Il problema del furto. Clément Duval

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Alfredo M. Bonanno

Clément Duval nasce nella regione della Sarthe, in Francia, nel 1850. Il 17 ottobre 1886 viene arrestato a Parigi. Nel corso dell’arresto colpisce con diversi colpi di coltello l’ispettore Rossignol. Il 12 gennaio è condannato a morte dalla Corte d’assise.

Duval faceva parte del gruppo “La Panthère des Batignolles”, costituito da compagni che si rifacevano alla tesi anarchica di quello che allora si chiamava “la propaganda con i fatti”.

Nello stesso tempo, insieme ai suoi compagni, realizza una serie di furti per finanziare le attività del movimento anarchico. Egli non si definisce un “ladro”, ma un “derubato”, come vedremo più avanti esaminando la sua dichiarazione al processo.

L’ultimo furto, avvenuto in una ricca casa di rue de Monceau, è accompagnato da un incendio, con il quale Duval e i suoi compagni vogliono distruggere quelle tracce di ricchezza che non possono portare via. L’indomani Duval è arrestato presso un ricettatore.

Interrogato il primo giorno del processo egli risponde subito e senza mezzi termini alla domanda del presidente Bérard des Glajeux: “Sì, i parassiti non devono avere gioielli mentre i lavoratori, i produttori non hanno il pane. Non ho che un rimpianto, quello di non avere trovato i soldi, che pensavo di recuperare per poterli impiegare nella propaganda rivoluzionaria, e non sarei qui sul banco degli imputati ma intento a fabbricare bombe per farvi saltare in aria”.

A difenderlo è l’avvocato Fernand Labori, giovane avvocato d’ufficio, che poi difenderà Pini, Vaillant, altri compagni anarchici e, ormai famoso, Dreyfus. Il 23 febbraio 1887 la condanna è commutata nei lavori forzati a vita, da scontarsi alla Guyane.

Clément Duval è un anarchico. Le sue Memorie, per quanto ricche di fatti se si vuole fuori del normale e di sofferenze, non sarebbero altro che una storia come tante altre, se non si tenesse presente questa scelta essenziale.

Di fronte alla situazione che Duval trova una volta uscito dal bagno penale, tornato diciamo nella cosiddetta “libertà”, sia pure considerando la difficoltà per un internato di integrarsi non solo nella società ma principalmente nella lotta rivoluzionaria, qualcosa gli fa rimpiangere la deportazione. Come dire, qualcosa gli fa rimpiangere di non essere morto accanto agli altri compagni nelle insurrezioni, o nel corso delle tanti evasioni, senza più uscire dalla situazione del penitenziario. Perché?

La risposta è evidente. Duval è un uomo semplice, appartiene in fondo a un’altra epoca, non è disposto ad accettare le piccole compromissioni di ogni giorno. E queste compromissioni sono moltissime, e quanto dovettero pesargli, una volta uscito dal bagno penale. Le sue ultime parole, rivolte ai compagni, con le quali completa le sue Memorie, sono le seguenti:

«Compagni,

«Vi porgo il rendiconto esatto di una vita vissuta in un inferno, il bagno.

«Vi ho detto, grosso modo, quello che ero, quello che sentivo prima di entrarci.

«Alla mia uscita, vi ho raccontato la mia vita più intima, allo scopo di farvi conoscere i risultati che nessun fisiologo, psicologo professionista potrebbe fare, non avendo sentito essi stessi gli effetti di una vita anormale.

«È per questo che vi dico:

«Se fra di voi vi sono alcuni che non possono più aspettare, che sono stanchi di essere sempre acciaccati, schiacciati, ecc., e vogliono fare giustizia, compagni, andate fino in fondo.

«Ma prima riflettete bene. Perché se avete la debolezza di pensare di rivedere i vostri affetti, sappiate che sarebbe molto sorprendente ritrovarli, dopo tanti anni di assenza, così come dovrebbero essere. Può essere che, come mi è accaduto, vi si subisserà di rimproveri, vi si calunnierà. Avrete il dolore di constatare che voi o i vostri atti non sono stati compresi, o sono stati snaturati. A causa della calunnia vedrete i migliori compagni che vi stimavano staccarsi da voi e restare solo, misconosciuto. A parte la gioia di non esserlo per quei pochi che vi conoscono bene, che vi apprezzano e che vi stimano. Quest’ultimo aspetto mi ha aiutato a sopportare tanti rancori.

«Dunque, compagni, se agite, fatevi piuttosto uccidere sul posto, tagliare la testa.

«Ma non andate mai al bagno penale».
Quando, a proposito delle posizioni assunte dal movimento anarchico francese, nell’insieme della sua ufficialità perbenista, contro Bonnot e i suoi compagni, Duval scrive ad uno dei patriarchi dell’anarchismo, l’allievo di Kropotkin e futuro firmatario del “Manifesto dei Sedici”, Jean Grave, chiedendo spiegazioni della condanna pronunciata, si sente rispondere che lui, Duval, aveva dato con le sue azioni un cattivo esempio e che proprio attraverso il suo esempio “una gran quantità di ruffiani aveva invaso il movimento richiamandosi al suo caso per giustificare i propri appetiti”.

Come si vede, nulla di nuovo sotto il sole.

È logico che chi ha dell’anarchismo una visione quantitativa, non può non essere preoccupato del dilagare, ma anche del semplice loro accennarsi, di episodi capaci di attaccare direttamente la proprietà e le persone dei responsabili dello sfruttamento.

Forse è arrischiato concludere che le preoccupazioni di questi anarchici sono determinate da un loro rifiuto dello scontro e da una gestione possibilista del rapporto con lo Stato. Con ogni probabilità anche loro hanno una concezione conflittuale dell’essere anarchici in una situazione in cui il nemico continua, come sempre, ad opprimere e a sfruttare.

Ma pensano che lo scontro debba essere affidato a grandi movimenti di classe, a larghe componenti della società che soffre e subisce in silenzio, e fin quando questi movimenti non si verificano, aspettano e si limitano a veicolare messaggi critici ed esortazioni ad aspettare il momento opportuno, evitando di diluire le forze in rivolte individuali e velleità prive di senso.

Il gruppo di compagni che da solo, dopo un accordo fra tutti i componenti, inizia il proprio cammino – come la “Pantera” di cui faceva parte Duval – inoltrandosi nel terreno del furto, dell’incendio, del sabotaggio, insomma della distruzione dei beni (e qualche volta anche delle persone) degli oppressori, viene spesso accusato di avere intrapreso una fuga in avanti, una scorciatoia che perde di vista l’obiettivo a lunga scadenza, la rivoluzione delle grandi masse, diretta coscientemente a uno scopo, quello dell’emancipazione definitiva.

Per motivi del tutto inversi, i pochi compagni che da sempre si sono disposti verso una immediata, e diretta, azione di attacco, non vedono gli altri compagni, cioè i sostenitori dell’attesa e dell’organizzazione di grandi masse in vista della rivoluzione, come loro antagonisti.

Anzi, al contrario, tutto il lavoro di chiarificazione, di propaganda, di organizzazione presso gli sfruttati, è visto da questi compagni come un lavoro indispensabile, fruttuoso di conseguenze positive, perché se il furto (per ridurre il ragionamento all’osso) consente di attaccare la proprietà, esso si traduce in definitiva in una punzecchiatura di spillo davanti alla paurosa messe di teste blasonate che si può falciare nel corso di una sola insurrezione popolare ben riuscita, per quanto breve e circoscritta.

Solo che il furto può essere realizzato ora, domani, anche con pochi compagni, e col ricavo del furto si può allargare l’attività rivoluzionaria e anche si può strappare la propria libertà di movimento e di tempo alle rapinose intenzioni sfruttatrici di chi offre salario in cambio di consenso, mentre la grande insurrezione di massa, la rivoluzione sovvertitrice di rapporti produttivi e di valori, può stentare a venire.

E non solo il furto, ma l’attacco distruttivo, il sabotaggio, l’individuazione di un personaggio preciso, quello e non l’altro, oppure di un personaggio qualsiasi appartenente alla classe dei dominatori, ecco, tutto questo è di certo più a portata di mano, e non contrasta con il lavoro degli altri compagni, con l’organizzazione, con la propaganda a lunga scadenza, con i dibattiti e le conferenze, con i comizi, i giornali, i libri e tutti gli altri veicoli con i quali, tradizionalmente o meno, si diffonde l’anarchismo.

Duval sosteneva il movimento, e il guru Jean Grave non poteva smentirlo al momento della sua deportazione alla Guyana. Bonnot e compagni non avevano rapporti certi di questo tipo col movimento, non sembra lo sostenessero direttamente.

Forse se avessero avuto la possibilità di continuare nelle loro attività, clamorose ma in fondo appena iniziate, l’avrebbero sostenuto, e il buon Grave non si sarebbe arrischiato a considerarli dei “ruffiani”.

Dico forse, perché non posso sapere quale strada potevano prendere Bonnot e i suoi compagni. E in fondo non posso sapere nemmeno se il motivo della condanna di Grave sia stato la mancanza di sostegno. Fatto sta che qualche anno dopo, all’epoca dei finanziamenti di Durruti e Ascaso a favore della Enciclopedia di Faure, non vennero fuori condanne del genere da parte delle agguerritissime lingue critiche dell’anarchismo francese. Tutt’altro. Pochi anni, e la fucina santificante del sacrificio spagnolo cancellò per sempre ogni preoccupazione in questo senso. Lo stesso è successo con Sabaté e Facerias. Lo stesso potrebbe succedere anche oggi, per quanto non essendo documentato su quello che accade adesso, preferisco tacere.

È capitato anche a me ascoltare critiche e malignità nei riguardi di compagni che attaccavano ora e subito la proprietà, e si trattava non solo di persone preoccupate per i rischi del proprio orticello, ma anche di chi cercava il pelo nell’uovo per non farsi coinvolgere in operazioni troppo arrischiate per il proprio cuore di coniglio.

