Di fronte alla guerra e allo stato d’assedio: rompiamo le righe (it/fr)

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Stato d’assedio a Bruxelles. Centinaia di militari appostati nella via, migliaia di poliziotti pattugliano le strade della capitale europea. Scuole e università sono chiuse, la rete dei trasporti è quasi paralizzata. Le strade sono sempre più deserte, la paura contagia. I controlli nelle vie si moltiplicano e avvengono col mitra alla tempia. Se lo spazio è stato saturato dalle forze di polizia, anche le menti lo sembrano. E forse ancor peggio.
Sembrano finiti i tempi in cui gli Stati europei potevano far la guerra altrove nel mondo con attacchi aerei, occupazioni, aperture di nuovi mercati, sfruttamento selvaggio e saccheggio delle risorse, preservando i propri territori da atti di guerra per quanto non proprio simili, in ogni caso con la stessa logica. La guerra ha colpito il cuore della capitale francese, e non svanirà furtivamente. E ogni logica di guerra raccomanda di colpire nel mucchio. Come fanno gli Stati fin dalla loro esistenza, contro i propri sudditi e contro i sudditi di altri Stati. Come hanno fatto e fanno tutti coloro che aspirano a conquistare il potere, a imporre il proprio dominio. Che sia islamico o repubblicano, democratico o dittatoriale. Perché il dominio si insedia calpestando la libertà, la libertà di ciascun individuo. Autorità e libertà si escludono reciprocamente.

Alla guerra come alla guerra, quindi. La saturazione delle menti col discorso del potere elimina gli spazi di lotta per l’emancipazione umana, o li spinge comunque ai margini, ancor più di quanto fossero prima. La mobilitazione deve essere totale. Con lo Stato o con loro — e chi aspira a tutt’altro, chi si batte contro l’oppressione e lo sfruttamento, tutte quelle migliaia di ribelli e di rivoluzionari che sono stati assassinati e massacrati dagli Stati costituiti o in costruzione, che sono perseguitati in ogni parte del mondo, devono ormai considerarsi fuori gioco. Sull’altare del potere che già gronda sangue, migliaia d’altri aspettano il proprio turno di essere sacrificati.
Chi è responsabile? Occorre ricordare dove sono state prodotte le bombe al fosforo che hanno bruciato Falluja, chi ha consegnato le tecnologie informatiche ai servizi segreti dei regimi di Assad o di Sisi, chi ha addestrato i piloti che hanno bombardato Gaza? Occorre ricordare come vengono estratti il cobalto ed il silicio per gli strumenti informatici dalle profondità dell’Africa, come vengono prodotti tutti i beni di consumo che troviamo sugli scaffali dei supermercati e dei negozi? Occorre ricordare come il civile capitalismo gestisce i suoi centinaia campi di lavoro, dal Bangladesh fino al Messico? Da dove vengono le sinistre ombre dei droni che colpiscono ovunque nel mondo? Di come e in nome di chi vengono annegate da anni migliaia di persone nel Mediterraneo? Allora, dite, chi è responsabile?
Ma se i nostri occhi di ribelli guardano a ragion veduta verso l’alto per trovare la risposta, bisognerebbe che guardassero anche dentro noi stessi. Perché nel prossimo futuro, come già nel presente e in passato, è grazie alla nostra passività che ci renderemo complici della nostra oppressione. E questa passività non è solo l’inazione del braccio, è anche il piano di abbrutimento programmato da decenni dal potere che ci ha privato degli strumenti per comprendere la realtà, per comprendere la nostra rabbia. Che ci ha privati di ogni sensibilità se non decretata in funzione delle necessità del momento, di ogni capacità di sognare. È da qui, da questo programma di riduzione dell’uomo, che provengono oggi coloro che decidono di compiere delle stragi, di partecipare al gioco del potere, di massacrare anch’essi. Sarebbe stupido credere che le loro stragi possano colpire i potenti e le loro strutture. La guerra moderna in un mondo ipertrofico di tecnologia e di massacri a distanza non consente più tali sottigliezze, se mai queste ultime abbiano potuto esistere nella testa di uomini in guerra.
Nei quartieri di Bruxelles, oggi sotto occupazione militare, bisogna dirlo, tutto è stato utilizzato per frenare la rivolta sociale, per far estinguere la rabbia contro un mondo spaventoso e crudele. Che siano i corsi di cittadinanza e di promozione della democrazia (che sgancia bombe), che siano i meccanismi di controllo offerti dalla religione, che sia il doping massiccio di mezzi tecnologici: tutto, piuttosto della rivolta. Un gioco che talora sfugge anche dalle mani del potere, come sta accadendo oggi. E si colpisce nel mucchio. Tanto più se si appalesa la finzione di una ricompensa celeste, che da secoli e ancora oggi riesce a tenere milioni di schiavi nell’attesa della redenzione promessa sotto il giogo. In qualche misura, i decenni durante i quali lo Stato belga ha utilizzato l’islam per calmare gli spiriti, per mantenere il controllo sulle comunità degli esclusi, per gestire le contraddizioni sociali, si rivoltano oggi contro di esso. Ma forse ancor più contro la possibilità e la prospettiva di una rivolta liberatrice.
Di fronte alla militarizzazione dello spazio e a quella delle menti, di fronte alla guerra in cui gli Stati e gli aspiranti potenti ci trascinano — ben sapendo che saremo respinti sempre più ai margini — il nostro sforzo dovrebbe concentrarsi sul rifiuto assoluto di entrare nel gioco. Un rifiuto che comporta anche il rigetto delle regole che stanno imponendo. Oggi non fate rumore. Restate a casa, cioè nei ranghi. Cedete il posto ai terroristi della democrazia e ai terroristi del califfato. Che sia difficile violare questa occupazione e rompere le regole del gioco è fuori di dubbio. La scelta del disertore, di chi rifiuta di fare la guerra per i potenti, l’ha sempre esposto a mille e una repressione. Ma chissà se ai margini troveremo altri respinti, altri disertori, altri esclusi, altri sacrificati con cui sabotare la guerra in corso e lottare, senza limiti, per delle idee ostili a qualsiasi potere. Chissà se ai margini, in quell’angolo, la fiera internazionale, sfidando tutte le autorità, rinascerà in mezzo a un mondo dilaniato dalla guerra civile?
Se l’ultima cosa a cui ora rinunciamo è proprio il desiderio di libertà e il sogno in grado di affinare il nostro spirito, di far palpitare il nostro cuore e di armare le nostre mani, occorre allo stesso tempo sforzarsi di guardare in faccia la realtà. Gli spazi si restringono, il sangue già scorreva, scorre oggi e scorrerà di più, la lotta per la libertà e la rivoluzione ha senz’altro tempi difficili davanti a sé. Le condizioni in cui può svilupparsi la lotta rivoluzionaria peggiorano e dopo il massacro dei sollevamenti popolari degli ultimi anni in diversi paesi, per noi che ci troviamo nel continente europeo arriva il momento in cui ciascuno e ciascuna dovrà affrontare una questione forse terribile per le conseguenze, ma ricca di sfide: a dispetto di tutto, siamo disposti a lottare per la libertà?

