Percey Bysse Shelley

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Nino dal Vespro
Se Dante fu il poeta del credo divino, fu anche il poeta giustiziere che nella lotta contro il suo secolo scese senza spirito di parte, facendo parte a sé. Dei suoi anatemi contro i falsi ministri di Dio, la Chiesa si vendicò perseguitandolo e deridendolo, vita natural durante.

Oggi, la critica devota all’apostolica religione esalta il poeta e gli perdona la sua ira; perché se Dante fu giustiziero non fu ateo. E la Chiesa condanna l’eresia, ma perdona la bestemmia; per la prima il rogo, per la seconda il confessionale.
Vincenzo Gioberti, fanatico custode dell’altare, esalta Dante, non perché propugnò lo Stato laico, non perché bollò d’infamia il suo secolo; né tanto per l’arte somma, ma perché:
«Il merito sovrano di Dante è di essere stato il primo a cogliere le potenziali bellezze della parola evangelica e ad improntarle in una nuova lingua, onde il suo poema è veramente la Bibbia umana del nuovo incivilimento, essendo per ragion di tempo e di pregio il primo riverbero della divina…» (Gioberti – del Primato).
E il Gioberti a questo proposito non sragiona, perché s’è vero che noi servendoci di un verso dantesco possiamo bollare un tiranno, è pur vero che quel verso Dante ce l’offre come un diritto divino.
Ma noi non oseremmo respingere Dante sol perché si allontana dal nuovo concetto umano, o condannare la sua opera all’oblio; e nemmeno osiamo porre avanti a Dante il Petrarca, anche se l’arte di quest’ultimo entra nel profano, onde, Laura, a differenza della messaggera celeste Beatrice, viene dalla terra, palpitante di vita, e di piacere sessuale.
Dante è sommo artista, e mediante la sua arte egli ci dà la chiave che schiude alla nostra intelligenza il mistero divino, onde noi possiamo sottoporlo alla nostra critica, e con questa distruggerlo, dopo averlo considerato un pregiudizio nocivo all’umanità.
L’arte del grande poeta arricchisce la nostra favella, e noi troviamo il modo di esprimere il nostro pensiero, che scaturisce dall’inno delle nostre sensazioni.
Ma questo non piace alla Chiesa, la quale preferisce restringere la sapienza ad un numero ristretto di privilegiati, onde arrestare quanto più è più possibile l’umano progresso.
Quando il Renàn purga la vita di Gesù da tutto l’artifizio del miracolo per farne un personaggio storico, la Chiesa insorge, lo perseguita, perché senza l’Inferno e il Paradiso, la religione precipita nel vuoto.
La religione non ammette discussione, la Chiesa condanna il pensiero che sostituisce l’investigazione al clero.
Gioberti esalta Dante, ma diventa furibondo contro George Byron e, per il solo torto di criticare il dogma divino, lo condanna interamente all’oblio.
«Come? Un uomo ha passato i suoi giorni a bestemmiare la provvidenza del suo creatore, e non sarà permesso il dire di lui una parola di vituperio? Un poeta ha consumato il suo ingegno a corrompere i suoi simili, dilettandoli; a spiantare le basi della società umana, che consistono nei terrori e nelle speranze della religione, e non si potrà predicarlo più reo dinanzi a Dio e agli uomini di quei malfattori, che languiscono nelle carceri, e spirano sul patibolo? I bei versi faranno scusare la dissolutezza dei costumi e l’empietà delle dottrine?» (Gioberti, Introduzione allo Studio di Filosofia).
Nella prosa del critico si sente il rimpianto per la decadenza degli auto-da-fè, per poter far pagar caro il dubbio al miscredente, il quale osa dubitare.
«Avvi qualche cosa al di là della vita? Chi lo sa? Colui che non può risponderci. Chi afferma di sì? Colui che non sa più nulla. E quando lo saprà egli? Forse allora che meno s’attende e meno si desidera!».
La religione basa la sua potenza sulla paura della morte. La sua filosofia è: il mistero suggellato dalla morte.
Contro questa falsa filosofia si ribella il genio di Byron; e contro il ribelle la Chiesa sferra la sua ira. L’arte, il sacrificio per la libertà, per la Chiesa rappresentano l’eresia.
Ma la musa byroniana non si spinse sino alle estreme conseguenze dove arrivò invece quella shelleyana, onde si può immaginare di quanto maggiore fosse l’ira dei custodi dell’altare e del trono contro il giovane titano.
