Severino Di Giovanni
Michele Bakunin incomincia nel diciottesimo anno a lottare contro il mondo che lo circondava, quando venne mandato come alfiere in un reggimento della regione di Minsk. «Era l’indomani del soffocamento sanguinoso della insurrezione polacca, e lo spettacolo della Polonia terrorizzata agì potentemente sull’animo del giovane ufficiale e contribuì non poco a ispirargli l’orrore del despotismo» (1). Questo fatto ed altri, che sempre provoca il vivere sotto l’uniforme militare, l’obbligarono a dare le dimissioni ed andò a risiedere in Mosca ove si diede quasi interamente agli studi filosofici. Verso il 1839, contrasse con Herzen e il poeta Ogaref un’amicizia che lo legò con questi per tutta la sua esistenza, tale amicizia influì molto sul movimento rivoluzionario del secolo passato. Il primo lavoro a conclusioni rivoluzionarie, Bakunin lo pubblicò nel 1843 sulla rivista Deutsche Jahrbücher, collo pseudonimo di Jules Elysard, aveva per titolo La Reazione in Germania — Frammento di un francese, e così terminava: «Confidiamo, dunque, nello spirito eterno che distrugge e annienta solo perché è la sorgente impenetrabile ed eternamente creatrice di ogni vita. Il desiderio della distruzione è nello stesso tempo un desiderio creatore». L’articolo in questione produsse su Herzen buona impressione e che credendolo veramente di un francese lo giudicò: «… un appello potente, fermo, trionfante del partito democratico… L’articolo è di una grande importanza. Se i francesi cominciassero a render popolare la scienza tedesca — quelli che la comprendono, s’intende — la grande fase dell’azione sarebbe prossima a cominciare» (2).
L’Europa intanto marciava a grandi passi verso nuovi avvenimenti, si era alla vigilia dei moti e delle rivoluzioni quarantottesche. La Francia, l’Ungheria, l’Italia si apprestavano alle guerre d’indipendenza ed a mutamenti di regime. Le varie associazioni segrete, come i Carbonari, la Giovane Germania, la Giovane Italia e la Giovane Europa centuplicarono le loro forze per raggiungere quel fine tanto sognato dal Mazzini e dal Kassut, dal Cattaneo e dal Pisacane. Giorni di vero e di vario splendore rivoluzionario, abbellito da tanti slanci di abnegazione e di sincerità. Bakunin dopo aver lasciato successivamente la Germania, la Svizzera, il Belgio costrettovi quasi sempre dalla polizia che lo perseguitava per le sue manifestazioni ribelli e per le continue intimazioni delle ambasciate russe, finalmente al principio del 1844 si recò a Parigi. Qui, oltre a conoscere Marx e Proudhon, attinse anche quelle facoltà intellettuali che sempre lo marcarono più ribelle e donde precisò quel vasto programma che poi doveva lasciarsi in eredità. Delle due amicizie che contrasse, sia con Proudhon, sia con Marx, egli ebbe molto d’apprendere, benché con quest’ultimo non sempre andava d’accordo: «I nostri temperamenti non si confacevano; egli mi chiamava un idealista sentimentale ed aveva ragione; io lo chiamavo un vanitoso perfido e dissimulatore ed avevo ragione» (3).
Invece di Proudhon, ecco come ebbe ad esprimersi in confronto dell’autore de Il Capitale: «… Proudhon aveva compreso o sentito la libertà molto meglio di lui (di Marx). Proudhon, quando non faceva della dottrina o della metafisica, possedeva il vero istinto del rivoluzionario: adorava la figura di Satana e proclamava la necessità dell’anarchia. È possibilissimo, invece, che Marx possa teoricamente elevarsi alla concezione di un sistema della libertà ancor più razionale di quello di Proudhon, ma l’istinto della libertà gli manca: egli è un autoritario dalla testa ai piedi» (4).
Alla fine del 1847, dopo una commemorazione dell’infelice insurrezione polacca contro lo zarismo russo, venne espulso dalla Francia, sempre dietro richiesta della ambasciata russa che dovunque lo perseguitava. Ma pochi mesi dopo, con la rivoluzione del febbraio 1848, Bakunin ritornava di nuovo in Francia, ma in questo paese doveva rimanere pochissimo, perché le notizie che gli venivano dall’Austria e dalla Germania lo decisero a partire per quest’ultimo paese, donde sperava trasladarsi in Polonia, nella speranza che questa si sollevasse contro la Russia. Speranze deluse e che ebbero invece altro esito: la Russia forte nel suo despotismo, poteva con i suoi cosacchi soffocare la rivoluzione ungherese che il Kossuth aveva portato alla vittoria. Ancora una volta le tirannie coalleate si salvarono a vicenda.
