la bellezza e la seduzione.
Ma egli può rivivere, trasformarsi: libertà ci vuole, per questo, e benessere per tutti!
E se è vero, come affermano la più parte dei neo-maltusiani, che la produzione attualmente esistente non possa bastare a tutti, non è questa una ragione di più perché quelli che creano la ricchezza siano i primi a fruirne, mentre agli oziosi, se ve ne sono, si “arrangino” come potranno?
Morral veniva da una famiglia repubblicana a base borghese, di quelli che mandano le figlie da educare nei conventi e s’incresano con lo sfruttamento della mano d’opera proletaria.
Il giovane comprese che questo repubblicanismo non cangiava che l’etichetta della società lasciando sussistere tutti i vizi. Egli arrivava sino alla concezione della grande rifusione egualitaria, assicurante, con la comunione dei mezzi di produzione, la libera espansione degli individui nella luce e nell’armonia.
Niente era più differente dell’anarchismo di Morral, dall’anarchismo decadente, dallo spirito fondamentalmente borghese, reazionario e tendente alla ricostituzione d’una pretesa aristocrazia intellettuale; anarchismo che farà fucilare gli anarchici rivoluzionari e metterà capo alla glorificazione della tirannia!
Morral, che non si perdeva più nelle nuvole della metafisica che è nell’anarchismo da salotto, cercava tutti i mezzi pratici per realizzare la trasformazione sociale. Egli constatava che la rivoluzione deve essere sopratutto economica, sotto pena di non essere che una mistificazione della plebe a profitto di qualche nuovo dirigente. Bisognava che egli fosse stato cieco per non riconoscere che l’organizzazione delle masse operaie e la loro azione diretta sono la condizione essenziale di questa rivoluzione economica.
Così egli si diede corpo ed anima all’opera d’educazione e d’organizzazione operaia. Egli non risparmiò né sforzi, né denaro per creare e sviluppare i sindacati di mestiere; egli inviava ai giornali anarchici spagnoli delle traduzioni dalla Voce del Popolo, per orientarli di più in più verso l’azione pratica e per riattaccarli al movimento operaio mondiale.
Egli sosteneva la prudenza procreatrice, la maternità consentita — linguaggio nuovo ed ardito in Spagna — stimando che i diseredati non devono gettare nella vita degli infelici che essi non possono allevare, e che diventano preda dell’officina, della caserma o del bordello; giammai egli ha preteso, come i neo-maltusiani borghesi, che si debba rinunciare all’azione rivoluzionaria, e raggiungere semplicemente, mercé la riduzione numerica della classe operaia, una elevazione di salari e di tutti gli organismi della società borghese.
Egli non credeva né al parlamentarismo, né ai politicanti di professione, ma egli non commetteva l’errore di tanti compagni che, confondendo colla politica parlamentare tutti gli avvenimenti d’ordine politico, arrivano a negare la ripercussione di questi sul dominio economico, morale e sociale. Per esempio sono numerosi gli anarchici che, al principio della guerra russo-giapponese, si limitavano a delle platoniche e teoriche declamazioni contro ogni guerra, senza intravvedere l’impulso formidabile che la disfatta delle armi tzaresche andava fornendo alla rivoluzione russa.
L’abitudine di vivere esclusivamente nella torre d’avorio, cara ai cultori di filosofia speculativa, aveva creato questo stato d’animo che si risolve in impotenza.
Morral conosceva esattamente le condizioni politiche ed economiche della Spagna, e giunse all’idea che la morte del re Alfonso, che non aveva ancora eredi, avrebbe provocato un tale sconcerto, un tale sconvolgimento da cui la rivoluzione sociale avrebbe potuto scoppiare nella Catalogna. Certamente che questa rivoluzione sarebbe stata ingombrata da elementi disperatissimi, ma questo è il destino di tutti i movimenti popolari larghi e profondi.
Sarebbe un cattivo scherzo il ripubblicare oggi tutti i sofismi falsamente umanitari della stessa borghesia contro il regicida.
La borghesia che glorificò Armodeo, Aristogitone, Bruto, Guglielmo Tell, e che ha nel suo passato la macchina infernale di Fieschi e l’attentato d’Orsini contro Napoleone e la condanna di questi fatta in versi da Victor Hugo, farà bene a mettere la sordina alla sua indignazione ufficiale contro gli uccisori dei re.
In quanto concerne personalmente Alfonso XIII, si può ricordare che questo giovane, allevato da una madre fanatica e il reverendo padre Canovas del Castillo, non manifestò mai un raggio di intelligenza, non uno slancio d’umanità. Tutti gli anni del suo regno furono segnati da fucilate e da supplizi.
