Sul Voto (Luigi Galleani)

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Si sa bene che cosa pensiamo del suffragio universale in materia di emancipazione economica e sociale.
Ben lungi dal favorire gli interessi della classe operaia, dall’appianare le vie al quarto stato, esso non è servito, nelle condizioni in cui funziona da trent’anni, e non poteva servire che al nemico, alla classe dirigente, di cui consolida il dominio:
1. dividendo i proletari finora uniti, saldati, per così dire, gli uni agli altri dalla stessa loro esclusione da ogni azione governativa, e spingendoli a battersi fra loro per la scelta dei loro padroni politici;
2. ingannandoli con la speranza menzognera d’una emancipazione graduale, pacifica, legale, uscente dalle urne, che essi possono riempire di schede, ma di cui la borghesia è doppiamente padrona coi suoi capitali e con la sua istruzione;

3. dando un’apparenza di legittimità a uno stato di cose che non era e non poteva essere, fino ad allora, che il prodotto, l’espressione della forza, e come tale, sempre scoperto contro la forza. (…)
Col pretesto che la scheda bastasse e doveva bastare a tutto, la carabina, il diritto alla carabina, è stato cancellato dall’arsenale popolare; e da questa scheda che miglioramento ha ottenuto la massa laboriosa?
Né come produttore, né come consumatore, né come contribuente — contribuente di sangue o contribuente di denaro — l’operaio divenuto elettore ha visto diminuire i pesi che lo schiacciano o scemare anche minimamente lo sfruttamento di cui è vittima.
I salari sono restati ciò che erano all’epoca del censo, e cioè limitati a quanto assolutamente indispensabile al mantenimento e alla riproduzione del macchinismo umano: i salariati.

(Il suffragio universale, “Cronaca sovversiva”, 1906)

(…) alla cuccagna rabbiosa accesa tra i partiti del suffragio democratico la grande maggioranza dei lavoratori guardò con indifferenza costante, talvolta con sdegno manifesto. (…) Noi siamo le mille miglia lontani, dal desiderio di vestirci delle penne del pavone e di illuderci che astensione così larga e così costante sia frutto della nostra propaganda antiautoritaria. Tolti i preti che non votano in ossequio al non expedit pontificio, tolti gli anarchici che non votano per coerenza politica e qualche mazziniano superstite che ripudia ogni transizione colla monarchia e la vergogna del giuramento, la maggior parte degli elettori diserta le urne per indifferenza od apatia. D’accordo: ma l’indifferenza, ma l’apatia non sono che una forma larvata della diffidenza e del disprezzo. (…) Lassù se ne inquietano. Essi pensano fin d’ora, i furbi, alla miseria vana e fragile del loro scettro e del loro dominio il giorno in cui i comizi deserti e le urne desolate non raccoglieranno più che il verbo dei latifondisti, dei monopolizzatori dell’industria e dei banditi della borsa e il governo apparirà qual è — meno evidentemente — anche oggi, quale fu, quale sarà sempre, il manutengolo od il gendarme dei grandi ladri in pennacchio, in commenda o in guanti.
Se ne inquietano; inquieta sempre un nemico che operi fuori del piano preveduto, fuori dal raggio d’azione da noi scelto e in cui vorremmo costringerlo, lontano dalla nostra vigilanza e dal nostro controllo. A quale terribile arma confiderà la sua causa il proletario disilluso dal suffragio?

(Ora, dateci torto!, “Cronaca sovversiva”, 1904)

Agli appelli, quindi, per un’azione legalitaria e soprattutto elettorale e parlamentare, hanno costantemente risposto con un reciso rifiuto, convinti che «gli operai alle elezioni saranno sempre raggirati ed ingannati, che mai essi arriveranno a mandare in Parlamento i loro compagni, che se anche ne mandassero uno, o dieci, o cinquanta, questi si guasterebbero o sarebbero impotenti; anzi, se la maggioranza della Camera dei deputati fosse composta di operai, questi non potrebbero nulla. Non solo c’è il senato, la corte, i ministri, i capi dell’esercito, della magistratura, della polizia che si opporrebbero ai progetti di legge della Camera dei deputati, e si rifiuterebbero ad eseguire le leggi per gli operai (come già avvenne), ma anche poi non c’è legge che tenga; nessuna legge può impedire ai padroni di sfruttare gli operai, nessuna legge può imporre ai padroni di tenere aperte le fabbriche e impiegare gli operai a tali altre condizioni, ai commercianti di vendere a tal prezzo, e via» (F.S. Merlino).
In antitesi all’azione elettorale e parlamentare che esige organizzazioni autoritarie e disciplinate, gli anarchici oppongono l’azione diretta del proletariato e l’astensione dalle urne.
L’astensionismo elettorale degli anarchici non implica unicamente un concetto contrario a quello della rappresentanza che l’anarchismo ripudia in principio, implica anche, e soprattutto, un’assoluta sfiducia nello Stato; e questa sfiducia che è nella massa dei lavoratori diffidenza istintiva, è negli anarchici risultato dell’esperienza storica dello Stato e della sua funzione risoltasi in ogni tempo e in ogni paese in un’interessata ed esclusiva tutela dei privilegi delle classi dominanti. E l’astensionismo anarchico ha conseguenze meno superficiali dell’inerzia indifferente onde lo maledicono gli arrivisti del socialismo scientifico. Perché denuda nello Stato la menzogna costituzionale per cui si gabba ai gonzi, come rappresentante di tutta la nazione, riducendolo nei termini caratteristici essenziali di rappresentante, procuratore e gendarme, delle classi dominanti.

(La fine dell’anarchismo?)