Nata come pubblicazione periodica, proseguita come casa editrice, la “Encyclopédie des Nuisances” porta avanti da molti anni in Francia una serrata critica alla società industriale e alle sue nocività. Le sue analisi vengono spesso associate e rimandano a quella critica radicale formulata contro «la società dello spettacolo» negli anni 60 dall’Internazionale Situazionista, di cui in un certo senso l’Encyclopédie si ritiene legittima erede. Non si può certo dire che si tratti di un millantato credito, tenuto conto che un paio di enciclopedisti hanno iniziato a farsi le ossa proprio nell’IS e che per un breve periodo l’Encyclopédie ha goduto del viatico dello stesso Guy Debord. Ma se all’inizio i riferimenti e le citazioni situazioniste abbondavano negli scritti enciclopedisti, col passare del tempo sono andati via via scomparendo. Non a caso. Infatti tutta l’attività di Semprun e compagni inciampava di continuo in una contraddizione che iniziava a risaltare sotto gli occhi di tutti e che rischiava di minare la stessa credibilità della loro opera: come è possibile criticare radicalmente la tecnologia e rifiutare ogni ipotesi di rottura rivoluzionaria (come fa l’Encyclopédie) e al tempo stesso tessere le lodi a tecnofili sfrenati nonché rivoluzionari convinti (quali furono i situazionisti)?
Alla fine uno dei partecipanti alla “Encyclopédie des Nuisances”, Jean-Marc Mandosio, ha deciso di affrontare di petto il delicato argomento. Il risultato di questa alquanto esoterica ma coraggiosa iniziativa è Nel calderone del negativo, edito in Italia da “415”. Un libro sotto certi aspetti sorprendente, anche perché riesce ad esprimere attraverso uno stile di facile lettura (va riconosciuto all’autore il merito di bandire i fumosi funambolismi letterari) un contenuto difficile da digerire (difficoltà dovuta non a una complessità di ragionamento quanto al fatto che, letteralmente, non si può credere ai propri occhi). Nel suo libro Mandosio, rompendo con la tradizione panegirica pro-situs, passa al setaccio la teoria situazionista stigmatizzandone le preghiere rivolte al Progresso, le genuflessioni davanti alla Scienza, il sostegno dato all’Industria. In effetti il contributo dei situazionisti al progetto sovversivo di «rovesciare il mondo» è diventato imbarazzante se si considera quello che è sempre stato il loro cavallo di battaglia, l’ossessivo ritornello che faceva capolino in ogni loro analisi, ovvero l’utilizzo alternativo dell’apparato della produzione moderna: «impadronirsi dei mezzi tecnici che, dominando il possibile, gli impediscono di realizzarlo». Gli effetti di questi mezzi tecnici sono sotto gli occhi di tutti, dalla degradazione delle coscienze annichilite dal ronzio mediatico fino alle devastazioni ecologiche che da anni si susseguono inarrestabili ovunque, alterando l’equilibrio naturale e arrivando a minacciare la stessa sopravvivenza della vita sul nostro pianeta. Ciò dimostra come lo sviluppo e l’utilizzo sistematico delle moderne tecnologie, lungi dal permettere la liberazione dell’uomo come sostenuto dai situazionisti, abbia solo condotto l’intera umanità sull’orlo del precipizio. Affermare che ciò sia dovuto solo alla cattiva coscienza degli scienziati, al loro essere al servizio del dominio anziché della libertà, significa veramente essere ciechi sulla natura stessa della tecnologia, sul carattere dello sviluppo della tecnica moderna il cui perfezionamento ha sempre seguito precisi interessi di parte. Le scoperte scientifiche rispondono a quesiti che nulla hanno a che vedere con il benessere o la libertà, in tutte le sue forme possibili e immaginabili. Sono soluzioni tecniche a problemi che nascono dalla gestione del potere e dalla ricerca del profitto. In quanto tali, non possono venire usate in maniera liberatoria poiché il loro uso riprodurrebbe il contesto sociale nel quale sono sorte, quello cioè della società fondata sull’autorità e sul denaro.