Anarchici
Bruxelles, 23/11/15
[http://www.lacavale.be/spip.php?article279]

http://finimondo.org/node/1752

 

[Bruxelles] Face à la guerre et l’état de siège : rompons les rangs

État de siège à Bruxelles. Des centaines de militaires postées dans la rue, des milliers de policiers sillonnent les rues de la capitale européenne. Écoles et universités sont fermées, le réseau des transports est quasiment paralysé. Les rues sont de plus en plus désertes, la peur hante les esprits. Les contrôles dans la rue se multiplient et se font avec la mitraillette sur la tempe. Si l’espace est saturé par les forces du pouvoir, les esprits le semblent également. Et c’est peut-être encore pire.

Les temps où les États européens pouvaient faire la guerre ailleurs dans le monde à coups de frappes, d’occupations, d’ouverture de nouvelles marchés, d’exploitation sauvage et de pillage des ressources tout en préservant ses territoires d’actes de guerre si peut-être pas exactement pareils, en tout cas suivant la même logique, semblent révolus. La guerre a frappé la capitale française en plein cœur, et elle ne disparaîtra pas furtivement. Et toute logique de guerre préconise de frapper dans le tas. Comme le font les États depuis leur existence, contre leurs propres sujets et contre les sujets d’autres États. Comme l’ont fait et le font tous ceux qui aspirent à conquérir le pouvoir, à imposer leur domination. Qu’elle soit islamique ou républicaine, démocratique ou dictatoriale. Car c’est en piétinant la liberté, la liberté de chaque individu, que s’installe la domination. Autorité et liberté s’excluent mutuellement.

A la guerre comme à la guerre donc. La saturation des esprits par le discours du pouvoir élimine les espaces de lutte pour l’émancipation humaine, ou les pousse en tout cas vers la marge, encore plus qu’ils l’étaient avant. La mobilisation se veut totale. Avec l’État ou avec eux – et ceux qui aspirent à toute autre chose, qui se battent contre l’oppression et l’exploitation, tous ces milliers et milliers de rebelles et de révolutionnaires qui ont été assassinés et massacrés par les États établis ou en construction, qui sont poursuivis aux quatre coins du monde, doivent se considérer désormais hors jeu. Sur l’autel du pouvoir déjà totalement trempé de sang, des milliers d’autres attendent leur tour d’être sacrifiés.