Poi, passato il pericolo, il giudizio tornava ecumenico, i compagni (alcuni, nel frattempo, morti) venivano riabilitati, le loro pratiche risultavano “interessanti”. E di questi critici ho in mente solo i migliori.

Duval avverte i compagni del destino che li attende: saranno calunniati e i loro atti resteranno incompresi. Nulla di più vero. Non potrebbe essere diversamente.

Immaginatevi insieme a me, lettori sia pure sospettosi, come mi auguro che siate, di queste pagine, un compagno anarchico impiegato al comune, un altro funzionario di banca, un maestro di scuola, un professore universitario, un operaio sindacato, oppure un disoccupato che trova costante assillo in famiglia per l’impossibilità di trovare un lavoro fisso.

Immaginatevi, vi prego, un padre di famiglia affascinato dalle idee di libertà che l’anarchismo propaganda, idee bellissime che aprono il cuore e sviluppano il cervello, immaginatevi questo padre di famiglia in preda ai quotidiani problemi di come educare la prole, mantenere salda l’unità familiare, dare un avvenire ai propri figli, soddisfare i desideri della moglie, guadagnare di che vivere. Migliaia di compagni vivono queste asperrime contraddizioni. Ne ho visto dei migliori soccombere sotto il peso di una regolarità di gesti e di una sacralità di bisogni. In questo modo i sogni inaridiscono, le idee sfumano, l’abitudine trionfa, l’amarezza e il disinganno distruggono ogni ideale.

L’anarchia resta una vuota parola riempita di ricordi, di sogni dimezzati, di letture soporifere, di avventure vissute per interposta persona. Quello che fino a ieri era ribellione o, almeno, desiderio di contrattaccare il nemico per sentirsi vivi, adesso è metodica rassegna di una visione mortificata del proprio essere anarchici. E questa rassegna, a lungo andare, si trasforma in vigile e gelosa custodia di limiti e precisazioni.

Brava gente questi anarchici.

Grandi lettori di libri, tutti con la loro brava biblioteca a casa, dove in bell’ordine fanno mostra di sé i classici dell’anarchismo e quant’altro è stato pubblicato (ahimè, forse troppo) sull’argomento.

Brava gente, ma sospettosa. Se qualcuno alza un poco la voce, subito si sentono attaccati. Non parliamo se poi qualcuno allunga la mano sulla proprietà altrui. I loro sogni mortificati gridano vendetta.

Ma, siamo sinceri con noi stessi, come potrebbero un impiegato al comune, un bancario (genere che chi scrive conosce molto bene), o un maestro di scuola, non restare turbati davanti all’attitudine di un compagno capace di alzare il braccio e colpire la proprietà altrui?

Non dico che l’impiegato, il bancario, il maestro di scuola, se anarchici, siano a favore della proprietà, tutt’altro, dico che sono contrari, ma soltanto in teoria. L’eliminazione della proprietà deve, per loro, avvenire contemporaneamente all’avverarsi della rivoluzione sociale, quindi in una condizione che renderebbe di fatto impossibile la sua esistenza.

Ogni attacco parziale invece non fa altro che mettere in discussione lo scontro tra avversarsi e sostenitori della proprietà, e siccome loro (gli impiegati al comune, i bancari, i maestri di scuola) si sentono avversari della proprietà, la cosa li fa stare inquieti. Essi sono così sollecitati a chiedersi: “Ma se noi siamo contro la proprietà, perché restiamo al di qua? perché non facciamo qualcosa per attaccarla subito?”.

Tragica domanda, alla quale la risposta più immediata e logica diventa impossibile. Infatti, se rispondessero: “È vero bisognerebbe attaccarla subito e non aspettare che tutto si risolva nella rivoluzione delle grandi masse in movimento”, si scoprirebbero in contraddizione con se stessi, con la propria vita quotidiana, con le imposte da pagare, con i figli cui pensare e tutto il resto.

I libri di anarchia, da soli, non hanno mai insegnato a nessuno ad attaccare la proprietà e il dominio. Certo, sono elementi importanti che concorrono a chiarire le idee dei compagni, che suggeriscono percorsi d’azione e di riflessione. Ma non bastano.

Occorre un elemento in più. Occorre il cuore, la decisione, il coinvolgimento, il superamento di una frattura morale che non è facile da superare. Quando, davanti agli occhi del nostro maestro di scuola, del nostro bancario o del nostro impiegato comunale, passa la figura d’un Duval, essi ne restano affascinati.

Ma si tratta di un’impressione vicaria. Quella figura impersona tutto ciò che loro non sono mai riusciti a fare, che mai saranno capaci di fare, e di questa carenza ne soffrono, e soffrendone se ne forniscono giustificazione, non ultima quella della condanna del gesto d’attacco, diretto, immediato. E dalla giustificazione della propria debolezza alla calunnia per la forza che non si può non ammirare negli altri, il passo è breve.

Non voglio porre al centro dell’attenzione il furto, il sabotaggio, la distruzione degli uomini e delle cose attraverso i quali si realizza lo sfruttamento. La rivoluzione anarchica è faccenda molto più complessa e articolata.

L’argomento è suggerito qui dalla figura di Duval, quindi non ne sto parlando perché il dente duole da quella parte. I progetti rivoluzionari degli anarchici non possono basarsi soltanto sui cinque franchi di contributo cui faceva riferimento Malatesta nell’ambito delle preoccupazioni riguardo le scelte dei suoi compagni.

La decisione di attaccare a livello di piccoli gruppi non è superiore in alcun modo alla lotta di chi si muove diversamente, di chi diffonde le idee anarchiche poniamo distribuendo un giornale, di chi discute e approfondisce i singoli problemi in tutte le occasioni possibili, di chi partecipa a tutta una serie di lotte intermedie che sembrano non avere sbocco, ma che possono sempre innescare la scintilla per fatti insurrezionali di più ampio respiro.

Qui non si pongono questioni disgraziate di graduatorie o di merito. Il problema è invece inverso. Molte delle polemiche che hanno da sempre tagliato a fette il movimento anarchico, molte delle calunnie, fra cui quelle cui faceva riferimento Duval, sono venute da condanne cieche nei riguardi delle scelte di attacco immediato fatte da compagni sostenitori di altre strategie di intervento.

Jean Grave, per fare un esempio lontano, non poteva essere favorevole alla cosiddetta “propaganda con i fatti”, di cui Duval fu uno degli iniziatori, per un suo concetto di fondo dell’anarchismo legato alla progressiva, e illimitata, educazione delle masse, in vista di una gloriosa conclusione rivoluzionaria che avrebbe costruito, da un giorno all’altro, il mondo futuro della libertà.

Certo, questa sua diversa impostazione, del tutto legittima, non giustifica le ignominie realizzate contro compagni (ad esempio contro Bonnot e gli altri) che avevano un altro modo di agire. E quanti sono i compagni che oggi, scelta una diversa forma d’intervento anarchico nella realtà, calunniano e denigrano i compagni che invece, oggi come ieri, insistono nell’attacco diretto e immediato contro persone e cose responsabili dello sfruttamento? Sono di certo legione.

Ma limitiamoci al problema del furto.

In fondo il bisogno di soldi che tutti avvertiamo può essere risolto in due modi: lavorando o rubando. Esiste un terzo modo, che qui escludo per definizione, quello di essere dei rentier, dei ricchi possidenti e non mi risulta che anarchici di questo tipo ne siano esistiti, se non per sbarazzarsi al più presto di quello che la sorte aveva fatto pesare sulle loro spalle.

Certo, esiste qualche industriale che giocando sull’equivoco di essere un individualista, e facendosi i fatti propri nel migliore dei modi, si dichiara anarchico. Ma si tratta soltanto di una questione di parole, non di sostanza. Quindi, esistendo due sole strade per procurarsi i soldi necessari a vivere, bisogna pure scegliere.

Ora, scegliendo la strada del lavoro non c’è dubbio che si fa scelta di tutto rispetto. Chi vende se stesso lo fa sempre per il migliore degli scopi possibili. Per la propria sopravvivenza, per quella dei suoi figli, della sua famiglia. E su questo piedistallo incontrovertibile, si accumula, a poco a poco, la struttura sociale del controllo e della repressione. I bisogni primari producono quelli secondari, dalla ricerca del pane si passa a quella dello status sociale, del riconoscimento da parte degli altri della propria abilità, del proprio essere qualcuno. La casa, l’auto, le ferie, i viaggi, i gioielli. Piccole cose, per carità.

Ma quale anarchico potrebbe negare ai propri figli il diritto di prendere una laurea? E questo anche quando tutti i ragionamenti critici conducono a dimostrare che si tratta di uno specchietto per le allodole. Perché mai dovrebbe essere proprio suo figlio l’allodola di turno? Perché mai suo figlio non potrebbe riuscire in quella scalata alla gerarchia sociale che spetterà poi soltanto a lui rifiutare, o accettare, e non ad una condizione preventiva determinata dalle scelte del padre? E qui il cerchio si salda.

Il lavoratore produce lo sfruttamento e lo sfruttamento riproduce il lavoratore.

La rottura del circolo vizioso è affidata ad elementi esterni, estranei alla volontà del singolo: crisi del capitale, scontri epocali fra grandi Stati, diluvi universali, funghi radioattivi. In mancanza di tutto questo: l’attesa. La preparazione, perdio, questa sì, che gli anarchici si preparano continuamente, la preparazione e l’approfondimento critico, la lettura, sempre di più, sempre meglio, e, perché no, anche dei testi più estremi e feroci.

Conosco anarchici che hanno chiamato il proprio gatto Bakunin e il proprio cane Bonnot, ma che non escono di casa la sera dopo le dieci per paura di fare brutti incontri o di essere derubati.

I profondi cambiamenti che sono intervenuti nella formazione produttiva hanno modificato il ruolo del lavoratore. I tempi di Duval sono lontani. Oggi il lavoratore è, se possibile, ancora più responsabile dello sfruttamento di quanto non lo fosse all’epoca di Duval.

