LETTERE DI SEVERINO ALLA SUA AMANTE AMERICA

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 e lettere che Severino Di Giovanni scrisse alla giovane amante, l’adolescente d’origine calabrese Josefina America Scarfò detta Fina,  furono scovate da Osvaldo Bayer, il giornalista argentino che sull’anarchico svolse accurate ricerche culminate nella pubblicazione di una fondamentale biografia nota anche in Italia (Osvaldo Bayer, Severino Di Giovanni, l’idealista della violenza, Edizioni Collana “V. Vallera”,  Pistoia 1973).

La Scarfò cercò a lungo di riottenere dalle autorità i vecchi scritti. Le riuscì, ottantaseienne, or non è molto.

 

Severino Di Giovanni

“ho la febbre in tutto il corpo”, una lettera a Josefina Scarfò

 

Domenica 19 agosto 1928.

 

Mia amica. Ho la febbre in tutto il corpo. Il tuo contatto mi ha riempito di tutte le dolcezze.

Mai come in questi lunghissimi giorni, ho tanto centellinato i sorsi della vita.

Prima vivevo le ore tranquille di Tantalo ed ora, oggi, l’oggi eterno che ci ha uniti, vivo, senza saziarmi, tutti i sentiti armoniosi dell’amore tanto cari a Shelley ed alla George Sand. Ti dissi -in quell’amplesso espansivo -quanto tempo ti amavo, ma vorrei dirti anche quanto ti amerò, perché il pane della mente che sa materializzare tutte le idealità elette dell’esistenza umana,ci sarà la guida più esperì a ,pieno di tante abilità, risolutrice di tutti i problemi nostri, che – e te lo dico con tutta la sincerità di un amico, di un amante di un compagno il nostro unisono bene sarà bello e lungo, godente e pieno di tutti i sentimenti, grande e sconfinatamente eterno. Quando ti parlo di eternità – tutto ciò che il cuore ha voluto ed amato è eterno – voglio alludere all’eternità dell’amore. L’amore mai muore. L’amore che ha germogliato lontano dal vizio e dal pregiudizio, è puro e nella sua purezza non si può contaminare e l’incontaminato è dell’eternità.Vorrei potermi esprimere sempre nel tuo idioma (Fina gli scriveva sempre in Castigliano, n.d.r.)per cantarti ogni attimo del tempo la dolce canzone dell’anima mia, farti comprendere i palpiti che percuote fortemente il cuore, le delicate figurazioni del pensiero mio che di tè invaghitesi non potrà mai dare il “finis” della sua elegia.

Ma d’altra parte -io che credo che il mio amore è da te contraccambiato con tutta la possanza della tua gioventù ancora in bocciolo, l’ho letto tante volte sulle tue nere pupille – mi contento nel sapere che per comprendere queste linee debbono essere rilette più di una volta da tè. Tu non avrai tempo di scrivermi. Tu devi ancora dedicarti allo studio. Baciami come io ti bacio.

Rendimi duplicato il mio bene che ti voglio. Sappi che ti penso sempre, sempre, sempre. Sei l’angelo celestiale che mi accompagna in tutte le ore tristi e liete di questa mia vita refrattaria e ribelle. Con te, ora e sempre.

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Severino di Giovanni, nato a Chieti nel 1901, tipografo anarchico, abbandona l’Italia nel 1922. Emigrato in Argentina, entra presto in urto con la vasta comunità dei suoi compagni. Di Giovanni teorizza la rapina alle banche come fonte di finanziamento e propone di far saltare in aria le centrali di polizia, notoriamente dedite alla tortura. All’epoca delle grandi manifestazioni di solidarietà con Sacco e Vanzetti, si verificano alcune clamorose rapine. Di Giovanni pubblica numerosi testi anarchici e un giornale, “Il culmine”, che lo pone, per il tono degli articoli, all’attenzione della polizia. E’ sposato ed ha quattro figli. Nonostante le continue perquisizioni alle quali è sottoposta casa sua, cerca di conciliare vita pubblica e attività clandestine.  Conosce Josefina quando, a un certo punto, si rivolge ai fratelli Scarfò, anarchici e suoi collaboratori, affinché lo aiutino a trovare un appartamento che gli serva da “base”. Gli Scarfò gli offriranno una stanza della loro casa. L’amore con Josefina scatta immediatamente. Dopo numerose rapine ed attentati, Severino Di Giovanni è catturato e con un breve processo si decide la sua immediata fucilazione (alle 10.30 del 31 gennaio del 1931). Paulino Scarfò condivide la medesima sorte. Muoiono gridando: “Viva l’anarchia”

 

Il movimento anarchico aveva cominciato a sconfessare l’attività di Severino Di Giovanni subito dopo l’attentato a danno del consolato italiano di Buenos Aires. L’anarchico voleva collocare la bomba nell’appartamento del console, ma una serie di circostanze lo costrinsero a depositarla nell’ingresso dell’edificio, dove il console sarebbe dovuto passare da lì a poco. L’esplosione avvenne invece quando la sala era zeppa di persone in attesa di ottenere un visto. Nove i morti. Altro attentato disastroso fu quello alla National City Bank, che fece due morti e ventitré feriti. Di Giovanni, sul suo giornale, prese a ribattere le accuse del movimento e scrisse all’ “Adunata dei refrattari”, organo degli anarco-individualisti italiani negli Stati Uniti. Chiedeva una commissione anarchica internazionale che giudicasse i fatti. Luigi Fabbri e Vincenzo Capuana mostrarono compresione, ciò indusse Di Giovanni a credere in una specie di avvallo. Un attentato in cattedrale causò un morto. Insieme a Buenaventura Durruti – per un certo periodo anch’egli esule in Argentina – pose una bomba su un bastimento in solidarietà con l’equipaggio in sciopero. Ancora altri gesti clamorosi, fino all’uccisione di  Emilio Lopez Arango, nuovo direttore del giornale anarchico avversario “La protesta”. Da lì in poi Severino Di Giovanni sarà solo con la sua banda, privata per altro di Alejandro Scarfò, arrestato e rinchiuso nel manicomio criminale di Vieytes. Progettò la liberazione dell’amico e, nel frattempo, si diede a preparare un’elegante edizione di due volumi degli scritti di Elisée Reclus. Fu uscendo dalla tipografia che i poliziotti gli intimarono l’arresto. Alla fine di una fuga rocambolesca, lasciandosi alle spalle due poliziotti morti, sentendosi perduto, si puntò la pistola al petto. Sparò ma non morì. Insieme a Paulino Scarfò, fu giudicato rapidamente da un tribunale militare. Il tenente Juan Carlos Franco, nominato difensore d’ufficio, prese a tal punto sul serio la causa che nell’arringa indicò nei metodi brutali della polizia argentina una motivazione plausibile per il ricorso a mezzi quali quelli usati dagli imputati. Lanciò inoltre pesanti accuse al governo, intenzionato a strumentalizzare l’intera vicenda. La pubblica accusa chiese l’immediata carcerazione del militare e l’esclusione dall’esercito: sarà espulso dal paese. Prima di morire, Di Giovanni incontrerà la moglie e la giovane amante. Esorterà quest’ultima a fondare una nuova casa editrice. Più tardi Josefina si sposerà e insegnerà italiano all’Università di Buenos Aires, continuando a militare nell’anarchia. Nel 1951 venne in Italia per visitare il paese dal quale emigrarono i genitori. Si recò anche a Chieti alla ricerca dei parenti di Severino, ma incontrò un muro di gomma. Da allora, non tornerà più in Italia.