Il Byron, che non fu largo di modestia, nei confronti del suo conterraneo disse:
«Se la gente apprezzasse Shelley, ove sarei io?».
E a Shelley, la patria fu inesorabile, spietata, oltre l’immaginazione; né il poeta fu parco di anatemi contro la società del privilegio e dell’infamia. E se oggi quella casta che lo perseguitò, non l’oblia, si è perché grande fu l’artista; perché quando al di là della frontiera il genio dice: Dante, Goethe, Tolstoj, Hugo; dall’Inghilterra possa rispondere un nome, che stia bene al confronto: Shelley.
Difatti, se la critica cerca nella letteratura inglese un paragone a Dante, non cita Shakespeare, non cita Byron; cita: Shelley.
Ma, malgrado ciò non tutta l’opera dello Shelley, la censura inglese permette che si dia alla intelligenza del pubblico: I Cenci, ad esempio, è stato scartato dai programmi del teatro inglese.
Ma il poeta giganteggia nella patria che lo derise.
L’Università di Oxford che lo bandì da studente, lo ha eternato nel marmo, morto: forse in simbolo di mestizia.
Un altro monumento è nella cattedra di Hants, opera di H. Weeks: lì è rappresentato il corpo disfatto riversato dalle onde sulla spiaggia. Forse in simbolo di pietà.
Ma Shelley è «il trionfo della vita», come egli intitolò l’ultimo suo poema.
In Italia, dove il poeta trascorse gran parte della sua vita d’esilio e dove il suo corpo perì, e i suoi resti son sepolti, per molto tempo fu taciuto il suo nome. Fino al 1882 – dice il Carducci – in nessuna biblioteca si trovavano le sue opere. La biblioteca Vittorio Emanuele di Roma se ne dotò nel 1882; quella di Bologna, per regalo del Carducci, nel 1885, Firenze nel 1888, Pisa nel 1892.
Ricordiamo una lapide dedicata al poeta, e che resta in un palazzo del corso Umberto a Roma; un monumento eretto a Pisa.
Di traduzioni delle opere shelleiane ricordiamo: Il Prometeo liberato tradotto da Ettore Sanfelice, con prefazione di G. Carducci; e l’altra traduzione in versi del Rapisardi.
La traduzione di varie poesie, dell’Ascoli; I Poemetti in prosa editi da Sonzogno, traduzione e prefazione di Ettore Sanfelice.
L’Origine della Tragedia, e Della necessità dell’Ateismo.
Ma il traduttore più appassionato dello Shelley fu Adolfo De Bosis, che diede una magnifica traduzione metrica del Prometeo, in una edizione impeccabile; allo stesso si deve la traduzione de I Cenci, e di qualche altro lavoro minore.
Il De Bosis, che fu anche un ammirato poeta, non sordo alla voce dei tempi nuovi, si riprometteva di tradurre tutte le opere del poeta inglese, ma la morte lo colse mentre si apprestava alla nobile fatica.
De La Rivolta dell’Islam ha tradotto qualche canto l’Ascoli, e nelle nostre riviste è comparso, tradotto, il canto dove il poeta celebra il vaticinio anarchico dell’umanità.
Né altro ci risulta di tradotto.
Ormai Shelley, oltre che conosciuto è molto ammirato in Italia; nel Cimitero dei protestanti, dove le sue ceneri sono sepolte, si incontra sempre qualche visitatore; e i fiori vivi della riconoscenza si rinnovano sempre.
Shelley, dopo il naufragio avvenuto l’otto luglio 1822, fu rinvenuto sulla spiaggia di Bocca Lerici il 22 luglio.
Il suo corpo fu trovato completamente sfigurato, e riconosciuto perché portava ancora in tasca un volume di Eschilo, l’ultimo libro di Keats che aveva avuto in regalo prima dell’imbarco, e il manoscritto del suo ultimo poema: Il trionfo della Vita.
Il corpo dello Shelley venne bruciato sul posto col rito costumato degli antichi greci. Assistevano alla cerimonia: Byron, Leigh Hunt, Trelawney, quest’ultimo trasse dalle fiamme il cuore inconsunto: Cor cordium, che fu sepolto a Bournemotuh, ove ebbe sepoltura Mary Shelley.
Sulla modesta lastra di marmo che copre le ceneri, Byron e Trelawney fecero incidere la seguente epigrafe:
Percy Bysse Shelley
Cor cordium
Natus IV Aug. MDCCXCII
OBHT VIII JUL MDCCCXXII
In inglese sono trascritte le parole de La Tempesta di Shakespeare:
«Nulla di lui perisce, ma è trasformato dal mare in qualche cosa di ricco e di straordinario».