«Egli era così giovane» giustificano i monarchici confessi ed i repubblicani monarchizzati.
Pardon, quando si fucilarono i pacifici scioperanti d’Alcala del Valle, e si fecero seguire da condanne e da torture, Alfonso XIII aveva 17 anni e mezzo, l’età nella quale i figli degli operai sono implacabilmente colpiti dalla legge allorquando essi hanno commesso il minimo delitto. E lo si trova però abbastanza maturo per regnare su diciotto milioni di individui e di farsi da essi lautamente mantenere come un grasso maiale. Juan Codina non aveva che sedici anni quando lo si torturò e lo si fucilò per l’attentato del Liceo, nel quale egli aveva nulla a che vedere e di cui l’unico autore, Salvatore French, fu arrestato più tardi.
Morral in vista dello scopo a cui mirava non titubò nell’attentare alla vita di Alfonso XIII rappresentante la classe nemica rappresentante la Spagna monarchica inquisitoriale, e fucilatrice.
Dopo il 1903, Morral si trovò in relazione d’amicizia con Francisco Ferrer, direttore della Scuola Moderna di Barcellona. La cosa era nata di per sé, naturalmente: il giovane anarchico aveva potuto constatare nella sua stessa famiglia quali vantaggi porti l’educazione clericale; due delle sue sorelle erano state allevate nei conventi. Egli non volle che una terza, della età di sette anni, divenisse una bambola, buona solo ad infilare paternoster e a portare dei gingilli. Egli condusse la piccola Adelina alla Scuola Moderna e raccomandò al direttore di allevarla modestamente come una figlia di lavoratori, pur coltivandone l’intelligenza. E sovente egli vi tornò per rivedere la bambina.
Ferrer, che si consacrava corpo ed anima all’educazione razionale pei fanciulli di Barcellona, vivendo lui stesso nel modo più semplice ad onta di un lascito inatteso di una vecchia allieva che lo faceva ricco, era tale uomo da comprendere e stimare Morral. Una libreria era stata annessa alla Scuola Moderna, libreria che non pubblicava se non le opere aventi un valore pedagogico e filosofico: Reclus, Letourneau, Darwin, Haeckel, vi erano tradotti. Per queste traduzioni, Morral poliglotta emerito, offrì il suo concorso che fu accettato con entusiasmo, ed egli prese così in breve tempo la direzione effettiva della libreria. Ferrer si consacrava più specialmente alla creazione di scuole razionali in tutta la Catalogna.
Morral però, pel suo carattere concentrato, non aveva detto nulla all’amico del suo progetto, che il suo spirito maturava su di un attentato capace di determinare la rivoluzione sociale. E bruscamente dichiarandosi stanco, se ne andò.
Si sa il resto. Morral andò a Madrid un po’ prima delle feste date pel matrimonio del re, si occupò di mettere in esecuzione il suo progetto. Preoccupato del pensiero di non colpire altri oltre i sovrani, o per lo meno di non estendere la strage oltre la corte dei valletti e dei cortigiani, niente affatto interessanti, egli pensò di commettere l’attentato nella cattedrale ove doveva celebrarsi la cerimonia nuziale.
Morral facendosi passare per giornalista tedesco — egli conosceva perfettamente la lingua tedesca — tentò di ottenere una carta d’ammissione per la cerimonia; ma invano, la polizia temeva un attentato nella chiesa. Ella capiva bene che le gioconde feste ufficiali erano una sfida alla miseria pubblica, agli affamati, agli imprigionati, ai fucilati!
Morral risolse allora di gettare la sua bomba sulla carrozza regale quando questa avesse traversato la città per ritornare al palazzo. Egli affittò una camera in un hotel della via Mayor, situato nel percorso del corteo.
Il 31 maggio, nel dopopranzo, mentre Alfonso XIII e la pratica Ena di Battenberg, che aveva rinnegato la propria religione per sposare un trono ed una lista civile, arrivavano trionfalmente acclamati dalla turba idolatra dei monarchici e dal buon popolo, questo eterno sostenitore di tutti i suoi carnefici, i bouquet di fiori cominciarono a piovere in mezzo alle acclamazioni frenetiche di: «Viva il re, viva la regina».
Improvvisamente un fracasso più rimbombante delle acclamazioni attraversò l’aria. Morral aveva gettato anche lui un “bouquet”, ma quel suo “bouquet” celava una bomba. Il proiettile urtò in un filo elettrico per l’illuminazione, che lo fece deviare di qualche centimetro. Senza questa deviazione il re di Spagna sarebbe stato annientato e il trono vacante.