Espulso dalla Sassonia, dalla Prussia, ebbe solo una pace relativa nel principato di Ankolt. Durante questo breve periodo, le relazioni fra Bakunin e Marx dovevano tendersi in un modo da provocare una rottura che non ebbe più risanamento. Incomincia da quel tempo il grande duello tra l’autoritario di Treviri e il nostro compagno. Tale duello non si soffermò alla sola polemica onesta e integra, ma da parte di Marx doveva degenerare in un vero assassinio morale. Ma Bakunin lo seppe sempre rintuzzare di dovere, benché dignitosamente.
I rovesci delle varie rivoluzioni scoppiate nel 1848 non erano giunti alla sua totalità. Si teneva ancora testa in Roma, a Venezia, in Ungheria e le speranze ancora arridevano a quei cuori generosi. Bakunin si trovava segretamente in Lipsia, per fare dei preparativi con alcuni rivoluzionari czechi, di un’insurrezione in Boemia, quando un sollevamento popolare nella capitale della Sassonia obbligò alla fuga il re, lasciando la città in potere dei sollevati. Bakunin in compagnia di Riccardo Wagner, il celebre musicista tedesco, e di altri, era uno dei capi di detto movimento, ove si era trasportato fin dai primi istanti. Frustrato anche questo movimento, in un paese nelle vicinanze di Dresda, mentre tentava di mettersi in salvo con Wagner e Heubnes, venne arrestato con quest’ultimo e consegnato al governo prussiano.
Anche Carlo Marx riconobbe la valorosa attuazione del grande russo: «A Dresda la lotta durò nelle vie della città quattro giorni. I bottegai di Dresda e la guardia comunale, non solo non combatterono, ma spesso favorirono l’azione delle truppe contro gli insorti. Questi, che si componevano quasi esclusivamente degli operai dei distretti manifatturieri, trovarono un capo abile ed energico nell’esule russo Michele Bakunin» (5). L’animo di Marx non si era corrotto del tutto e certe verità ancora le riconosceva.
Dopo essere stato consegnato, venne processato e condannato a morte, però la pena fu commutata in quella del carcere a vita.
L’Austria lo reclamava e il prigioniero venne consegnato a questa per subire una seconda condanna a morte e una seconda commutazione al carcere perpetuo.
Nuova richiesta, questa volta però del governo russo che non aveva tralasciato di perseguitarlo. Nella fortezza famosa di Pietro e Paolo, dove venne rinchiuso non appena arrivò in Russia, venne invitato a fare quelle famose confessioni che è stato un atto di fermezza sì da fare esclamare allo stesso zar Nicola I questa frase: «È un bravo giovane e pieno di spirito, ma pericoloso, e bisogna tenerlo ben chiuso». Tali confessioni più tardi dovevano fare esclamare ad un altro zar, Alessandro II, un’altra frase, non meno famosa del primo, benché più reazionaria: «Ma io non vedo il minimo pentimento in questo scritto!».
Nel marzo 1857, lo zar Alessandro, dopo avergli ripetute volte rifiutato l’amnistia, commutò la prigione a vita al Bakunin in quello dell’esilio da scontarsi nella orrorosa Siberia. Verso la metà del giugno 1861 alfine potette evadere da questo luogo infame e raggiungere Londra per la via Nikolaievsk-Yokohama-San Francisco della California-New York, da quest’ultimo porto s’imbarcò per la capitale inglese la fine dell’anno stesso, dopo tante peripezie e sotterfugi che non si possono far rivivere attraverso la penna.
In Londra venne ospitato, più che fraternamente, dai due suoi amici di gioventù, Ogareff e Herzen.