Anziché negare l’evidenza o rimuovere quanto può sembrare compromettente, Mandosio riconosce senza fronzoli gli abbagli presi dai situazionisti, divertendosi soprattutto a gettare a terra le tecno-caramelle del piccolo Vaneigem (Debord, che ha spalle più robuste, viene trattato con maggior rispetto). Si tratta di un vero e proprio regolamento di conti teorico con il passato situazionista, che si conclude in maniera definitiva: «Se una presa di coscienza anti-industriale può nonostante tutto finire per acquisire una certa forza, questa non prenderà — almeno di questo possiamo essere assolutamente certi — la forma della teoria rivoluzionaria situazionista. Non è quindi il caso di augurarsi che questa resusciti…».
La teoria rivoluzionaria situazionista è quindi morta, è un cadavere in avanzato stato di putrefazione. Non è davvero il caso di agitarla come se si trattasse di una bandiera, se non si vuole diffondere sgradevoli miasmi. Meglio chiuderla in una bara a tenuta stagna, seppellirla, e ricordarla con…con… già, come bisogna ricordarla? Con affetto o con irriverenza? Ai funerali della teoria situazionista bisogna partecipare con commozione, gli occhi lucidi ed il fazzoletto in mano, oppure si può tranquillamente sghignazzare e pisciare sulla lapide? In fondo, una volta stabilito che le tanto decantate “intelligenza critica” e “lucidità teorica” dell’Internazionale Situazionista sono solo un mito ad uso e consumo del suo Fan Club — visto che in realtà l’IS non fece altro che fornire ragioni al dominio tecnologico del capitale — perché mai la sua memoria meriterebbe di essere ricordata con ammirazione e non venire consegnata, se non al disprezzo, almeno all’indifferenza? D’altronde, cosa ha affermato l’IS di tanto diverso da quella «cyber-cultura» definita da Mandosio una «colossale truffa» per aver agghindato «con le attrattive della contestazione» la garanzia filocapitalista di vivere «un’epoca meravigliosa»?
Qui Mandosio, ammiratore travestito da critico, getta la maschera rivelando cosa bolle in effetti nel suo calderone. È inutile, un pro-situs rimane un pro-situs: anche quando s’incaponisce a rimproverare i propri beniamini, non può fare a meno di adorarli. Tanto egli è disponibile a riconoscere i limiti teorici dell’IS, tanto è refrattario a trarne le logiche conseguenze. La sua requisitoria contro la tecnolatria situazionista è precisa, circostanziata, ma incredibilmente termina con una richiesta di assoluzione, un po’ per decorrenza dei termini, un po’ perché le riconosce tutte le attenuanti possibili e immaginabili. Sentite cosa dice: «Quella che appare adesso come la debolezza maggiore dei testi situazionisti — soprattutto quelli di Vaneigem — non era così evidente trent’anni fa; ma non solo, era proprio ciò che appariva all’epoca come uno dei loro grandi punti di forza: la capacità (di ordine esclusivamente retorico) di far considerare come quasi a portata di mano degli obbiettivi irraggiungibili, di far balenare la possibilità di una trasformazione magica delle contraddizioni in un “superamento” inaudito delle condizioni oggettive». Insomma, la debolezza della teoria situazionista — in questo caso, il suo tecnofeticismo — appare in maniera chiara solo oggi, con il senno del poi. Qui si lascia intendere che all’epoca la critica alla tecnologia fosse pressoché inesistente e che quindi non si può pretendere che i situazionisti se la inventassero di punto in bianco. Si tratta della riproposizione di quanto già affermato dalla medesima “Encyclopédie des Nuisances” nelle sue Considerazioni storiche sull’Internazionale Situazionista (edizioni “415”, Torino, 1994): «Attraverso ogni sorta di erranze e di mistificazioni, poco evitabili allora, progrediva (in Francia a partire dagli anni Sessanta, vale a dire relativamente tardi) la coscienza che, essendo stato superato il punto in cui l’innovazione tecnologica poteva venire indirizzata, riorientata in senso liberatorio, si trattava in modo prioritario di ostacolarne la sua insensata prosecuzione. E ciò che era stata l’anticipazione dell’I.S. — il suo tentativo di formulare un programma appassionante per il cambiamento materiale delle condizioni di vita — si trasformava allora in ritardo nella capacità di dare le sue ragioni storiche alla resistenza al preteso progresso».