La miseria e l’ignoranza generalizzate determinavano un bisogno estremo del lavoro, fino a quei livelli in cui non c’è più tempo per ragionare: o si muore o si accetta il tozzo di pane. L’inedia e le malattie ponevano spesso l’alternativa tra la morte immediata nella miseria o la ribellione cieca e senza sbocco.

Ciò faceva vedere diversamente (e in fondo diverso lo era) il lavoro e la sua funzione. La società liberata di domani poteva essere vista come una continuazione della società dello sfruttamento di oggi. Certo continuazione nella rottura (rivoluzionaria), ma sempre continuazione. Il lavoratore era orgoglioso del proprio mestiere. Duval era orgoglioso di essere fabbro, di manipolare con le proprie mani una materia forte come il ferro e i metalli, Léauthier si faceva punto d’onore di colpire il nemico col proprio strumento di lavoro, la lesina, mentre Marpaux era definito negli stessi rapporti di polizia un “buon lavoratore”, questo per restare fra i compagni di Duval.

In sostanza, però, i lavoratori più sfruttati, le fasce estreme della miseria che si vende al datore di lavoro, erano la stragrande maggioranza. La struttura piramidale della produzione, fortemente centralizzata, era in mano a pochi proprietari, a una fascia trascurabile di dirigenti e capiciurma, ma si basava in fondo su innumeri poveracci che soffrivano di essere ributtati sul lastrico ad ogni minima modificazione delle leggi di mercato.

E qui si inserisce una riflessione che spesso viene trascurata.

Le lotte rivendicative hanno alzato il livello di vita dei lavoratori, portandolo se non al benessere per tutti almeno ad una condizione di sufficiente disponibilità finanziaria. Nello stesso tempo le condizioni stesse di lavoro, la vita nella fabbrica, sono cambiate.

Miglioramenti e meccanismi assicurativi e pensionistici hanno reso più forte la condizione finanziaria e sociale del lavoratore. Questo innalzarsi della situazione di partenza, invece di tradursi in una maggiore possibilità di lotta, fatto che nelle ingenue pretese dei sostenitori delle lotte operaie e sindacali era quasi scontato, si è rivelato come l’inizio di un indebolimento. La trasformazione del capitalismo post-industriale ha fatto il resto.

Ma limitiamoci qui a questo grosso problema dell’indebolimento conflittuale conseguente all’innalzarsi del livello di vita dei lavoratori.

Di per sé la cosa si presenta molto comprensibile e trova riscontro in qualsiasi campo delle umane relazioni. Ne vedremo subito dopo le specificità nell’ambito della repressione pura e semplice. Perché allora risulta ancora oggi di così difficile comprensione? Perché si vogliono ignorare le conseguenze che sul singolo ha l’integrazione all’interno del sistema produttivo.

Oggi il lavoratore produce qualcosa che nella settorializzazione della formazione economica gli sfugge e che quindi non capisce, ma la rielaborazione dell’oggetto prodotto, rielaborazione in termini di simbolo sociale, gli viene offerta come se fosse a portata di mano. In altri termini, il lavoratore di oggi è solo in modo trascurabile il fabbro che era Duval, al contrario produce ad esempio automobili ma non ne vede la materiale realizzazione fra le proprie mani.

Il computer, il robot, la linea sincronizzata, la distanza, l’immagazzinamento diffuso nel territorio, tutto questo gli sottrae la visione diretta della cosa prodotta, la quale gli viene poi fornita come oggetto di consumo attraverso il sistema commerciale e distributivo, che trasforma quella cosa in simbolo capace di fornire status, quindi riconoscimento e verifica del proprio successo individuale.

La circolazione degli oggetti trasformati in simbolo, quindi sostituiti nel loro antico valore d’uso da un insieme – non ben differenziabile – di valore simbolico e valore di mercato, non si limita al solo momento economico (consumo e produzione), ma coinvolge la società nel suo insieme, una società di simboli e di bisogni indotti alla cui necessità non è quasi più possibile sottrarsi.

In questo modo, il lavoratore, diventato più ricco da un lato, ritorna dall’altro lato ad essere povero, commutatore di una circolazione fittizia di ricchezza che non lo arricchisce per niente ma che lo rende sempre più disarmato complice e manutengolo di fronte al nemico sfruttatore.

La ribellione di oggi, anche quella di Duval, non può quindi più passare attraverso la dimensione positiva del lavoro. Non ci saranno più compagni che in tribunale, rivendicando i loro furti e quanto altro hanno deciso di fare, affermeranno, con l’orgoglio di una volta, di essere stati privati di tutto e quindi di avere il diritto alla “ripresa individuale”, in attesa della ripresa collettiva.

L’attacco contro la proprietà e contro i responsabili dello sfruttamento, il sabotaggio, la distruzione pura e semplice di quanto opprime, non può nascere più dall’impossibilità di trovare lavoro, ma sempre più spesso nascerà dalla cosciente rinuncia alle lusinghe del lavoro.

Ora, la critica del lavoro non è problema semplice ed è bene che i compagni vi pongano mente con attenzione. Non l’approfondisco qui avendolo fatto altrove in maniera più dettagliata (vedi “Anarchismo” n. 73, pp. 21-34, ora in opuscolo: Distruggiamo il lavoro, Trieste 2007).

Legato al medesimo rapporto tra miglioramento delle condizioni e minore incidenza delle capacità di lotta è l’insieme delle considerazioni che intraprendo, riguardante l’ambiente repressivo in cui Duval si trovò dopo la sua condanna.

La Cayenna resta ancora nell’immaginazione di tutti noi il massimo dell’abbrutimento e della ferocia. Quando, leggendo un romanzo o magari vedendo le immagini di un film, ricostruiamo per nostro conto quelle esperienze, ne rabbrividiamo. Mi sono chiesto cosa avremmo potuto e saputo fare in quelle condizioni. Anche quelli fra noi che hanno conosciuto il carcere e la tortura, nella maniera in cui sono diventati faccenda quotidiana nel mondo in cui viviamo adesso, continuiamo a chiederci come avremmo reagito di fronte a condizioni di tortura e di detenzione correnti nelle isole della Guyana.

Una risposta superficiale potrebbe essere quella che anche là avremmo, come Duval e i suoi compagni, sputato in faccia agli aguzzini la nostra sfida di anarchici. Non ne sono tanto sicuro. Non ne sono sicuro come anarchico che cerca di guardare le cose criticamente, non ne sono sicuro come uomo che ne ha viste troppe, e di troppo brutte, per non conoscere un poco il cuore degli uomini, il cuore degli uomini miei contemporanei.

Non c’è dubbio che ci siamo infiacchiti. Tutti, senza eccezione. Il livellamento della società in cui viviamo ci ha trasformato in mediatori e opportunisti. Sul piano ipotetico non di certo, sul piano concreto resta da vedere. Ho conosciuto compagni che sembrava volessero mangiarsi il mondo, dopo cinque, dieci anni di carcere, li ho visti accettare un compromesso qualsiasi pur di venire fuori dalla situazione in cui si trovavano. Per carità, nulla di grave: né spiate o vendita di compagni, niente di tutto questo, ma un semplice assenso alle proposte dello Stato. Dopo tutto, cosa chiedono questi nostri persecutori d’oggi: una piccola dichiarazione, un gesto di distensione, qualche rigo sulla carta, nient’altro. Perché non accettare e tirarsi fuori dai guai?

Il fatto è che siamo tutti infiacchiti. Tutti. Come reagiremmo nei riguardi di uno Stato che al posto della carta da firmare ci proponesse un anno di catene ai piedi a pane e acqua, in una temperatura tropicale, chiusi in un sotterraneo con la sola compagnia dei topi?

La risposta immediata (e superficiale) sarebbe quella che in questo caso accetteremmo molto prima. E invece non è così. Questa risposta non coglie il problema e non rende giustizia alle mie considerazioni. Non sto dicendo infatti che quanto peggio vanno le cose tanto meglio per la lotta rivoluzionaria, sto dicendo una cosa più complessa. Le cose non possono peggiorare per la libidine di un qualsiasi aguzzino di periferia. Ciò può accadere (personalmente l’ho sperimentato in diverse occasioni), ma si tratta di casi particolari. Le condizioni in cui si venne a trovare Duval corrispondevano ad una situazione complessiva del mondo qual era all’epoca, nella fabbrica, nella famiglia, nella vita quotidiana e, quindi, anche nelle carceri e nella speciale condizione dei deportati.

Una società violenta e impietosa, dove i padroni non facevano nulla, o quasi, per nascondere le proprie intenzioni, e gli esecutori delle opere di bassa e alta giustizia, agivano di conseguenza. Meno ipocrisia, meno perbenismo, meno chiacchiere, meno assistenzialismo, meno democrazia. Chi attaccava la proprietà sapeva a cosa andava incontro. Chi distribuiva un volantino anarchico poteva anche prendere fino a otto anni di lavori forzati. Eppure c’erano i compagni che distribuivano volantini, che affiggevano manifesti, ed erano tanti, e non avevano paura, e non facevano calcoli.

Pensate, anche oggi noi anarchici affiggiamo manifesti e distribuiamo volantini, e parliamo, e critichiamo, e tutto il resto, ma a quali rischi concreti andiamo incontro? Pochi mesi di carcere nella peggiore delle ipotesi. Se oggi, da un giorno all’altro, per un’invenzione del potere, l’attività degli anarchici venisse punita con otto anni di lavori forzati, quanti di noi la continuerebbero? Pochissimi, forse nessuno. E non perché, singolarmente presi, i compagni di oggi siamo più codardi e più calcolatori di Duval, ma solo perché la situazione complessiva della società rende illogica una condanna così alta, non commisurata all’evolversi dei nostri costumi, quindi impensabile, e come tutte le cose impensabili non può essere facilmente immaginata.