Qui est responsable ? Faut-il rappeler où ont été produits les bombes au phosphore qui ont brûlé Fallujah, qui a livré les technologies informatiques aux services secrets des régimes d’Assad, de Sisi, qui a entraîné les pilotes qui ont bombardé Gaza ? Faut-il rappeler comment sont extraits le cobalt et le silicium pour les choses technologiques des profondeurs de l’Afrique, de comment sont produits tous les produits de consommation qu’on trouve dans les rayons des supermarchés et des magasins ? Faut-il rappeler comment le capitalisme civilisé gère ses centaines de camps de travail, de Bangladesh jusqu’en Mexique ? D’où viennent les sinistres ombres des drones qui frappent partout dans le monde ? De comment et au nom de quoi sont noyés depuis des années des milliers de personnes dans la Méditerranée ? Alors, dites-le, qui est responsable ?

Mais si nos yeux de révoltés regardent à juste raison vers le haut pour trouver la réponse, il faudrait qu’ils regardent aussi à l’intérieur de nous-mêmes. Car dans les temps à venir, et déjà dans les temps qui sont et qui étaient, c’est par notre passivité que nous sommes rendus complices de notre propre oppression. Et cette passivité n’est pas seulement l’inaction des bras, c’est aussi le projet d’abrutissement programmé depuis des décennies par le pouvoir qui nous a privé des outils pour comprendre la réalité, pour comprendre notre rage. Qui nous a privé de toute sensibilité qui ne soit pas décrété en fonction des nécessités du moment, de toute capacité de rêver. C’est de là, de ce programme de réduction de l’homme, que sortent aujourd’hui ceux qui se décident à faire des carnages, à participer au jeu de pouvoir, à massacrer eux aussi. Il serait stupide d’avoir cru que leurs carnages allaient viser les puissants et leurs structures. La guerre moderne dans le monde hypertrophié de technologie et de massacres à distance ne permet plus de telles subtilités, si jamais de telles subtilités ont pu exister dans la tête des hommes en guerre.

Dans les quartiers de Bruxelles, aujourd’hui sous occupation militaire, il faut le dire, tout a été utilisé pour faire tampon à la révolte sociale, pour faire amortisseurs de la rage contre un monde affreux et cruel. Que ce soient les cours de citoyenneté et de promotion de la démocratie (tout en larguant des bombes), que ce soient les mécanismes de contrôle offerts par la religion, que ce soit le dopage massif par les choses technologiques : tout plutôt que la révolte. Et parfois ce jeu échappe aussi des mains du pouvoir, comme cela arrive aujourd’hui. Et là arrivent les frappes dans le tas. D’autant plus si apparaît la fiction d’une récompense céleste, qui a su tenir depuis des siècles et jusqu’à aujourd’hui, des millions d’esclaves en attente de la rédemption promise sous le joug. Quelque part, les décennies que l’État belge a utilisé l’islam pour calmer les esprits, pour garder le contrôle sur les communautés des exclus, pour gérer les contradictions sociales se retournent aujourd’hui contre lui. Mais peut-être encore plus contre la possibilité et la perspective de la révolte libératrice.

Face à la militarisation de l’espace et la militarisation des esprits, face à la guerre dans laquelle les États et les aspirants-puissants nous entraînent ; et en sachant qu’on sera de plus en plus poussé vers la marge, l’effort devrait se concentrer sur le refus absolu d’entrer dans le jeu. Et ce refus implique aussi le rejet des règles qu’ils sont en train d’imposer. Ne pas faire du bruit aujourd’hui. Rester chez vous et donc dans les rangs. Céder la place aux terroristes de la démocratie et aux terroristes du califat. Qu’il sera difficile de percer cette occupation et de briser les règles de ce jeu est hors de doute. Le choix du déserteur, de celui qui refuse de faire la guerre pour les puissants, l’a toujours exposé à mille et une répressions. Mais qui sait si à la marge, on trouvera d’autres rejetés, d’autres déserteurs, d’autres exclus, d’autres sacrifiés avec qui saboter la guerre en cours et lutter, à corps perdu, pour des idées réfractaires à tout pouvoir. Qui sait si dans cette marge, dans ce coin, la fière internationale, défiant toutes les autorités, renaîtra au milieu d’un monde déchiré par la guerre civile ?

Si la dernière chose à laquelle on renoncerait maintenant, c’est justement le désir de la liberté et le rêve capable d’aiguiser notre esprit, de faire palpiter notre cœur et d’armer nos mains, il faut en même temps faire l’effort de regarder la réalité en face. Les espaces se rétrécissent, le sang coulait déjà, coule aujourd’hui et coulera davantage, le combat pour la liberté et la révolution a sans doute des temps difficiles devant lui. Les conditions dans laquelle doit se développer la lutte révolutionnaire se détériorent et après le massacre des soulèvements populaires des dernières années dans nombreux pays, vient aussi pour nous qui se trouvent sur le continent européen le moment où chacun et chacune devra affronter une question possiblement terrible en conséquences, mais riche en défis : est-ce que malgré tout, nous sommes prêts à lutter pour la liberté ?

Des anarchistes
Bruxelles, 23 novembre 2015