Ghérasim Luca
Quante volte ho pensato a te, adoratore della capigliatura, che alle sei di sera davanti alla stazione Trocadéro della metro stavi a spiare le scolare dalle lunghe trecce, con le forbici acuminate in mano come un sesso in erezione. Perché le forbici e i ciuffi di capelli nascosti sotto la camicia mi ricordano il luogo dell’incontro fortuito, il tavolo di dissezione dei Canti di Maldoror? Perché questa donna-oggetto dal cuore come un freddo brandello d’ectoplasma, dalla pelle traslucida e opaca attraversata dal vento e dai contagocce ricolmi di latte dei vampiri passivi, perché mettere quest’ombra solida su un tavolo operatorio, come un’offerta ai piedi della più superba delle donne?
Come potrei altrimenti penetrare la confusione sadomasochista nel fondo del mio essere, attivo e passivo come l’idea di ferita, provocante e provocato come il bianco che risulta dallo spettro solare?
E il mio immenso, il mio supremo desiderio di versare sangue, di tuffarmi in un bagno di sangue, di bere sangue, di respirare sangue, come potrei capirlo senza l’offerta di sangue che sono pronto a fare(*)? E il seno materno sempre più ampio, sempre più oscuro, che con precisione matematica determina ogni nostro gesto, come ci si fa più vicino ad ogni goccia di sangue versato? E il bel vampiro più pallido di una lettera, con gli occhi chiusi e i capelli di nebbia sparsi sulle spalle, sparsi sulle spade, succhia freneticamente. Il balzo in avanti e all’indietro che egli esegue nella sua solitudine, come un blocco di ghiaccio, indovina il passato, rivela l’avvenire e getta sul mondo una luce spettrale, una luce di tenebra.
Chiudo gli occhi, attivo come i vampiri. Li apro verso l’interno, passivo come i vampiri e, tra il sangue che affluisce, il sangue che mi lascia e il sangue che già era in me, avviene uno scambio di immagini simile a un incrocio di lame. Ora sono in grado di divorare un pianoforte, di fucilare un tavolo, di aspirare una scala. Tutte le estremità del mio corpo sono fori da cui escono gli scheletri del pianoforte, del tavolo, della scala, e per la prima volta questi oggetti di uso abituale, quindi inesistenti, esistono. Salgo questa scala, non per arrivare al primo piano, ma per avvicinarmi a me. Mi sostengo alla ringhiera, non per sfuggire alla vertigine ma per trattenerla. Se, arrivato all’ultimo piano, spalanco una porta che dà direttamente sulla strada, precipito nel vuoto ma non muoio. Se muoio comunque, questo fenomeno è solo un pretesto di cui si serve un altro fenomeno obiettivo e più facilmente comprensibile. Capisco il senso di colpa, ma non capisco la morte. Non riesco a capire come questa iniquità, questo errore abbia potuto sterminare tante generazioni, e come gli uomini possano considerarlo una finalità (non si tratta di canaglie che parlano dell’aldilà). La morte è una fine irrimediabile, una «verità», un ostacolo supremo nella realtà degli ostacoli. In questa realtà, dove l’elisir di lunga vita è una fantasia, un sogno degli alchimisti, la morte è irrimediabile e definitiva. Ma per noi, il sogno degli alchimisti, come ogni sogno, corrisponde a una realtà. Noi neghiamo la falsa realtà esterna, neghiamo la falsa realtà della morte, neghiamo ogni repressione. L’elisir di lunga vita è un sogno profetico e, se noi pensiamo alla realtà del desiderio, tutti i sogni possono essere considerati come profetici. La morte di domani sarà tutt’al più un sostituto macabro del piacere, un vestigio traumatico trasmesso dalle generazioni passate per conservare il gioco dell’ombra e di luce degli impulsi, ma la morte fisica, irrimediabile e definitiva, sarà una sinistra utopia. Solo gli esseri dalla psicologia di cadavere che fanno parte dell’attuale società possono candidamente parlare di morte «naturale».
Da quando vivo i miei sogni, da quando sono il contemporaneo dei secoli a venire, non riconosco più la morte sotto l’aspetto annientante che ha conservato nella società attuale. Solo nei momenti di grande depressione mi rendo conto che nel mondo di canaglie in cui sono nato sarò costretto a morire, nello stesso modo in cui sono oggi costretto a camminare per strada a fianco di poliziotti e preti.
Ma i momenti di grande depressione non potranno conquistare la mia vita. Fuori da queste tagliole in cui posso talvolta inciampare, la mia vita diurna e notturna è reale. Qui la morte, per essere un fenomeno reale, cerca equivalenti libidinosi, e solo sotto questo nuovo aspetto può esercitare una funzione nel nostro apparato psichico. Proprio come Fantomas, scomparso sotto una identità qualunque, può diventare il Maestro dell’Orrore, il Genio del Crimine, l’Aguzzino, solo se indossa la calzamaglia nera e si maschera il volto, io vorrei uccidere vestito di velluto bianco ad un tavolo operatorio o chino su una carrozzina da bambini. Ad un altro tavolo operatorio, vicino alla finestra le cui tende sollevate lasciano penetrare i raggi della luna, sta il bel vampiro silenzioso. Vestito da sera, con le labbra premute su un collo nudo come un uccello, sembra ora un suonatore di flauto che esegue su strumenti vivi le pulsazioni del sangue. A intervalli appena prolungati, le gocce passano dallo strumento alle labbra. Ogni sorsata è trattenuta un momento nella bocca, per dar profumo alle sue narici, per ubriacare il suo fiato. Come una frusta di fuoco sul petto, la bevanda passa veloce attraverso l’apparato digerente. Barcollando, forse ancora più pallido, ancora più solo, il bel vampiro ingoia un’altra sorsata di sangue. Nel mio abito di velluto bianco, vorrei sezionare un fanciullo vivo, guardando di tanto in tanto verso la finestra il viso del vampiro macchiato dalla luna.
(*) «Quando l’ateismo vorrà dei martiri, mi dia un segno e il mio sangue è pronto…» (Sade)
[Le Vampire passif, 1941