Per un altro verso, il miglioramento delle condizioni complessive della società, come dicevo, ci ha infiacchiti, quindi resi inadatti ad una radicalizzazione dello scontro.

Se questa dovesse verificarsi, per motivi endogeni alla composizione strutturale della società, cioè per un movimento interno alle diverse componenti di quest’ultima, sapremmo affrontare gli ostacoli che si presenteranno (come si è visto nella ex Jugoslavia, la barbarie più assoluta è appena alle porte della società più avanzata e non impiega molto tempo ad arrivare).

Ma, fin quando questi movimenti oggettivi non si verificano, nell’ambito delle nostre capacità individuali di affrontare una situazione repressiva, il più delle volte, ci facciamo impressionare troppo facilmente.

Il perbenismo (apparente) della democrazia ci ha infiacchiti, per portare il colpo fino in fondo. Così ci facciamo mille scrupoli. Gli anarchici, brava gente.

Duval e i suoi compagni non erano così. Quei tempi erano troppo diversi dai nostri. Ecco perché, nel leggere le loro azioni, adesso, a distanza di tanti anni, corriamo il rischio di ammirarle e basta, di trasformarle in letture edificanti.

Ma non appena solleviamo il velo degli imbrogli democratici, ci accorgiamo che la distanza tra il potere e chi lo subisce è rimasta la stessa.

Da un lato gli inclusi, ormai quasi del tutto al sicuro nei loro fortilizi medievali, disposti solo a mercanteggiare migliori condizioni per garantirsi la perpetuità del dominio, dall’altro gli esclusi, sempre più disarmati, sempre più stupidi. Fra i tanti risultati della strategia possibilista c’è quello che questa strategia ci ha dissuaso dall’impiegare nella lotta tutti gli strumenti possibili, senza esclusione di colpi.

Ci hanno così reso galantuomini abituati a discutere e a dibattere in assemblea, ma non adatti a quella lotta al coltello che è ancora la dimensione possibile contro gli oppressori. Mentre loro, i nostri carissimi maestri di perbenismo, possono in qualsiasi momento aspettarci dietro l’angolo con i mitra spianati, e farci secchi in tutta buona coscienza, oppure torturarci nel fondo d’una prigione di periferia e, lontani dalla luce del sole, dichiarare ufficialmente la nostra morte per sopravvenuto collasso cardiaco.

Ma ogni categorizzazione lascia il tempo che trova. Innumeri sono i miserabili che giacciono sotto lo sfruttamento senza ribellarsi, accettando quel poco che viene loro dato come ricompensa, sognando un’ascesa sociale impossibile, e percorrendo sempre la stessa via della sofferenza e della sopportazione.

Allo stesso modo, una grande schiera formano i venduti che sostengono il potere con la forza delle braccia o con l’acume del cervello, poliziotti o illustratori delle virtù taumaturgiche dei dominanti di turno, aspettano anche loro che le cose migliorino finendo poi nel tramonto della pensione.

Dalle più alte cariche, dove diventa tangibile il gioco del potere, cariche piene di responsabilità e di ignominia, fino al più stupido dei servitori dello Stato, e, trasversalmente, dall’ultimo produttore, che soffre costruendo qualcosa che ormai gli è diventato incomprensibile, fino al quadro intermedio, sicuro di sé e del misero benessere che gli viene garantito, nessuno è veramente contento della propria situazione.

Anche l’alto burocrate, che accumula denaro e cariche, che ha ormai acquisito uno status inattaccabile, è scontento della propria situazione, e in questo si collega stranamente col più misero sfruttato che cerca di sopravvivere, ma, quasi sempre, né l’uno né l’altro si ribellano. Il primo per apparenti buoni motivi di raggiunta agiatezza, il secondo per altrettanto apparenti buoni motivi di insoddisfazione e di miseria.

Ma, l’agiatezza o la miseria, rispettivamente, possono soddisfare l’uomo? Oppure, nel secondo caso, renderlo automaticamente un ribelle? No. Occorre qualcosa d’altro. E quando questo qualcosa c’è, ecco che scatta la ribellione.

Insomma, la miseria da sola non basta a fare un ribelle, come, per altro, l’agiatezza, da sola, non basta a fare un soddisfatto di sé e del proprio ruolo di privilegiato sfruttatore. Spesso la miseria produce altra miseria, e nell’appannarsi della coscienza di sé, l’adeguamento e la sopportazione, magari la fede cristiana in un mondo migliore dopo la morte. Spesso, molto spesso, l’agiatezza produce desiderio di maggiore dominio, di scalata sociale, di accumulazione e riconoscimenti da parte degli altri.

Ma non si tratta di modelli assoluti. Ribelli se ne trovano di diversa estrazione. Anzi, spesso, la miseria come motivazione del proprio istinto di rivolta non è un buono e sicuro fondamento.

Il ribelle sconvolge la propria condizione di partenza, quindi, sia questa la miseria o l’agiatezza, egli si pone contro di essa, e non è detto che sia più facile lottare contro la miseria, non esistono chiarezze in questo campo, e tutti i luoghi comuni del passato andrebbero rivisti senza chiusure ideologiche.

Un nuovo modo di concepire la vita (che cos’altro sarebbe la ribellione?), non si costruisce senz’altro mettendo in rotta il precedente modo, ma penetrandovi in mezzo, sconvolgendo schemi e categorie, criticando concezioni superate e false, e quindi facendo fremere i propri desideri, rivolgendoli verso l’assolutamente altro ma anche verso il di già conosciuto perché diventi diverso e inaccettabile nella dimensione precedente.

Spesso il ribelle si trova nella tragica situazione di capire e non capire, nello stesso tempo, quello che gli sta accadendo, pertanto di contraddire e contraddirsi, di andare incontro al nuovo, quindi alla distruzione del vecchio, e di restare innamorato di sensazioni e ricordi, appartenenti al vecchio. Non c’è una linea retta che sancisce la direzione del progresso. Niente muore in noi una volta per tutte o nasce definitivamente a nuova vita. Il ribelle non è mai sacro in tutti i suoi aspetti. Nessuna ribellione sacralizza la vita al di là di ogni possibile dubbio.

Ci fu un tempo in cui in tanti abbiamo pensato la rivoluzione come processo se non proprio semplice, almeno lineare. I più avventurosi avanzavamo dubbi, ma in fondo questi dubbi finivano per costituire discorso marginale, tenendo conto del dilagare di un movimento che sembrava inarrestabile. Le infatuazioni ideologiche, come gli amori acerbi, sono fra le più irriducibili. La lezione degli eventi ha portato riflessioni più mature.

Alcuni, cogliendo il senso mortale di queste riflessioni, hanno ripiegato in buon ordine accettando l’offerta del potere, riempendo gli interstizi di una collaborazione contraccambiata con poche miserabili briciole.

Altri, cogliendo il senso vitale di tali riflessioni, hanno allargato il proprio orizzonte critico, approfondendo gli spunti che prima sembravano privi di fondamento. Così, i nuovi concetti non mettono da parte i vecchi (quanto desiderio di “fine dello scontro” c’è nel mettere da parte il di già accaduto), ma li sconvolgono fino in fondo, rendendoli diversi e pronti a svilupparsi verso nuovi concetti. La vita sarebbe un bagno incolore e privo di senso se non si riuscisse a leggerla attraverso una continuazione delle idee e dei sentimenti.

Abbiamo finalmente capito che nessuna rivoluzione sarà il risultato della somma di determinati avvenimenti, siano questi ultimi vicende dell’individuo o fatti sociali generalizzati. Il destino del quantitativo è quello di generare le condizioni per una ulteriore crescita, e così all’infinito. Non c’è un limite in questa direzione.

Capito questo non sappiamo ancora cosa determina, nella sua concretezza di scelte individuali radicali, la ribellione. Perché un Duval agisce come agisce? La miseria, il temperamento, le letture anarchiche, la frequentazione degli ambienti di lavoro dove fermentano stimoli rivoluzionari, il caso? Che cosa produce un ribelle? Non lo sappiamo. Quello che possiamo indicare, di volta in volta, sono le scelte e le conseguenze di queste scelte, per giunta osservate nell’ottica deformata della ricostruzione.

Il cuore o, per meglio dire, i sentimenti.

Ma possono i sentimenti essere, al contrario, elementi d’ordine, di cautela e, in definitiva, di acconsentimento? Certo che possono. Non esiste un’equivalenza tra sentimenti e ribellione, il che suonerebbe come a dire che per ribellarsi occorre mettere a dormire la ragione.

L’intelletto e la conoscenza, il pensiero riflessivo e lo studio, possono essere elementi importanti dell’azione rivoluzionaria, la quale diamo qui per inteso che comincia dalla rivolta individuale, ma non ne esauriscono la composizione. Ogni aspetto riflessivo conduce ad una presa di coscienza: sappiamo di più, non possiamo nasconderci dietro la scusa di non sapere.

Ma non ogni presa di coscienza conduce automaticamente alla rottura dell’equilibrio, alla dimensione dell’attacco. Spesso la conoscenza, il pensiero, appesantiscono l’azione, non ne agevolano lo sviluppo. Altre volte accade il contrario, ma come orientarsi?

Non esiste una regola generale, neanche una tendenza sufficientemente comprensibile. Il più delle volte non sono gli interessi colpiti che smuovono alla ribellione, quanto la dignità offesa. E per la risposta contro l’oppressore, risposta che poi diventa attacco nel corso della propria maturazione, basta molto poco.

La schiavitù di un solo uomo sulla terra è la mia schiavitù, in quanto a causa della sua sofferenza io non potrò mai essere libero. Come si vede, qui ci troviamo al di là della semplice rivendicazione. Solo a seguito di un traslato penalizzante i contenuti si può ritenere una difesa dei propri interessi (poniamo un discorso sindacale) una lotta contro la dignità offesa. Certo, le vie della rivolta sono tortuose ma presentano delle analogie.