Ciò che irrita maggiormente in questo genere di considerazioni storiche non è tanto quel che tardivamente si afferma, ma quanto ci si ostina a tacere. L’Internazionale Situazionista non fu semplicemente «in ritardo nella capacità di dare le sue ragioni storiche» allo sviluppo di una coscienza critica in Francia nei confronti della civiltà tecnologica, ma fu in anticipo nel battersi apertamente contro chi questa coscienza già la possedeva e proprio perché la possedeva. Fedeli tecnofili, i situazionisti non si limitarono ad ignorare completamente le opere dei primi critici della società tecnologica (come Tecnica e civiltà di Lewis Mumford, noto in Francia almeno dal 1950, oppure i vari saggi degli esponenti della Scuola di Francoforte, per non parlare di quel Jacques Ellul il cui libro La tecnique ou l’enjeu du siècle risale al 1954 e che chiese di entrare nell’IS venendo però respinto per motivi “anticlericali”). Ma proprio su questo punto essi scatenarono la loro offensiva contro i surrealisti, rei ai loro occhi di essere «persino» ostili alla civiltà moderna delle macchine. C’è addirittura chi sostiene da tempo che il ritardo pluridecennale con cui l’opera di Günther Anders L’uomo è antiquato è stata diffusa in Francia — a cura per altro della stessa Encyclopédie — fosse dovuto al veto posto all’epoca sia da Sartre (in ambito accademico) sia da Debord (in ambito “sovversivo”). Se l’intellettuale stalinista non voleva favorire avversari dichiarati, l’intellettuale situazionista temeva di perdere la sua aura di originale radicalità facendo la figura del volgare plagiario e mistificatore. Per costruire la sua teoria dello spettacolo egli avrebbe infatti saccheggiato le tesi di Anders sul «mondo come fantasma e come matrice», di cui aveva letto la traduzione inglese apparsa su una rivista di movimento nel 1956! Tutto ciò dimostra come l’atteggiamento dei situazionisti non sia stato affatto «poco evitabile», così come dimostra la falsità di far risalire lo sviluppo di una coscienza antitecnologica in Francia «a partire dagli anni ‘60».
È singolare che Mandosio, nell’inserire l’esperienza dell’IS nel solco della «poesia moderna», dimentichi che, ad eccezione del futurismo, il rifiuto della tecnologia è una costante nelle avanguardie. Gli espressionisti, intrisi dal primitivismo di Gaugin, vedevano nel progresso industriale il declino e la fine dei più alti valori spirituali e nelle loro opere hanno più volte denunciato l’ottusità della civiltà moderna e della vita meccanizzata, scandita dal ritmo delle macchine. I dadaisti, coerenti con il loro particolare nichilismo frutto dell’indifferenza nei confronti dell’esistente, opposero alle macchine utili fabbricate dall’odiata società borghese delle macchine perfettamente inutili. Dal canto loro, i surrealisti non si stancarono mai di denunciare «i falsi amici del meraviglioso» travestiti da scienziati. Le loro critiche al progresso tecnico, presenti fin dagli inizi, si fanno ricorrenti soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, cioè dopo Hiroshima. Nel 1946 Breton denunciava che «ogni progresso scientifico compiuto nel quadro di una struttura sociale difettosa non fa che andare a svantaggio dell’uomo, e contribuire ad aggravarne la condizione», mentre Artaud constatava con amarezza che «là dove c’è la macchina c’è sempre l’abisso e il nulla, c’è sempre una mediazione tecnica che deforma e annienta ciò che si è fatto». Questa ostilità surrealista nei confronti delle pretese conquiste della scienza conoscerà un crescendo che culminerà con la diffusione, nel febbraio del 1958, dell’appello Smascherate i fisici — Vuotate i laboratori, che cominciava con queste chiare parole: «Nulla, assolutamente nulla, oggi distingue la Scienza da una minaccia di morte permanente e generalizzata…».
