La Camaraderie

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Emile Armand
Che si consideri l’anarchismo sotto qualsiasi aspetto, dal punto di vista il più ferocemente individualista o il più largamente comunista; che lo si guardi come un’etica puramente individuale o come una concezione unicamente sociale — la sua realizzazione è e resterà sempre d’ordine «umano», vale a dire che in Anarchia esistono ed esisteranno dei «rapporti fra gli uomini» come ne esistettero ed esistono in tutti gli ambienti sociali, qualunque sia la loro importanza.

Noi sappiamo che in Anarchia questi rapporti non sono determinati dalla coazione, dalla violenza, dalla legge; noi sappiamo ch’essi non sono sottoposti a sanzioni disciplinari o penali; noi sappiamo ch’essi ignorano l’intromissione nell’evoluzione altrui, la malevolenza, l’invidia, la gelosia, la maldicenza, noi sappiamo che in certi casi questi rapporti non potranno essere basati sul controllo dell’azione individuale, la loro consacrazione a una regola prestabilita di condotta unilaterale applicabile in tutti i casi e conveniente a tutti i temperamenti. È indispensabile, effettivamente, che tutto questo sia sconosciuto in Anarchia, se si vuole che non risusciti o non riappaia — in carne ed ossa o sotto una maschera — l’autorità, cioè lo Stato e il governo.
Non ci resta, dunque, che domandarci quali forme «in anarchia» rivestono e rivestiranno i rapporti degli umani fra di loro.
A mio vedere, essi non possono, essi non potranno stabilirsi che su un certo terreno, con una maniera speciale di comportarsi gli uni con gli altri che io chiamerei cameratismo. È uno di quei vocaboli di cui si è molto abusato praticamente, ed io ne so qualche cosa. Allora, io proclamai che il cameratismo è d’ordine individuale e non me ne riferirò qui. Il cameratismo è questione di affinità individuale, è esatto; è evidente che laddove le affinità individuali mancano, il cameratismo è una cosa morta, se si vuole ch’esso discenda dalle brume della teoria.
Io ammetto che sia difficile immaginare un cameratismo intimissimo fra nomadi e compagni apprezzanti il conforto d’un focolare, fra praticanti dell’unicità in amore e praticanti della pluralità amorosa e del comunismo sessuale — vederlo fra partigiani d’un regime naturale esclusivo. Meglio sarà che coloro i quali tendono alla realizzazione d’un aspetto speciale della vita in libertà si raggruppino fra di loro. La natura della concezione anarchica della vita che permette tanto all’isolato che all’associato di funzionare ognuno a modo suo e di proporsi liberamente non importa quale scopo, la natura della conceziona anarchica — dicevamo — implica una tale diversità d’unioni e di federazioni d’unioni che resta e resterà possibile a non importa quale unità di riunirsi a chi le convenga.
Ma, detto questo, resta ancora a definire ciò che s’intende per Camaraderie. Senza dubbio, è un’esperienza come tutti gl’incidenti della vita individuale; senza dubbio, questa non è né una obbligo né un dovere; ma non è solamente un’esperienza, è una disposizione dello spirito, un sentimento che emerge dalla simpatia, dall’ordine «affettivo» e che, generalizzato, continua come una specie di assicurazione volontaria, di tacito contratto, che sottoscrivono fra di loro i camarade per risparmiarsi la sofferenza inutile od inevitabile.
A mio parere un’associazione di camerati anarchici è un ambiente anti-autoritario dove i componenti hanno deciso — fra loro — di procurarsi la più grande somma di gioia e di godimento compatibile con le nozioni anarchiche della vita.
La tendenza di un’associazione o unione di anarchici — sempre secondo me — è che nel loro seno si realizzi la soddisfazione di tutti i bisogni, di tutti i desideri, di tutte le aspirazioni che possono provare e sentire degli esseri i quali, negando gli dei ed i padroni, non vogliono essere degli dei o dei padroni per nessuno.
Io non trovo miglior sinonimo per il termine Camaraderie che il vocabolo Bontà.
Si può dire che, essendo scartato qualunque ricorso all’autorità per regolare i rapporti fra esseri umani, il ricorso alla ragione s’impone per la soluzione delle difficoltà che potessero sorgere negli ambienti anti-autoritari. Non sono capaci — sembra a prima vista — di far a meno d’ogni autorità esteriore, che quali si sono resi atti a sceverarsi d’ogni legge e d’ogni costume. Senza dubbio, in ogni ambiente attuale o futuro dove s’ignori le istituzioni stabilite sulla coazione, è evidente che si avrà il ricorso alla ragione, alla logica per risolvere i conflitti o i disaccordi che possono o potranno disgraziatamente sussistere fra coloro che li costituiscono.