Duval matura all’azione nella miseria e nelle difficoltà della vita, ma anche nell’approfondimento teorico, nella discussione, nelle assemblee popolari. Poi, in maniera conseguente, riflette sul da farsi, si procura i mezzi per agire (prima di tutto i soldi), attacca il nemico. Quando si è convinti di quello che si fa, tutto diventa elementare. Poi, nulla può fermarci. L’unità di teoria e azione una volta realizzata non la si spezza facilmente.

Altrove, le chiacchiere, le distinzioni, le attese.

(Parte di quanto pubblicato come Introduzione a Clément Duval, Memorie autobiografiche, Arkiviu-Bibrioteka “T. Serra”, Guasila 1996, pp. 7-50 e in A mano armata [1998], II ed., Edizioni Anarchismo, Trieste 2009, pp. 88-89 e 94-116.)

 

 

Alfredo M. Bonanno
Problem krađe. Clément Duval
Clément Duval rođen je u pokrajini Sarthe, u Francuskoj, 1850. godine. Dana 17. listopada 1886. uhapšen je u Parizu. Tokom hapšenja zadao je nekoliko uboda nožem inspektoru Rossignolu. 12. siječnja porotni sud ga osuđuje na smrtnu kaznu.

Duval je pripadao skupini „La Panthère des Batignolles”, koja je okupljala drugove koji su slijedili anarhističku tezu tada poznatu pod imenom „propaganda djelom”.

U međuvremenu je počinio niz krađa, s drugovima, da bi financirao aktivnosti anarhističkog pokreta. On sebe samog ne naziva „lopovom”, nego „pokradenim”, kao što ćemo vidjeti kasnije kada budemo analizirali njegovu izjavu pred sudom.

Zadnja krađa, počinjena u jednoj bogatoj kući u rue de Monceau, popraćena je požarom, kojim Duval i njegovi drugovi žele uništiti tragove bogatstva koje ne mogu ponijeti sa sobom. Već sutradan Duval je uhapšen kod jednog utajivača.

Na ispitivanju, tokom prvog dana suđenja, brzo i direktno odgovara na pitanja predsjednika Bérarda des Glajeuxa: „Da, paraziti ne smiju posjedovati dragulje dok radnici, proizvođači nemaju kruha. Samo se toga kajem, da nisam našao novac kao što sam očekivao, da bih ga uložio u revolucionarnu propagandu, te sada ne bih bio ovdje na optuženičkoj klupi, bio bih zauzet izradom bombi da bi vas digao u zrak”.

Brani ga odvjetnik Fernand Labori, mladi odvjetnik po službenoj dužnosti koji će kasnije braniti Pinia, Vaillanta i još neke anarhističke drugove te naposljetku, već poznat, Dreyfusa. 23. veljače 1887. osuda je pretvorena u doživotnu robiju na Francuskoj Gvajani.

Clément Duval je anarhist. Njegovi Memoari, mada bogati činjenicama koje su ponekad neobične i ispunjeni patnjama, bili bi samo još jedna priča kao mnoge druge kada ne bi imali na umu ovo osnovno opredjeljenje.

Suočivši se sa situacijom koju susreće kada je napokon oslobođen i vraća se na takozvanu „slobodu”, uzevši u obzir i poteškoće na koje robijaš nailazi pri ponovnom uključenju ne samo u društvo nego ponajprije u revolucionarnu borbu, Duval ipak na neki način žali za robijom. To jest, iz nekog razloga žali da nije umro uz drugove tokom ustanaka ili tokom jednog od mnogih bjegova, da nikada nije izašao iz kaznionice. Zašto?

Odgovor je očigledan. Duval je jednostavan čovjek, na koncu pripada nekom drugom vremenu, ne želi prihvatiti male svakidašnje kompromise. Ti kompromisi su brojni i on ih je vjerojatno teško podnosio, nakon što je izašao s robije.

Njegove zadnje riječi, upućene drugovima, kojima završava Memoare:

Drugovi,

Nudim vam točan izvještaj jednog života provedenog u paklu: na robiji.

Rekao sam vam otprilike što sam bio, što sam osjećao prije nego što sam otišao na robiju.

Kad sam izašao, pripovijedao sam vam svoj najintimniji život, da bih vas upoznao s rezultatima koji nijedan fiziolog ili profesionalni psiholog ne bi mogao dobiti, budući da nisu osobno osjetili posljedice nenormalnog života.

I zato vam kažem:

Ako među vama postoji netko koji više ne može čekati, koji je umoran od stalnog potlačivanja, izrabljivanja itd., i koji hoće izvršiti pravdu, drugovi, idite do kraja.

Ali najprije dobro razmislite. Jer ako ste prostodušni i mislite da ćete opet vidjeti vama drage osobe, trebate znati da bi bilo jako iznenađujuće susresti ih, poslije toliko godina odsustva, onakve kakve bi trebale biti. Može biti da će vam se, kao što se meni desilo, beskonačno zamjeriti i oklevetati vas. Osjetit ćete bol što vi ili vaši činovi nisu shvaćeni ili su izvrnuti. Zbog klevete vidjet ćete kako vas vaši najbolji drugovi, koji su vas nekada poštovali, sada napuštaju, i ostat ćete sami i nepriznati. Osim radosti da to ipak niste za nekolicinu onih koji vas dobro znaju, poštuju i cijene. Ovo mi je pomoglo da podnesem mnoge mržnje.

Dakle, drugovi, ako djelujete, bolje da vas ubiju na licu mjesta, da vam odrube glavu.

Ali na robiju, nikada.
Kada Duval piše jednom od patrijarha anarhizma, Kropotkinovu učeniku i budućem potpisniku „Manifesta šestnaestorice”, Jeanu Graveu, pitajući ga da objasni osudu koju je francuski anarhistički pokret, u svojoj službeno namještenoj pristojnosti, iznio protiv Bonnota i njegovih drugova, dobiva odgovor da je on, Duval, sa svojim činovima dao loš primjer i da je baš kroz njegov primjer „velika količina svodnika poplavila pokret, pozivajući se na njegov slučaj da bi opravdali svoje apetite.”

Kao što vidimo, ništa novo pod suncem.

Logično je da tko ima kvantitativni pristup anarhizmu bude i zabrinut kada se šire, i čak kada se tek pojave, epizode u kojima se direktno napadaju vlasništvo i osobe odgovorne za izrabljivanje.

Vjerojatno bi bilo pretjerano zaključiti da brige tih anarhista proizlaze od odbijanja borbe i da su otvoreni za pregovore s državom. Najvjerojatnije i oni sami zamišljaju anarhizam kao sukob u situaciji gdje neprijatelj nastavlja, kao uvijek, tlačiti i izrabljivati.

No, oni smatraju da sukob treba povjeriti velikim klasnim pokretima, velikim dijelovima društva koji pate i trpe u tišini, a dok god se ovi pokreti ne pojave oni čekaju i ograničavaju se na poruke kritika i primjedbi kako treba čekati pravi trenutak, da se ne bi razvodnile snage u individualnim pobunama i besmislenim prohtjevima.

Skupina drugova koja sama, nakon dogovora među svim svojim članovima, započinje svoj put – kao „Pantera” kojoj je Duval pripadao – na područjima krađe, požara i sabotaže, ukratko na uništavanju dobara (a ponekad i osoba) tlačitelja, često se optužuje da poduzima skok unaprijed, da slijedi neki sporedni put koji gubi iz vida dugoročni cilj, tj. revoluciju velikih masa, svijesno upućenu svrsi definitivnog oslobođenja.

Zbog potpuno obrnutih razloga, rijetki drugovi koji su oduvijek spremni za neposredan i direktan čin napada, ne vide ostale drugove koji podržavaju čekanje i organiziranje velikih masa u svrhu revolucije kao antagoniste.

Naprotiv, ovi drugovi vide čitav jedan rad sačinjen od objašnjenja, propagande, organizacije pri izrabljenima, kao neophodan rad, pun pozitivnih posljedica, jer, da bi saželi razmišljanje do krajnosti, ako je istina da krađa napada vlasništvo, ona postaje tek ubod igle naspram strahovite berbe ukrašenih glava koju jedan uspješni narodni ustanak, mada kratak i prostorno ograničen, može učiniti.

Ali, krađa se može počiniti sada, sutra, i to s malobrojnim drugovima, a novcem se može proširiti revolucionarno djelovanje, može se prisvojiti sloboda kretanja i vremena pljačkaškim namjerama onih koji nude plaću tražeći zauzvrat suglasnost, dok veliki masovni ustanak, revolucija koja će srušiti odnose proizvodnje i vrijednosti, može izostajati.

Ne samo krađa, nego i destruktivni napad, sabotaža, raspoznavanje jedne određene osobe, one a ne druge, ili bilo koje osobe koja pripada vladajućoj klasi, sve to je zasigurno pri ruci i ne sprečava rad ostalih drugova, organizaciju, dugoročnu propagandu, rasprave i konferencije, skupove, novine, knjige i sva ostala sredstva čime se, tradicionalno ili ne, širi anarhizam.

Duval je podržavao pokret, i guru Jean Grave nije ga smio iznevjeriti u trenutku deportacije u Gvajanu. Bonnot i drugovi nisu imali jasne odnose ovog tipa sa pokretom, izgleda da ga nisu direktno podržavali.

Možda, da su imali priliku da nastave sa svojim djelovanjem, glasnim ali tek započetim, podržali bi ga, i dobar Grave se ne bi bio usudio da ih smatra „svodnicima”.

Kažem „možda”, jer ne mogu znati u kojem smjeru bi se bili uputili Bonnot i njegovi drugovi. I, na kraju krajeva, ne mogu ni znati da li je razlog Graveove osude bio nedostatak podrške. Ali činjenica je da se nekoliko godina kasnije, za vrijeme Durrutijevih i Ascasovih financiranja Faureove Enciklopedije, nisu pojavile slične osude sa strane borbenih kritičkih jezika francuskog anarhizma. Naprotiv. Još nekoliko godina i blagoslivljajuća radionica španjolskog žrtvovanja će zauvijek izbrisati svaku sličnu zabrinutost. Isto se desilo sa Sabatéom i Faceriasom. Isto bi se moglo desiti i danas, mada budući da ne posjedujem informacije o onome što se danas dešava, radije šutim.