Intanto nello spazio di tempo che corse tra il 1849 — anno in cui venne arrestato Bakunin — e il 1861 — anno in cui si conquistò la libertà — molti avvenimenti si erano succeduti nel campo rivoluzionario europeo. Le società segrete di finalità prettamente d’agitazione rivoluzionaria, avevano incominciato a conquistare le prime vittorie stabili. Il Carbonarismo e la Giovane Italia — che successe alla prima con un programma nettamente repubblicano e di cui Mazzini ne era il capo morale e materiale — queste due sette contribuirono efficacemente alla liberazione dei reami borbonico delle due Sicilie, con una marcia epica passata nella storia col nome «dei Mille». Ma Garibaldi, autoritario perfetto e di una debolezza in altre volte e in casi analoghi provata, diede alla spedizione e alla riuscita una di quelle strongature che quasi rasentano il tradimento: sul cammino di Teano a Caianello consegnò le terre liberate dalla tirannia dinastica borbonica a quell’altra non meno tirannica dei Savoia. La leggenda di Spartaco ribelle rinnovatasi nella parte estrema della penisola veniva una seconda volta vinta e s’innalzarono di nuovo lungo la Via Appia le croci che dovevano far sanguinare ancora le falangi della rivolta. Mazzini, l’animatore di tutte le sommosse, era stato deluso. Garibaldi, come misero e corbellato Cincinnato, prendeva la via di Caprera per ivi nascondere il rossore della sua generosa… vigliaccheria. I Savoia allacciavano al loro postribolo le regioni più belle del Mezzogiorno d’Italia!
In Francia la storia non dava miglior destino a quel popolo. Un colpo di stato cambiava nello spazio di poche ore, il 19 dicembre, la Seconda Repubblica in Secondo Impero. Il principe Luigi Napoleone, rinnovando le gesta del corso, s’incoronava anch’egli imperatore col nome di Napoleone III. Ma la Nemesi lo perseguitò come l’esule di Sant’Elena, dieci anni dopo trovava in Sédan la sua Waterloo.
Così il braciere europeo seguitava ad ardere, ma non nel senso rivoluzionario come era sogno di tutti i sinceri e di tutti i pensatori di quegli anni, ma nel senso malsano dell’emancipazione sociale. Il politicantismo semi-rinnovatore era riuscito ad accalappiare tutto il succo più vitale e generoso di quei movimenti.
Dopo alcuni anni di soggiorno nell’Occidente d’Europa, Bakunin tentò di unirsi con i rivoluzionari polacchi che ancora una volta erano riusciti a sommuoversi contro la tirannia zarista. Ma tutto andò male e Bakunin, che si era recato con tale proposito a Stoccolma, dovette ritornarsene a Londra senza aver conseguito il suo scopo.
Visitò, credo per l’ultima volta, Proudhon a Parigi nel 1864, questi il 19 gennaio 1865 moriva. Pure da quest’epoca incomincia l’attività di Bakunin in Italia, ove risiedette diversi anni in Firenze e in Napoli. Fra le maggiori attività che incominciava a spiegare è da menzionarsi soprattutto la fondazione di un’organizzazione segreta chiamata: Fratellanza Internazionale. Col suo concorso venne editato anche il giornale Libertà e Giustizia, il primo che pubblicò il pensiero di Bakunin come programma massimo rivoluzionario di quell’epoca. Le simpatie e gli aderenti ogni giorno crescevano in un modo veramente soddisfacente.
Uno dei momenti più salienti della sua vita e del suo pensiero, fu certamente la partecipazione che ebbe nel I e II congresso della Lega della pace e della libertà che ebbero luogo rispettivamente in Ginevra ed a Berna, l’uno nel 1867 e l’altro l’anno seguente. In essi la figura del nostro maestro si distaccò in modo veramente superbo, e i suoi discorsi pronunciativi gli diedero una fama mondiale. Nel congresso realizzatosi a Berna, visto infruttuoso ogni tentativo per trarre l’assemblea ad accettare il suo programma sociale, vi si distaccò con la minoranza e con questi fondò l’Alleanza Internazionale della democrazia sociale. Vi facevano parte, tra gli altri, uomini del valore di un Reclus, Rey, Keller, Friscia, Fanelli, i quali furono fino alla morte sempre fedeli alle loro idee professate in beneficio di un migliore avvenire dell’umanità.