Sempre? Questo eterno, questo continuo appello alla fredda ragione ed alla logica implacabile è insufficiente. Parecchi ambienti rassomiglieranno, a rifletterci su seriamente, ad una sala d’ospedale o ad un corridoio di prigione cellulare ben curata.
No. La ragione, la logica non bastano a stabilire, a regolare i rapporti fra gli uomini quando l’appello alla violenza od all’azione governamentale ne è esclusa. Un altro fattore è indispensabile, e questo fattore è la bontà, di cui la camaraderie è la traduzione concreta. Qui è giocoforza rammentare che l’uomo abbastanza cosciente per scartare l’autorità dai suoi rapporti con i suoi simili, non è soltanto dotato di potenti facoltà d’analisi e di sintesi, non è soltanto un matematico o un classificatore; è un essere sensibile, comprensivo, Buono.
Buono, perché è Forte. Si può seguire un cammino esasperatamente rettilineo ed essere un debole — più che un debole — un povero illuso che un’escursione fuori della linea diritta disorienta irrimediabilmente. Il logico imperturbabile è sovente un deficiente che perderà ogni facoltà di comportarsi se è trasportato fuori dal circolo delle sue deduzioni. La logica, indistintamente applicata a tutti i casi, produce ben sovente una scarsità di comprensività, una aridità interiore. Ora, ecco, per me, come si definisce la camaraderie, concretazione della bontà: provare, sforzarsi, tentare di saggiare, di comprendere, di penetrare, veder d’assimilare i desideri, le aspirazioni, la mentalità, in una parola, di colui, di colei, di coloro coi quali le abitudini della vita quotidiana ci mettono in presenza e ci lasciano in contatto.
Comunque pretendano gli arcigni dottrinari, io confermo che la bontà rimane se non il principale almeno uno dei principali fattori che presiedono le relazioni fra i componenti d’un ambiente che non sia guasto, la bontà che non affetta un’apparente freddezza, la bontà che non s’irrita punto e che non aggrava il male, che usa pazienza e longanimità, la bontà che ritorna molte volte alla carica se ha delle ragioni per supporre che il suo atto è stato erroneamente interpretato, la bontà che attende e che sopporta: la bontà che sa tutto il prezzo, tutto il valore d’una parola che applaca, d’uno sguardo che consola — sì, la bontà in azione, vale a dire la cameraderie.
Noi pensiamo che sia l’autorità la causa di tutti i mali di cui si lagnano gl’individui e di cui si lamentano le collettività; noi pensiamo che il «dolore universale» sia il risultato delle istituzioni coercitive. Un ambiente senza autorità, un ambiente di camarade è un ambiente dove non si deve più soffrire, un ambiente dove non si potrebbe trovare un solo cervello che s’atrofizzi privo di coltura, un solo stomaco che si contragga privo di nutrimento, un solo cuore che avvizzisca privo d’amore — poiché dove tutto questo manchi, manca la possibiltà di libertà di scelta. Un ambiente antiautoritario che non fa, che non farà tutto il possibile per assicurare tutto questo ai suoi costituenti, è o sarà per noi una penosa disillusione, un disinganno crudele, e non ci saranno in un «ambiente di camarade» che dei rapporti troppo lontani.
Non si può obiettare che sono sofferenze inevitabili; anche supponendo che tutte le autorità siano bandite dai gruppi dove ci si evolve, non è certo che si comprendano in tutti i punti. Ne convengo. Ma io domando a mia volta se il ragionamento arido, aspro e duro, è capace di ridurre da sé a un numero sempre minore i casi del Dolore Evitabile.
Io confermo che la bontà schietta, flessibile, assimilatrice trionferà laddove fallirà l’implacabile logica. Il mondo delle nostre aspirazioni — quello dove speriamo svilupparci crescere, scolpirci — l’ambiente dei camarade, l’ambiente dopo il quale illanguidiscono le nostre carni e il nostro spirito, è ambiente sociabile, dove non ci saranno più rancori, amarezze, insoddisfazioni. È un mondo veramente nuovo. È un mondo dove un vincolo costante, irrompibile, è voluto per ridurre a un «minimum» sempre più grandeggiante le occasioni della sofferenza inevitabile. È un mondo di camarade… Ebbene, secondo me in questo nuovo mondo, la bontà gioca e giocherà una parte più decisiva che la ragion pura. Ed è questa parte determinante della bontà, parte volontaria, che riassume a mio parere, tutta la camaraderie.

[Culmine, anno II, n. 6, 20 febbraio 1926]