I meni se desilo da čujem kritike i zlobe prema drugovima koji su napadali vlasništvo sad i odmah, a to nisu bile samo osobe zabrinute zbog rizika za svoje dvorište, nego i ljudi koji su cjepidlačili kako se ne bi upustili u operacije preopasne za njihovo kukavičko srce.

Kasnije, kada je opasnost prošla, sud bi opet postao ekumenski, drugovi (neki od njih u međuvremenu mrtvi) bi se rehabilitirali, a njihova djela bi postala „zanimljiva”. A mislim samo na one najbolje među tim kritičarima.

Duval upozorava drugove o sudbini koja ih čeka: oklevetat će ih i njihova djela neće biti shvaćena. Istina. Ne bi moglo biti drugačije.

Zamislite sa mnom, sumnjičavi čitatelji ovih stranica, kao što se nadam da jeste, nekog anarhističkog druga koji radi kao činovnik u općini, još jednog koji radi u banci, nekog nastavnika, nekog sveučilišnog profesora, nekog sindikalnog radnika, ili nekog nezaposlenog koji se stalno suočava sa poteškoćama u obitelji jer ne može naći stalan posao.

Zamislite, molim vas, nekog oca očaranog idejama slobode koje anarhizam širi, prelijepe ideje koje otvaraju srce i razvijaju mozak, zamislite ovog oca koji se suočava sa svakodnevnim problemima o obrazovanju djece, o održavanju jedinstva obitelji, zabrinut da ponudi nekakvu budućnost svojoj djeci, da zadovolji ženine želje i zaradi nešto za život. Tisuće drugova žive u ovim gorkim proturječnostima. Vidio sam najbolje među njima kako stradaju pod težinom redovitosti pokreta i svetošću potreba. Njihovi snovi uvenu, ideje potamne, navika pobjeđuje, gorčina i razočaranje uništavaju svaki ideal.

Anarhija ostaje jedna prazna riječ, ispunjena sjećanjima, raspolovljenim snovima, uspavljujućim čitanjima, pustolovinama doživljenim preko treće osobe. Ono što je do jučer bilo pobuna, ili barem želja da se napadne neprijatelj kako bi se osjetili živima, sada je uredna smotra mrtvog nazora onoga što znači biti anarhist. I ova smotra s vremenom postaje oprezno i ljubomorno čuvanje granica i određivanja.

Dobri ljudi, ti anarhisti.

Veliki čitači knjiga, svaki sa svojom dobrom knjižnicom kod kuće, gdje se uredno pokazuju klasici anarhizma i sve što se o tome objavilo (možda čak previše).

Dobri ljudi, ali sumnjičavi. Ako netko podigne glas odmah se osjećaju napadnutim. A da ne govorimo o tome kada netko ispruži ruku na tuđe vlasništvo. Njihovi poniženi snovi traže osvetu.

Ali budimo iskreni, kako se jedan općinski činovnik, jedan bankar (vrsta koju autor vrlo dobro poznaje), ili nastavnik ne bi uznemirio zbog stava nekog druga koji je sposoban da digne ruku i napadne tuđe vlasništvo?

Ne kažem da činovnik, bankar, nastavnik, ako je anarhist, podržava vlasništvo, naprotiv, kažem da je protiv njega, ali samo u teoriji. Za njih se otklanjanje vlasništva mora desiti istovremeno sa socijalnom revolucijom, dakle u uvjetima kada bi njegovo postojanje bilo ustvari nemoguće.

Svaki djelomični napad, naprotiv, ispituje sukob između protivnika i pristalica vlasništva, i budući da se oni (činovnici, bankari, nastavnici) osjećaju protivnicima vlasništva, uznemiruju se. Oni se dakle moraju pitati: „Ako smo protiv vlasništva, zašto onda ostajemo s ove strane? Zašto ne učinimo nešto da ga odmah napadnemo?”.

Tragično pitanje, na koje najlogičniji i najjednostavniji odgovor postaje nemoguć. Dakle, kada bi odgovorili „Istina je, trebalo bi ga smjesta napasti, a ne čekati da se riješi kroz revoluciju velikih masa u pokretu”, oni bi se našli u proturječnosti sa samim sobom, sa svojom svakodnevnicom, sa porezima koje trebaju platiti, s djecom o kojoj se trebaju brinuti i sa svim ostalim.

Knjige o anarhiji, same po sebi, nisu nikada naučile nikoga da napadne vlasništvo i vlast. Zasigurno, to su važni elementi koji pomažu razjasniti ideje drugova i predlažu pravac akcije i razmišljanja. Ali nije dovoljno.

Potreban je još jedan element. Potrebno je srce, odluka, sudjelovanje, treba premostiti jednu moralnu frakturu koju nije lako premostiti. Kada pred očima našeg nastavnika, našeg bankara ili našeg običnog činovnika prolazi lik kao što je Duval, on ih očara.

Ali to je lažan osjećaj. Taj lik utjelovi sve što oni nisu nikad mogli učiniti, i što nikada neće moći učiniti, i od tog nedostatka pate, i pateći opravdavaju se, da bi na kraju došli do osuđivanja direktnog, neposrednog napada. Od opravdanja svoje slabosti do klevete zbog snage kojoj se moraju diviti u drugima, lako je stići.

Ne želim staviti u prvi plan krađu, sabotažu, uništavanje ljudi i dobara kroz koje se ostvaruje izrabljivanje. Anarhistička revolucija je nešto složenije i zamršenije.

Ovdje temu sugerira lik Duvala, dakle ne govorim o tome zato što zub boli s ove strane. Revolucionarni projekti anarhista ne mogu se temeljiti samo na onih pet franaka doprinosa o čemu je govorio Malatesta, zabrinut za odluke svojih drugova.

Odluka da se krene u napad u malim skupinama nije nikako naprednija od borbe onih koji se kreću drugačije, šireći anarhističke ideje, na primjer dijeleći novine, razgovarajući i analizirajući pojedinačne probleme u svakoj prilici, sudjelujući u posrednim borbama koje izgledaju bezizlazne, ali koje uvijek mogu biti iskre za ustaničke činove većeg opsega.

Ovdje se ne postavljaju zlokobna pitanja ljestvice ili zasluge. Problem je obrnut. Mnoge polemike koje su oduvijek razdvajale anarhistički pokret, mnoge klevete na koje se odnosio Duval, proizlazile su od slijepih osuda odluke neposrednog napada od strane pristalica drugih strategija.

Jean Grave, kao dalek primjer, nije mogao biti pristalica takozvane „propagande djelom”, čiji je Duval bio jedan od začetnika, i to zbog njegovog osnovnog pojma anarhizma, vezanog za postupno, i beskrajno, obrazovanje masa, koje teži k slavnom revolucionarnom završetku čime bi se izgradio preko noći budući svijet slobode.

Naravno, ovaj njegov različit pristup, sasvim ispravan, ne opravdava niskosti iznijete protiv drugova (na primjer protiv Bonnota i drugih) koji su drugačije djelovali. I danas, koliko se samo drugova opredijelilo za jedan oblik anarhističkog djelovanja u realnosti i koji kleveću i ocrnjuju drugove koji, danas kao jučer, ustraju u direktnom i neposrednom napadu na osobe i stvari odgovorne za izrabljivanje? Ima ih zasigurno čitava jedna legija.

Ali ograničimo se na problem krađe.

Na kraju krajeva, svima nama je potreban novac, a to se može riješiti na dva načina: radom ili krađom. Postoji još jedan način, koji ovdje isključujem zbog same definicije, to jest biti rentijer, bogat posjednik, ali sumnjam da su takvi anarhisti postojali a da se nisu čim prije oslobodili toga čime ih je sudbina opteretila.

Naravno, ima čak poduzetnika koji, igrajući se zabludom da su individualisti i štiteći svoj interes na najbolji način, tvrde da su anarhisti. Ali ovdje se radi samo o riječima, ne o suštini. Dakle, budući da postoje samo dva načina da dođemo do novca potrebnog za život, treba ipak odlučiti.

Kada se opredijelimo za posao, nesumnjivo pošteno postupamo. Tko sebe prodaje, uvijek to čini iz najbolje namjere. Zbog vlastitog preživljavanja, zbog djece, zbog obitelji. I na ovom besprijekornom stalku se okuplja, malo po malo, društvena struktura nadzora i represije. Primarne potrebe stvaraju sekundarne, od potrage za kruhom se prelazi na potragu za društvenim statusom, da bi drugi priznali naše vještine i vrijednosti. Kuća, automobil, godišnji odmor, putovanja, nakit. Male stvari, naravno.

A koji bi anarhist mogao svojoj djeci oduzeti pravo na diplomu? Premda sva kritička razmišljanja mogu dokazati da se radi o jednom običnom triku. Ali zašto bi baš njegov sin trebao pasti na to? Zašto se njegov sin ne bi uspio popeti na društvenoj ljestvici, da bi on sam na kraju odlučio da to odbaci ili prihvati, a da to ne bude zbog uvjeta koje su očeve odluke odredile. Ovdje se krug zatvara.

Radnik proizvodi izrabljivanje i izrabljivanje proizvodi radnika.

Prekid začaranog kruga se prepušta vanjskim elementima, nezavisnim od volje pojedinca: krize kapitala, veliki sukobi između velesila, opći potopi, nuklearne eksplozije. A kada sve to nedostaje: iščekivanje. Priprema, zaboga, to je to, anarhisti se uvijek spremaju, priprema i kritička analiza, čitanje, sve više, sve bolje, i, zašto da ne, čak čitanje najekstremnijih i najoštrijih tekstova.