Pochi mesi dopo, sempre nel 1958, vengono pubblicati i primi numeri dell’Internationale Situationniste che si caratterizzano proprio per le aspre critiche rivolte al movimento animato da Breton, cui si fa notare che «un movimento più liberatorio del surrealismo del 1924 non si può costituire facilmente, perché il suo carattere liberatorio dipende ora dalla capacità di appropriarsi dei mezzi materiali superiori del mondo moderno. Ma i surrealisti del 1958 sono diventati incapaci di aderirvi e sono decisi persino a combatterlo», oppure che «I sogni surrealisti corrispondono all’impotenza borghese, alle nostalgie artistiche e al rifiuto di prendere in esame l’uso liberatorio dei superiori mezzi tecnici del nostro tempo». Tutto ciò indica che l’errore in cui caddero i situazionisti, che per di più si vantavano di essere il «superamento» dei loro predecessori, sia stato assai più grave di quel che lasciano intendere i loro chierici contemporanei.
Come se non bastasse, con un doppio salto mortale della ragione Mandosio sostiene che sia proprio questa esaltazione dei prodigi dell’automatismo ad aver reso prodigiosa la teoria stuazionista. Incredibile ma vero, il suo punto debole era il suo punto di forza! Come a dire che i situazionisti furono rivoluzionari irresistibili proprio perché erano dei ciarlatani, imbonitori di false promesse sugli effetti liberatori della tecnologia. Sfidando il senso del ridicolo, Mandosio fa notare che: «Si può pensare che se i situazionisti si fossero mostrati conseguenti e lucidi su tutti i piani, compreso quello dell’abbondanza materiale e dell’automazione, avrebbero perso una buona parte del loro potere di attrazione, mentre la prospettiva del “superamento”, non essendo un semplice atteggiamento difensivo e contenendo implicitamente la promessa di un avvento migliore, aveva le sue brave ragioni per essere seducente. La lucidità da sola non ha mai avuto molto successo…». Insomma, se si vuole avere «molto successo» bisogna saper rendere attraente, «seducente», la merce teorica che si vende. La lucidità, qui intesa come mera unione di intelligenza e sincerità, non è molto redditizia. Molto meglio puntare su quanto può entusiasmare, come le illusioni progressiste. Se poi ciò è esattamente quello che sostiene ed auspica il dominio, pazienza, si tratta del pedaggio che occorre pagare per ottenere una buona pubblicità. Per sostenere una simile assurdità Mandosio scomoda Leopardi ed il suo concetto di «illusione necessaria» contro cui è stolto combattere. Del resto, precisa l’autore, «Anche se l’illusione progressista di cui si è nutrita la società industriale ci uccide a fuoco lento, conserva sempre almeno una piccola parte del suo potere di seduzione o di consolazione (analogamente in questo alla religione), di fronte alla deprimente assenza di promesse che sembra comportare l’idea stessa della deindustrializzazione». Capito? Per questo bizzarro critico della tecnologia, la deindustrializzazione ha il difetto di sembrare un’idea deprimente, mentre l’iperindustrializzazione può invece contare su magnifiche promesse di religiosa redenzione. I situazionisti hanno sì contribuito ad ucciderci «a fuoco lento», ma bisogna dar loro atto che nel frattempo ci hanno almeno sedotto & consolato con le loro illusioni.
