Wolfi Landstreicher
Sadly, in recent years, too much of the writing coming out of social conflict is wrought with stiff, wooden language, a tired, dead language that seems to contradict the energy of the rebellions of which they speak. It is the language of militancy, not of freedom, not of individuality creating itself against all odds. Perhaps this is, in part, because many of the present-day conflicts spring from the harshness of the times; they are responses to the hardness of current social, political and economic realities. But how can a response in kind counter these realities? Shouldn’t the very method of our response reflect our rejection of these imposed realities?
Militancy is mistaken for passion and intensity, when in fact it is just an armored straightjacket closing in one’s nakedness, stiffening and limiting one’s movements. Seriousness is mistaken for resoluteness, when in fact it is enslavement to the abstract, to the future, to the cause, to the past, another sort of self-imprisonment. And isn’t this precisely what we resolutely need to refuse as we fight to make our lives our own in each moment?
Perhaps the problem is that so many of those involved in social conflict do not see themselves as free individuals creating their lives, encountering obstacles to this self-creative process and fighting to destroy these obstacles, but rather as oppressed people resisting their oppression.
It is not necessary to ignore the reality of oppression to recognize that when our project becomes resistance to oppression, we become centered on our oppressors. We lose our own lives, and with them the capacity to destroy what stands in our way. Since resistance focuses on the enemy’s projects, it keeps us on the defensive and guarantees our defeat (even in victory) by stealing our projects from us.
If, on the other hand, we start from our own project of self-creation, insisting upon moving through the world as free and aimless beings, we will encounter rulers, exploiters, cops, priests, judges, etc., not essentially as oppressors, but as obstacles in our paths, to be destroyed rather than resisted.
It is only in this context that destruction takes on its insurgent, poetic, revolutionary meaning, as a truly gratuitous act that defies the logic of work and opens reality to the marvelous, to surprise. Only then does destruction become playful.
Contro il linguaggio della militanza
Wolfi Landstreicher
Tristemente, negli ultimi anni, fin troppi scritti che provengono dal conflitto sociale sono stati forgiati con un linguaggio rigido, legnoso, un modo di esprimersi stanco, cadaverico, che sembra contraddire l’energia delle rivolte di cui intendono parlare. È il linguaggio della militanza, non della libertà, non dell’individualità che nonostante tutto crea se stessa. Forse questo è dovuto in parte al fatto che molti conflitti odierni sorgono dalla durezza dei tempi; sono la risposta alle attuali realtà sociali, politiche ed economiche. Ma come può una risposta di questo tipo controbattere tali realtà? Il metodo stesso della nostra risposta non dovrebbe riflettere il nostro rifiuto di queste realtà imposte?
La militanza viene confusa con passione e intensità, mentre invece è solo una camicia di forza corazzata che racchiude la nudità di ciascuno, irrigidendo e limitando i movimenti di ognuno. La serietà viene scambiata per risolutezza, mentre invece è l’asservimento all’astratto, al futuro, alla causa, al passato, un altro genere di auto-imprigionamento. E non è precisamente questo che abbiamo bisogno di rifiutare, in maniera decisa, quando lottiamo per rendere le nostre vite propriamente nostre in ogni momento?
Forse il problema è che tanti fra quelli che sono coinvolti nel conflitto sociale non vedono se stessi come liberi individui che creano le proprie vite, che incontrano ostacoli in questo processo auto-creativo e che lottano per distruggere tali ostacoli, ma piuttosto come persone oppresse che resistono alla propria oppressione.
Non è necessario ignorare la realtà dell’oppressione per riconoscere che, quando i nostri progetti diventano resistenza all’oppressione, allora finiamo per concentrarci sul nostro oppressore. Perdiamo le nostre vite, e con esse la capacità di distruggere quanto si erge sulla nostra strada. Poiché la resistenza si focalizza sui progetti del nemico, ci mantiene sulla difensiva ed è garanzia della nostra sconfitta (anche in caso di vittoria) sottraendoci i nostri progetti.
Se, invece, partissimo dai nostri progetti di auto-creazione, insistendo nello spostarci per il mondo come esseri liberi e senza scopi, allora incontreremmo governanti, sfruttatori, sbirri, preti, giudici, ecc, non necessariamente in quanto oppressori, ma come ostacoli sul nostro cammino, da distruggere piuttosto che a cui resistere.
È solo in questo contesto che la distruzione assume il suo significato insorgente, poetico, rivoluzionario, come atto veramente gratuito che sfida la logica del lavoro e apre la realtà al meraviglioso, alla sorpresa. Solo allora la distruzione diventa un’avventura giocosa.