Znam anarhiste koji svog mačka zovu Bakunjin i svog psa Bonnot, a ne izlaze navečer poslije deset strahujući od loših susreta ili da budu opljačkani.

Duboke promjene koje su se pojavile u proizvodnji promijenile su i ulogu radnika. Duvalova su vremena daleka. Danas je radnik, ako je to moguće, još više odgovoran za izrabljivanje u odnosu na Duvalovo doba.

Bijeda i opće neznanje su određivale krajnju potrebu za poslom, do te granice da više nije bilo vremena za razmišljanje: ili umrijeti ili prihvatiti komadić kruha. Glad i bolesti postavljale su često alternativu između bijede i pobune, koja bi bila slijepa i bez izlaska.

Zato se gledalo na rad i njegovu ulogu na drugačiji način (jer bilo je drugačije). Buduće oslobođeno društvo moglo se vidjeti kao nastavak današnjeg društva izrabljivanja. Naravno, nastavak kroz (revolucionarni) frakturu, ali ipak još uvijek nastavak. Radnik je bio ponosan na svoj zanat. Duval je bio ponosan da je kovač, da zna osobno rukovati jakim tvarima kao što su željezo i metali, Léauthieru je bio čast udariti neprijatelja svojim radnom alatom, šilom, dok se Marpaux u samim policijskim izvještajima opisivao kao „dobar radnik”, da se ograničimo samo na Duvalove drugove.

Ipak, u suštini, najizrabljeniji radnici, ekstremni slojevi bijede koji su se prodavali poduzetniku, bili su većina. Piramidalna struktura proizvodnje, vrlo centralizirana, bila je u ruci malobrojnih vlasnika, jednog tankog sloja rukovodilaca i šefa, ali se zasnivala, na koncu, na masi siromaha koji su patili i koji su bili izbačeni na ulicu uz najmanju promjenu tržišnih zakona.

Ovdje možemo uključiti jedno razmatranje koje se često izostavlja.

Sindikalne borbe su povisile životni standard radnika, ako ne baš do blagostanja, barem do dovoljnih financijskih mogućnosti. Istovremeno su se promijenili sami radnički uvjeti i tvornički život.

Poboljšanja, osiguranja i mirovine pojačale su financijske i društvene uvjete radnika. Rečeno poboljšanje polazne situacije, umjesto da se prevede u veće mogućnosti borbe, što se podrazumijevalo u naivnim tvrdnjama pristalica radničkih i sindikalnih borbi, pokazalo se na kraju kao početak oslabljenja. Promjene post-industrijskog kapitalizma učinile su ostalo.

Ali ograničimo se ovdje na ovaj veliki problem oslabljene borbenosti, koje je uslijedilo nakon poboljšanja životnog standarda radnika.

Sama po sebi ova stvar izgleda baš razumna i nešto slično može se potvrditi na bilo kojem polju ljudskih odnosa. Uskoro ćemo vidjeti posebnosti s obzirom na samu represiju. Zašto je onda još danas tako teško to razumjeti? Jer se žele ignorirati posljedice koje integracija u sustavu proizvodnje ima za pojedinca.

Danas radnik proizvodi nešto što mu se, u ekstremnoj podjeli rada, izmiče i što dakle ne razumije, ali mu se nudi kao prerađen proizvedeni predmet, prerađen u smislu društvenog simbola, kao da to može doseći. Drugim riječima, današnji je radnik samo djelomično isti onaj kovač kakav je bio Duval, naprotiv; na primjer, proizvodi automobile, ali nikada ne vidi u svojim rukama materijalno ostvarenje.

Računala, roboti, sinkronizirani lanac, daljina, uskladištenje rasprostranjeno na teritoriju, sve to mu uskraćuje neposredni pogled na proizvedenu stvar, koja mu se kasnije nudi kao potrošački predmet kroz tržišni i distribucijski sustav, koji pretvara stvar u simbol sposoban da daje neki status, dakle, priznanje i dokaz individualnog uspjeha.

Protok predmeta pretvorenih u simbole, u kojima staru upotrebnu vrijednost zamjenjuje jedna skupina simbolične vrijednosti i tržišne vrijednosti, skupina koja se ne može točno razabrati, ne ograničava se samo na ekonomskom nivou (potrošnja i proizvodnja), nego obuhvaća cijelo društvo, društvo simbola i potreba koje je gotovo nemoguće izbjeći.

Na ovaj način radnik koji je s jedne strane postao bogatiji, s druge strane postaje siromašniji, izmjenjivač lažnog protoka bogatstva koje ga ne bogati, nego ga čini sve nemoćnijim. Sukrivac naspram neprijatelja izrabljivača, koji ga uzdržava.

Današnja pobuna, i Duvalova pobuna, ne može dakle proći kroz pozitivnu dimenziju rada. Više neće biti drugova koji će na sudu obraniti svoje krađe i sve što su odlučili napraviti te koji će tvrditi, nekadašnjim ponosom, da su bili svega lišeni i da, dakle, imaju pravo na „individualno vraćanje” dok čekaju kolektivno vraćanje.

Napad na vlasništvo i na osobe odgovorne za izrabljivanje, sabotaža, puko uništavanje svega što nas tlači, ne može se više rađati iz nemogućnosti da se nađe neki posao, nego sve češće od svjesnog odricanja od laskavih obećanja koje nudi posao.

Kritika rada nije jednostavan problem, i drugovi trebaju obratiti pažnju na to. Neću ovdje to produbljivati, budući da sam to već učinio drugdje (Uništimo rad).

Vezana za isti odnos između poboljšanja uvjeta i smanjene borbene sposobnosti, nalazi se skupina razmatranja koja slijede o represivnoj okolini u kojoj se Duval našao nakon presude.

Cayenne ostaje u svačijoj mašti najviši stupanj grozote i surovosti. Kada, čitajući roman ili gledajući film, u sebi obnavljamo ista iskustva, zgražamo se. Pitao sam se što bi mi mogli i znali učiniti u istim uvjetima. I oni među nama koji su upoznali zatvor i mučenje, na način koji je sad uobičajena stvar u svijetu u kojem živimo, još se pitamo kako bi reagirali naspram uvjeta mučenja i zatvaranja kao što su bili na Gvajanskim otocima.

Jedan površan odgovor bi bio da bi i mi, kao Duval i njegovi drugovi, pljuvali u lice mučiteljima naš anarhistički prkos. U to nisam baš siguran. Nisam u to siguran kao anarhist koji pokušava kritički sagledati stvari, nisam u to siguran kao čovjek koji je previše ružnih stvari vidio, a da ne bih znao nešto o ljudskom srcu, srcu svojih suvremenika.

Nema sumnje da smo oslabili. Svi, bez izuzetka. Ujednačavanje društva u kojem živimo pretvorilo nas je u posrednike i oportuniste. Zasigurno ne hipotetski, ali konkretno još treba vidjeti. Upoznao sam drugove koji su naizgled htjeli proždrijeti svijet, ali koji su nakon pet, deset godina zatvora prihvatili bilo koji kompromis da bi se izvukli iz situacije u kojoj su se našli. Naravno, ništa strašno: ni prijave, ni prodaje drugova, ništa od toga, samo suglasnost s prijedlozima države. Na kraju krajeva, što traže ovi naši suvremeni progonitelji? Jednu malu izjavu, znak popuštanja, neki redak na papiru, ništa više. Zašto ne prihvatiti i izvući se iz nevolje?

Činjenica je da smo oslabjeli. Svi. Kako bi reagirali prema državi koja bi nam, umjesto da nam ponudi papir na potpisivanje, predložila godinu dana s lancima na nozi, na kruhu i vodi, na tropskim temperaturama, zatvoreni u podrumu, s miševima kao jedinim društvom?

Ishitren (i površan) odgovor bi bio da bi u ovom slučaju prihvatili vrlo brzo. Ali nije tako. Ovaj odgovor ne shvaća ni problem ni moja razmatranja. Ne kažem da što su stvari gore, tim bolje za revolucionarnu borbu, govorim nešto drugo. Stvari se ne mogu pogoršati zbog pohlepe bilo kojeg mučitelja iz predgrađa. To se može desiti (imao sam razna iskustva s tim), ali radi se o posebnim slučajevima. Uvjeti u kojima se našao Duval podudarali su se s općom situacijom u svijetu kakav je bio u ono doba, u tvornici, u obitelji, u svakodnevnici, dakle, i u zatvorima i u posebnim robijaškim uvjetima.

Društvo nasilno i nemilosrdno, gdje vlasnici nisu činili ništa, ili skoro ništa, da bi sakrivali svoje namjere, a izvršitelji djela niže i više pravde dosljedno su postupali. Manje licemjerja, manje laži, manje brbljarija, manje asistencijalizma, manje demokracije. Tko je napadao vlasništvo znao je što ga čeka. Tko je dijelio anarhističke letke mogao je dobiti do osam godina robije. Ali bilo je drugova koji su dijelili letke, koji su lijepili plakate, i bilo je mnogo njih, i nije ih bilo strah, i nisu pravili računice.

Zamislite, i danas mi anarhisti lijepimo plakate i dijelimo letke, i govorimo i kritiziramo, i sve ostalo, ali s kojim rizicima se suočavamo? U najgorem slučaju nekoliko mjeseci zatvora. Ako bi se danas, zbog nekog izuma vlasti, anarhističko djelovanje kažnjavalo sa osam godina robije, koliko nas bi nastavilo? Malo, možda nitko. I to ne zbog toga što, pojedinačno, današnji drugovi su veće kukavice od Duvala, ili više računaju, nego zbog toga što opća društvena situacija je takva da bi neka tako oštra presuda bila nelogična i ne bi se podudarala s evolucijom običaja, i zbog toga bi bila nezamisliva, a kao i sve nezamislive stvari ne može se lako predočiti.

S druge strane, poboljšanje općih društvenih uvjeta nas je, kao što sam rekao, oslabilo, dakle učinilo nas je nesposobnima za radikalizaciju sukoba.