Illusioni necessarie, appunto. E poi, ammettiamolo, non era così facile accorgersi che la deriva situazionista sarebbe approdata all’incubo tecno-totalitario. E sapete perché? Se queste nefaste illusioni «erano ben poco percepite come tali» è perché «erano accompagnate dalla demolizione, di cui i situazionisti ebbero a lungo l’esclusiva, di diverse illusioni contemporanee, fra le quali una delle più famose fu quella della “rivoluzione culturale” cinese». Per Mandosio, più che un’organizzazione rivoluzionaria, l’IS sembra essere stata un’azienda che poteva contare sull’«esclusiva» del settore demolizioni e su un «successo» talmente abbagliante da rendere ciechi. Va bene che i pro-situs sono soliti congratularsi a vicenda per aver scelto di diventare concessionari di un marchio teorico dal ricco bilancio, ma qui l’argomentazione striscia sotto i piedi facendosi invero imbarazzante. Crede davvero Mandosio che negli anni 60 i sovversivi fossero tutti filomaoisti tranne l’IS? E quali erano le altre “esclusive” dell’IS? Forse il fatto che «Istruiti dalla storia, i situazionisti enunciano l’assunto teorico che la rivoluzione non può avere per obbiettivo la sostituzione del potere di un gruppo con quello di un altro»? Oppure che «Nell’ottica situazionista, a compiere la mutazione rivoluzionaria è l’azione cosciente degli individui e non, come nella vulgata marxista, la sola modificazione delle infrastrutture economiche, dal momento che si tratta di sopprimere l’economia stessa nel suo insieme. L’abolizione dello Stato e dell’economia dev’essere realizzata immediatamente, altrimenti non lo sarà mai, com’è dimostrato dal suo rinvio alle calende greche da parte dei controrivoluzionari che hanno fatto riferimento al marxismo»? No di certo, essendo questi dei tratti fondamentali dell’anarchismo, condivisi in parte anche da alcune correnti del marxismo meno ortodosso e lobotomizzato. E quindi? Come sempre, quando si leggono testi pro-situs, fa capolino un dubbio: poiché simili affermazioni sono a dir poco ridicole se riferite al movimento rivoluzionario nel suo insieme, in quale ambito possono essere prese sul serio? In quale contesto queste banalità di base possono venire spacciate per innovazioni radicali senza suscitare ilarità? Non è che Mandosio scrive esclusivamente per lettori appartenenti ad una sinistra salottiera e annoiata in cerca di pruriti radical-chic, i soli che possono trovare spregiudicate e originali le sue ovvietà trite e ritrite?
Temiamo che siano questi i soli lettori in grado di apprezzarlo, considerando anche l’indimenticabile conclusione del suo libro. Se la società industriale sta ponendo fine a ogni forma di vita — come continuamente denunciato da tutti gli enciclopedisti nelle loro opere — come fare per combatterla, per bloccarla, per impedire l’apocalisse? La via delle riforme, va da sé, non porta che a compromessi e sconfitte. E poi, il riformismo è per sua natura lento, troppo lento. Se già è stato incapace ieri di trasformare la società, figuriamoci cosa può fare oggi per fermare un processo distruttivo che accelera ogni giorno di più. Una rivoluzione? Questo è escluso. Ci avevano già provato i situazionisti, e se hanno fallito loro che erano esseri superiori dotati di genio divino vuol dire che non c’è proprio nulla da fare. Per essere certo che nessun lettore possa farsi venire strane idee in testa, Mandosio — amante dei ragionamenti circolari e dei sillogismi — dimostra in 24 proposizioni che «la rivoluzione è una cosa impossibile da realizzare».
E allora cosa rimane? Niente, non rimane niente. È troppo tardi. Si può al massimo mantenere un certo dignitoso contegno, maledire il dominio e ricordare i bei tempi che furono. Questo è il nobile insegnamento che si può trarre da quasi tutti i testi della “Encyclopédie des nuisances”. Quasi tutti, perché Mandosio riesce a stupirci ancora una volta con queste incredibili parole finali: «Non è detto però che l’assenza d’illusioni sia del tutto priva di seduzione — non foss’altro che perché è anch’essa, secondo Leopardi, un’illusione. Non tutte le speranze sono dunque perdute. E come diceva Baudelaire, con il quale questa storia è iniziata ed è quindi giusto che termini: “S’era alzato il sipario, e io aspettavo ancora”». Soddisfatto di aver trovato un’illusione anche nell’assenza di illusioni, Mandosio fa quel che ci si aspetterebbe da un nemico della società dello spettacolo che abbia visto alzarsi il sipario. Lui non perde tutte le speranze e non si rassegna, nossignori, lui aspetta ancora!
Dinanzi a cotanta radicalità il minimo che si possa dire è che la società industriale non ha motivo di temere i suoi bolsi critici enciclopedisti. Con l’effetto dissuasivo e soporifero che producono, le loro invettive non ostacoleranno di certo la sua folle corsa.
[Inedito, 2005]