Nella lotta che incominciò a svolgersi in seno alla Associazione Internazionale dei Lavoratori, che nel 1869 aveva già realizzato tre congressi, cioè quello di Londra (1864) — anno in cui venne fondata — quello di Losanna (1867), e quello di Bruxelles (1868), ebbe in Michele Bakunin il più fervido polemista in opposizione delle idee prettamente borghesi dei socialisti autoritari, non solo, ma anche l’innovatore più profondo, già esperimentato nell’etica rivoluzionaria dagli anni passati e che caldeggiava da pochi anni quell’ideale anarchico che poi dal seno della prima Internazionale doveva irradiare la sua luce su tutti gli oppressori e incominciare quella lotta di questi contro gli oppressori di tutte le risme, compresa anche la nascente oppressione socialista autoritaria.
La lotta fra gli autoritari (socialisti d’oggi) e gli antiautoritari (gli anarchici) ebbe nel Giura svizzero, come finale, una prima vittoria di questi ultimi. La parte, che in essa esplicò Bakunin è ormai da tutti gli ambienti rivoluzionari conosciuta. Fu una vera glorificazione e l’anarchismo incominciò a destare un’importanza che man mano andava sempre aumentando. Ma onde si definì chiaramente la situazione che divideva totalmente gli antiautoritari dagli autoritari, fu al quarto congresso dell’Associazione tenutosi in Basilea nel 1869. Nella discussione ivi sviluppatasi sulla proprietà, benché tutti stavano d’accordo sulla collettività di essa, si definirono però due correnti: la maggioranza dei delegati inglesi, svizzeri tedeschi e tedeschi erano favorevoli a una società onde lo Stato era il detentore della proprietà collettiva, mentre la maggioranza dei delegati francesi, svizzeri francesi e italiani, spagnoli, belgi e italiani erano favorevoli all’antistato e si chiamarono d’allora anarchici collettivisti. Le teorie di Bakunin avevano trionfato solamente in parte. Ma non importava, l’essenziale era di chiarire le posizioni di tutti, e questo si fece in tale congresso. La rivoluzione sociale finalmente si delineava sull’orizzonte nella più ampia concezione della realizzazione. L’anarchia fu il punto onde si fissarono gli sguardi dei congressisti latini in Basilea.
Dopo questo congresso si riaccese l’odio di Marx contro Bakunin, riuscendo a portare lo scompiglio tra gli aderenti dell’Internazionale Ginevrina. Bakunin che si trovava a Locarno alle prese con altre cose, non poteva pel momento rintuzzare il padre magno del socialismo.
Laboriose furono le varie attività di Bakunin per sollevare i russi contro l’egemonia feroce dei Romanoff, ma l’incoscienza di quel popolo — benché non mancavano gli uomini intelligenti nei vari campi della scienza e della filosofia che avrebbero secondato una sommossa popolare — contribuì molto al fallimento di detta impresa.
E siamo giunti al 1870: la guerra tra due antagonismi potenti, l’impero francese che deve morire per colpa di Napoleone, e l’impero germanico che deve nascere per volere di Bismarck. Benché vecchio, Bakunin si porta a Lione, fa parte del Comitato di Salute della Francia per tentare un moto rivoluzionario. Si pubblicò un manifesto e fra i firmatari si trovava anche lui. Il 28 settembre un movimento popolare s’impossessò del palazzo municipale. Ma fra le persone scelte dal popolo, si trovavano uomini che sia pel tradimento di alcuni, tra questi il generale Cluseret, sia per la vigliaccheria di altri, il tentativo fallì. Contro Bakunin venne spiccato un mandato d’arresto, e fortunatamente riuscì a guadagnare la città di Marsiglia, onde stette per qualche tempo nascosto.
Tale generosità, tanto valore, tanto ardimento come viene valutato dai socialisti autoritari? Il Volksstaat, l’organo che dirigeva allora Liebknecht, a proposito del moto di Lione, così scriveva: «Meglio non si sarebbe potuto fare all’ufficio della stampa di Berlino, per servire ai disegni di Bismarck». La bava rabbiosa e pestilenziale dei socialisti di Stato non poteva lanciare più putridume che di simile frase!… Un mese dopo, Bakunin lascia la Francia e ritorna a Locarno. Alcuni giorni dopo la partenza sua da Marsiglia, scoppia un altro moto in questa città, ma i rivoluzionari non potettero resistere che cinque giorni solamente. Intanto Napoleone III getta il suo nome al fango di Sédan; il rovescio non poteva essere più disastroso. Inutili sforzi fanno i repubblicani di Thiers, gli eserciti di Moltke avanzano su Parigi trionfanti, la débacle francese si sviluppa con tutto l’orrore, come antidoto agli entusiasmi del principio della campagna.