Il corteo, cominciato in apoteosi pei due sovrani, terminò in uno sbandamento folle. Venti morti ed un centinaio di feriti giacevano lungo il percorso: Alfonso XIII e sua moglie erano salvi — ciò che i preti attribuirono al miracolo della provvidenza — e fuggirono verso il palazzo, abbandonando la loro carrozza i di cui cavalli giacevano sventrati.
C’è da consolarsi che questo proiettile non abbia fatto alcuna vittima fra la classe operaia. Ad eccezione d’una figlietta di marchese, certo irresponsabile dei delitti della sua casta, tutti i morti e i feriti erano nemici del popolo: nobili, cortigiani, ufficiali, soldati, servitori di palazzo. I soldati hanno un bel uscire dalla classe operaia, ciò non li trattiene dal fucilare quando vien loro ordinato dai superiori!
Grazie al suo sangue freddo, Morral aveva potuto, fra il disordine generale, lasciare il suo hotel. Direttamente egli si recò alla redazione del giornale repubblicano El Matin e domandò del direttore Josè Nakens.
Nakens, tipo di vecchio giacobino e di anticlericale intransigente, è un uomo onesto e collerico, che ha combattuto tutta la sua vita gli anarchici di cui le larghe concezioni lo sgomentavano. Senza dubbio, se egli avesse saputo prima dell’attentato, l’avrebbe disapprovato ed impedito. Ciò nonostante egli stimò che il suo dovere era di salvare l’avversario di idee che si era affidato a lui, e lo condusse in casa d’un amico, il repubblicano Mata, che d’altronde ignorò la personalità del suo ospite. L’indomani Morral travestito lasciava Madrid. Ma la sua segnalazione era stata trasmessa dapertutto.
A Torrejon dove egli si fermò per mangiare, l’albergatore ebbe dei sospetti e lo denunciò alla guardia campestre Vega e corse a prevenire le autorità: servire il suo re e toccare un premio, che fortuna insperata!
Vega interrogò Morral che senza turbarsi gli offerse di andare con lui all’ufficio telegrafico. I due uomini partirono; d’improvviso l’anarchico sempre freddo e risoluto, tolse di tasca il revolver e bruciò le cervella al poliziotto.
Morral avrebbe potuto scappare; un centinaio di metri lo separava dalla gente del luogo ed il suo revolver conteneva ancora cinque cartucce. Ma una suprema amarezza lo vinse; doveva egli prendersi altre vite umane, quelle non dei ciambellani e dei cortigiani ma di proletari incoscienti che si facevano strumenti delle autorità? E colui che non aveva esitato a lanciare una bomba al re, alla regina, alla turba ufficiale, questa volta preferì morire piuttosto di uccidere quelli stessi per i quali infine egli aveva lottato!
Con un colpo al cuore egli restò fulminato.
La morte aveva strappato Morral alla rappresaglia degli inquisitori di Spagna. Costoro si vendicarono su Ferrer* che non aveva niente a che vedere nell’attentato. Essi l’hanno arrestato e sottomesso dopo l’istruttoria, al regime dei condannati a morte, gli hanno sequestrato la ricchezza che egli impiegava per la emancipazione delle menti, ed hanno, fra i clamorosi trionfali dei gesuiti, distrutta la sua opera educativa.
Ma i giorni della gerarchia spagnuola sono contati ed il popolo, nel suo risveglio rivoluzionario, la caccerà, non la rimpiazzerà questa volta come trentatré anni or sono, per la repubblica dei politicanti e dei generali.
L’ultima parola sarà ai lavoratori liberamente coscienti; e bisognerà che essi la mantengano.
* Dopo tredici mesi di prigionia Ferrer fu assolto e il governo dovette rendergli la sua fortuna. Ma venne nuovamente arrestato il 1909 sotto pretesto di essere stato l’istigatore dei moti di Barcellona, e rinchiuso nel tetro castello di Montjuich vi venne fucilato il 13 ottobre dello stesso anno.
La monarchia spagnola non aveva peggior nemico dell’organizzatore della scuola moderna, ed ha voluto disfarsene ordendo contro di Lui l’infame processo chiuso con l’ignominia dell’assassinio laconato di legalità.
Ma la ferocia gesuitica de l’atto compiuto in danno del martire di Montjuich ha lasciato traccie propense dell’anima proletaria mondiale ingrandendo e sublimizzando l’ideale di verità e di giustizia che si voleva soffocare con l’uccisione di un uomo.
N.d.G.A.
A cura del GRUPPO AUTONOMO Boston
[1910(?)]