Ako bi se to desilo, zbog endogenskih razloga s obzirom na strukturnu kompoziciju društva, to jest zbog nekog unutarnjeg pokreta u njegovim dijelovima, bit ćemo sposobni da se suočimo s preprekama koje će se pojaviti (kao što se vidjelo u bivšoj Jugoslaviji, barbarstvo je pred vratima čak najnaprednijeg društva i ne treba mu mnogo vremena da stigne).

Ali dok se ti objektivni pokreti ne pojave, s obzirom na naše individualne sposobnosti da se suočimo s represivnom situacijom, u većini slučaja smo previše osjetljivi.

Namještena pristojnost demokracije nas je oslabila, da bi udarila do kraja. Imamo dakle tisuću skrupula. Anarhisti, dobri ljudi.

Duval i njegovi drugovi nisu bili takvi. Ona vremena su bila previše drugačija od naših. I zato, dok čitamo njihova djela, sada, nakon toliko godina, riskiramo da se njima samo divimo i ništa drugo, da ih pretvorimo u utješna čitanja.

Ali kad podignemo veo demokratskih laži primjetit ćemo da je razdaljina između moći i onih koji su pod njom ostala ista.

S jedne strane uključeni, već gotovo sasvim na sigurnom u svojim srednjovjekovnim tvrđavama, spremni samo da pregovaraju bolje uvjete kako bi si osigurali stalnu moć, s druge strane isključeni, sve nemoćniji, sve gluplji. Među rezultatima demokratske strategije otkrivamo da nas je ova potonja odvratila od korištenja svih sredstva na raspolaganju, bez iznimke.

Pretvorili su nas u džentlmene naviknute da razgovaraju i raspravljaju na skupštini, ali nesposobne za borbu na nož, koja je još uvijek moguća dimenzija protiv tlačitelja. Dok nas oni, naši predragi učitelji licemjerja, u bilo kojem trenutku mogu čekati iza ugla naoružani mitraljezima i sasvim mirno nas ubiti, ili nas mučiti u podzemlju nekog zatvora u predgrađu i, daleko od očiju, mirno prijaviti našu smrt zbog srčanog zastoja.

Ali svaka kategorizacija malo vrijedi. Bezbrojni su bijednici koji podnose iskorištavanje bez pobune, prihvaćajući ono malo što im daju kao nadoknadu, sanjajući nemoguće društveno uzdizanje, a da nikada ne skrenu s puta patnje i strpljenja.

Na isti način, velik je broj plaćenika koji podržavaju moć snagom ruku ili bistrinom mozga, policajci ili pjesnici čudotvornih vrlina dežurnog gospodara, čekaju i oni da se stvari poboljšaju, sve do odlaska u mirovinu.

Od najviših dužnosti, gdje igra moći postaje očigledna, dužnosti prepune odgovornosti i sramote, sve do najglupljeg sluge države, i, poprečno, od zadnjeg proizvođača koji pati gradeći nešto što uopće više ne razumije, sve do činovnika, sigurnog u sebe i sitnog blagostanja koje mu se nudi, nitko nije uistinu zadovoljan svojim položajem.

Čak ni viši službenik koji zgrće novac i dužnosti, koji je već osvojio čvrst status, nije zadovoljan svojim položajem, i to se čudno povezuje s onim jadnim izrabljenim koji pokušava preživjeti, ali, gotovo nikada, ne bune se ni prvi ni drugi. Prvi zbog naizgled dobrih razloga ostvarenog blagostanja, drugi zbog opet naizgled dobrih razloga nezadovoljstva i bijede.

Ali, mogu li blagostanje, odnosno bijeda, zadovoljiti čovjeka? Ili, u drugom slučaju, mogu li ga automatski pretvoriti u pobunjenika? Ne. Treba nešto drugo. A kada postoji to nešto drugo, izbija pobuna.

Dakle, bijeda sama po sebi nije dovoljna da stvori pobunjenika, kao, s druge strane, blagostanje samo po sebi ne čini nekoga zadovoljnim sobom i svojom ulogom privilegiranog tlačitelja. Često bijeda stvara još veću bijedu, i u zamućenju svijesti vodi u prilagođivanje i trpljenje, ili čak u kršćansku vjeru u bolji svijet nakon smrti. Često, vrlo često, blagostanje stvara požudu za većom moći, društvenim uzdizanjem, nagomilavanjem i tuđim priznanjem.

Ne radi se o apsolutnim obrascima. U svakom društvenom sloju možemo naći pobunjenike. Često bijeda kao glavni razlog nagona pobune nije čak ni dobra ni čvrsta osnova.

Buntovnik remeti svoje početno stanje, bila to bijeda ili blagostanje, on se tome protivi, i nije rečeno da je lakše boriti se protiv bijede, nema jasnoće na ovom polju, i trebalo bi opet razmatrati sve banalnosti iz prošlosti bez ideoloških zatvaranja.

Shvaćanje života na drugačiji način (a što bi drugo bila pobuna, ako ne upravo to) ne gradi se kroz raskidanje sa starim načinom, nego probijajući se, remeteći sheme i kategorije, kritizirajući zastarjele i lažne pojmove, uzbuđujući želje, okrećući ih prema apsolutno drugačijem, a i prema poznatom da bude različito i neprihvatljivo u staroj dimenziji.

Često se pobunjenik nađe u situaciji da istovremeno shvaća i ne shvaća ono što mu se dešava, dakle da proturječi i sebe proturječi, da ide k novom, i dakle k uništavanju starog, a da ostaje zaljubljen u osjećaje i sjećanja koji pripadaju starome. Ne postoji ravna crta koja označava pravac napretka. Ništa u nama ne umire za uvijek i ne rađa se jednom zauvijek u novi život. Pobunjenik nije nikada svet u svim svojim stranama. Nijedna pobuna ne sakralizira život ponad svake sumnje.

Nekada je mnogo nas poimalo revoluciju kao proces, ako ne jednostavan, onda barem linearan. Najhrabriji od nas su posumnjali, ali na kraju krajeva ove sumnje su bile marginalni diskurs, s obzirom na širenje pokreta koji je izgledao nezaustavljiv. Ideološke zaljubljenosti, kao rane ljubavi, se teško savladavaju. Činjenice su dovele do zrelijih razmišljanja.

Neki, pronalazeći smrtni smisao u ovim razmatranjima, uredno su se povukli prihvaćajući ponudu moći i upustili se u suradnju za neke bijedne mrvice.

Drugi, pronalazeći životni smisao u ovim razmišljanjima, proširili su svoj kritički nazor, proučavajući pojmove koji su ranije izgledali neutemeljeni. Dakle, novi pojmovi ne izbacuju stare (koliko želje za „krajem sukoba” ima kada se prošlost ostavlja sa strane), nego ih remete do kraja, preobražavaju ih tako da se razvijaju u nove pojmove. Život bi bio samo jedna bezbojna i besmislena kupka kada ga ne bi mogli iščitavati kroz nastavak ideja i osjećaja.

Napokon smo shvatili da nijedna revolucija neće biti proizvod zbroja određenih događaja, radilo se o događajima pojedinca ili o općim društvenim događajima. Sudbina kvantitativnog pristupa je da stvara uvjete za dalji porast, i tako dalje u nedogled. Taj je smjer bezgraničan.

Ali, nakon toga što smo to shvatili, još ipak ne znamo što određuje pobunu, konkretne individualne radikalne odluke. Zašto neki Duval djeluje kao što djeluje? Bijeda, temperament, anarhistička štiva, učestvovanje na radnim mjestima koji vrve revolucionarnim poticajima, slučajnost? Što stvara pobunjenika? Ne znamo. Ono što možemo pojedinačno pokazati to su odluke i posljedice tih odluka, ali razmatramo ih kroz iskrivljenost rekonstrukcije.

Srce, ili bolje rečeno, osjećaji.

Mogu li osjećaji, naprotiv, biti čimbenici reda, opreza i, na kraju krajeva, pristanka? Naravno da mogu. Ne postoji jednakost između osjećaja i pobune, jer bi to značilo da treba uspavati razum da bi se pobunili.

Um i znanje, razmišljanja i učenje, mogu biti važni elementi revolucionarnog djelovanja, za koji podrazumijevamo da počinje individualnom pobunom, ali nije to sve. Svako razmišljanje vodi k nekom osvješćenju: što više znamo, to se manje možemo sakriti iza isprike da ne znamo.

Ali svako osvješćenje ne vodi automatski k slomu ravnoteže, k dimenziji napada. Znanje i misao često spriječe djelovanje, ne pomažu mu da se razvije. Ponekad se dešava suprotno, ali kako se možemo orijentirati?

Ne postoji neko opće načelo, čak ni pravac koji bi bio barem razumljiv. Vrlo često nisu povrijeđeni interesi koji potiču na pobunu, nego je povrijeđeno dostojanstvo. A za odgovor protiv tlačitelja, za odgovor koji se kasnije u toku dozrijevanja pretvara u napad, potrebno je jako malo.

Ropstvo samo jednog čovjeka na svijetu i moje je ropstvo, jer zbog njegove patnje ja nikada neću moći biti slobodan. Kao što se vidi, tu smo prešli puko zahtijevanje. Samo se kroz iskrivljenje obrana vlastitih interesa (recimo, sindikalni diskurs) može smatrati borbom protiv povrijeđenog dostojanstva. Zasigurno, putevi pobune su zavojiti, ali imaju nešto zajedničko.

Duval sazrijeva kroz djelovanje u bijedi i u poteškoćama života, i kroz teoretsko proučavanje, diskusije, narodne skupštine. Kasnije, dosljedno, razmišlja što činiti, nabavlja sredstva za djelovanje (prije svega novac), napada neprijatelja. Kada smo uvjereni u ono što činimo sve postaje jasno i ništa nas ne može zaustaviti. Jedinstvo teorije i prakse, jednom kada se ostvari, ne može se lako slomiti.

Drugdje: brbljarije, primjedbe, čekanja.