Finalmente arriviamo al 18 marzo 1871. L’insurrezione parigina, degna di annoverarsi al posto più fulgido della storia del movimento rivoluzionario, scoppia tra l’entusiasmo della folla, tra l’entusiasmo dei nobili artefici del pensiero, tra l’entusiasmo degli eroi della generosità e dell’amore.
Parlare degli atti eroici; parlare dell’eroica impresa, parlare della Comune, non basterebbero queste note affrettate. Perciò è meglio appena ricordarla come riflessione negli ultimi anni della vita di Bakunin. Anch’egli poteva ormai chiudere gli occhi nella soddisfazione che il seme, l’esempio, la parola gettati tra i campi fertili dell’umana emancipazione, avrebbero dato certamente frutti. No, i fucili del fratricida non hanno spento la ribellione nei fossati del Père Lachaise e neppure hanno affievolito la voce dei comunardi nelle Caienne! Thiers non ha vinto! I vincitori sono ancora i trentamila caduti sotto il piombo infame. Nessuna reazione ha vinto, nessuna vincerà, noi soli vinceremo! Vinceremo col sangue dei nostri martiri, vinceremo con i nostri seppelliti vivi nelle galere, vinceremo con l’estesa falange di quelli che ambulano per le vie del mondo in cerca di pane per sfamarsi e in cerca di libertà per vivere!…
Mazzini, alla vigilia della morte (6), come un ultimo sfogo malvagio, dopo una vita che potrebbe essere degna d’esempio per tante belle pagine che scrisse in favore della libertà, volle unire la sua voce al coro degli esecratori della Comune. Bakunin seppe troncare la maledizione di Mazzini con due scritti che rimarranno imperituri nella storia della libertà (7).
Il periodo di tempo racchiuso tra il 1871 al 1873 è rilevante per il succedersi delle equivoche macchinazioni di Carlo Marx contro Bakunin, ma di questa parte della sua vita ne farò un articolo a parte che pubblicherò in uno dei prossimi numeri di questo giornale. La vastità dei documenti e l’importanza dei fatti mi vieta di riassumerli in poche linee.
L’esistenza di Bakunin, negli anni successivi al 1870, fu condotta in mezzo alle più strette privazioni che rasentarono addirittura la miseria, finché Cafiero gli dette ospitalità in una villa che aveva comprato presso Locarno. Ma il benessere non doveva perdurare molto, perché nel luglio 1874 si portò a Bologna per prendere parte a un moto rivoluzionario che doveva scoppiare in Italia. La mala preparazione di detta insurrezione fu la causa del suo fallimento e lui dovette fuggire un’altra volta in Svizzera.
Fu l’ultima sconfitta della sua partecipazione personale in un’insurrezione. Due anni dopo moriva in una clinica di Berna.
Tre diverse teorie sociali si delinearono nello scorso secolo: il repubblicanismo mazziniano, il socialismo autoritario marxista e l’anarchismo bakuninista. Tre pensieri, tre uomini, tre coscienze, ma sul campo della lotta, nell’agitazione per conquistare la vita ai loro ideali, solo Michele Bakunin seppe dare tutto se stesso per il suo ideale. Se i mazziniani vogliono far splendere il loro apostolo come un combattente delle barricate, ebbene la barricata nella quale pugnava Mazzini divideva l’uomo dalla libertà di frontiera, schiavizzandolo sotto una bandiera nazionale; mentre nelle insurrezioni in cui combatteva, Michele Bakunin non divideva l’uomo in nazionalismi e in religioni, ma bensì l’univa oltre le bandiere, oltre le razze, oltre gli altari, per la fratellanza umana.
(1) James Guillaume: Note biografiche sull’autore nelle edizioni delle opere di Michele Bakunin.
(2) Alessandro Herzen: Giornale intimo.
(3) Michele Bakunin: Da un manoscritto francese (1871)
(4) Michele Bakunin: Da un altro manoscritto francese (1870)
(5) Carlo Marx: Da un articolo su il New Daily Tribune (2 ottobre 1852)
(6) Morì nel marzo del 1872, un anno giusto dopo lo scoppio dell’insurrezione comunarda.
(7) Michele Bakunin: Risposta di un internazionalista a Mazzini (agosto 1871) – idem: La teologia politica di Mazzini e l’Internazionale.
[Culmine, anno II, n. 10, 5 luglio 1926]