Luigi Galleani
I giorni dell’esilio
Ernest Coeurderoy
Edizioni Anarchismo, Trieste, 2013
Hanno fatto un’opera buona che riscuoterà certo il plauso di tutti gli studiosi e soprattutto dei compagni. Hanno tolto dall’oblio l’opera capitale di Ernest Coeurderoy, quei Giorni dell’Esilio in cui freme di tanti impeti uno dei periodi più tragici delle lotte proletarie, e nei quali insieme ad un anelito, indistinto forse eccessivamente sentimentale, di integrale liberazione, è un senso d’arte così squisito e così vivo da farne oltre che un documento prezioso dal punto di vista storico e sociale anche un capolavoro di letteratura e di eloquenza.
Noi siamo lontani, lontani assai dall’anima della generazione che tra la metà e la fine del secolo decimonono ci ha spianato delle sue audacie e delle orrende persecuzioni con cui le espiò, le vie della risurrezione, i voti e le imprecazioni che in Dejacque ed in Coeurderoy riecheggiano, con una violenza sconosciuta al Levitico, il peana degli odii, il singulto delle angustie, il rapimento dei grandi, generosi amori di cui è turgida incoercibilmente l’anima proletaria, non ci trovano né sempre né tutti proclivi all’abbandono. Altra l’aspirazione, altra la forma, altro il ritmo; ma quando chiudete i volumi di Giorni dell’esilio, voi avete un bel dirvi che son vecchie di mezzo secolo le concezioni rivoluzionarie, che è aberrazione disperata la rivoluzione per il male ad opera dei cosacchi, del Coeurderoy, che sono furori, romantici e retorici, i giambi del Dejacque, voi rimanete, vostro malgrado, vibranti sotto quell’urto a chiedervi se siano davvero migliori, perché ci parlano un linguaggio più semplice, le elucubrazioni e le messianiche profezie dei filosofi molto positivi e dei voti cortigiani dell’età nostra.
Perché, in fondo, il precursore nei Giorni dell’esilio v’è con tutti i suoi odii, con tutti i suoi orrori dell’oppressione, dell’ingiustizia e della tirannide, colle sue insurrezioni e colle sue aberrazioni, colle rivolte sataniche e incoercibili e profonde, colla lucida visione dell’Atlantide invocata, promessa ed affrettata nell’angoscia dell’esilio, nelle segrete fosche dell’ordine, negli spasimi di una miseria ineffabile, nel tormento, nel martirio di tutta l’esistenza. Il precursore che al sogno remoto di liberazione non imponeva ancora il giogo ibrido delle soluzioni e dei sistemi, che l’ideale riassumeva in tutta la giustizia, in tutto l’amore ed in tutta la libertà senza chiedersi come avrebbe giudicato, amato, benedetta l’umanità nuova, ma lungo la via non s’indugiava e colla limpida visione del compito storico affidato alla loro generazione preconizzavano e davan tutte le forze dell’intelletto, tutte le rivolte dell’anima, tutta la vita, a distruggere l’ordine presente d’oppressione e di vergogna.
E i compagni faranno bene a provvederne la loro biblioteca.
[Cronaca Sovversiva, anno IX, n. 3, 21/1/1911]