***

Non aveva ancora trent’anni ed era già una bandiera di gloria immortale. La sensibilità precorritrice dei tempi nuovi.

***

E lo dissero: un perverso, un irregolare. E un irregolare di fatti lo fu, in quanto egli si distaccava dalla mentalità accettata dalla sua classe, nel suo secolo.
Fanciullo, non l’attrae la vita puerile che interessa gli altri fanciulli; e scruta, per interrogare, gli abissi: costruisce barchette di carta e le affida alla corrente delle acque, mentre il suo sguardo le segue con interesse, e il suo animo si allena ad una lotta impari colla materia. Già sente dell’animo suo, sensibile per ogni forma di giogo e di tirannide, i fremiti della ribellione:
«Era una mattina di maggio. Io pestavo le zolle scintillanti di rugiada: piangevo e non sapevo perché. L’aria era fresca; la natura penetrava in fondo all’animo mio. Un rumore colpì le mie orecchie; ahimè! Da una scuola vicina venivano i lamenti dei fanciulli, eco e simbolo del mondo, nel quale io non dovevo trovare un giorno che tiranni e schiavi…
Ah!, esclamai a me stesso, l’ingiustizia e la tirannide sono troppo spaventose! Io sarò giusto e savio e dolce e libero; possa Iddio concedermene la forza! Il forte che tiranneggia il debole mi cagiona troppo dolore; e questo sentimento non si cancellerà!».
Rinchiuso all’età di quindici anni nel collegio di Eton, conobbe la tirannide, sotto la disciplina dei tutori e dei pedagoghi; ma non la subì, non «piegò sua costa», né soggiacque alle vessazioni della scolaresca, che lo trovava tanto dissimile ad essa da tormentarlo, deridendolo.
Ma così doveva stabilirsi il contrasto tra il gregge e l’aquilotto.
Non era superbia quella del fanciullo sublime, benché si sentisse una superiorità di fronte agli altri, ma era la miseria morale degli imberbi baronetti che lo sdegnava: era la loro presuntuosa ignoranza.
Shelley non scendeva, a petto degli altri, da più basso linguaggio; ma già, in lui aveva scarsissimo valore la nobiltà del blasone: egli stimava la nobiltà del pensiero e delle opere. Così, come più tardi canta ne Lo spirito della solitudine.
«Scienza, verità erano il suo tema, ed eccelse speranze di divina libertà (per lui i più cari pensieri) e poesia, ella medesima poetessa.
…Ogni vista, ogni suono, dalla terra immensa e dall’aere che la cinge, mandarono al suo cuore i loro più nobili impulsi. Le sorgenti della divina filosofia non isfuggirono alle sua labbra sitibonde, e tutto ciò che di grande o buono od amabile il passato venerando consacra in forma di vero o di favola, egli lo sentì e conobbe».
Al collegio di Eton, fra tanti nemici, lo Shelley trova un uomo capace di comprenderlo: il Dott. James Lind, insegnante in quell’istituto. Il giovane gli si affeziona, e si appassiona allo studio delle scienze naturali e chimiche; a questi studi intercala la lettura di Southey, di Bürger, di Schubart. A queste fatiche intellettuali attira un suo condiscepolo, Thomas Medwin, che più tardi sarà un suo biografo.
Lo studio lo prende completamente, e passa le notti sui libri. Si esalta fino ad impensierire il padre, che vuol rinchiuderlo in una casa di salute. Lo salva l’affettuoso intervento del Dott. Lind, e ritorna di nuovo nel collegio di Eton.
«Era un essere strano – scrive il suo condiscepolo Arthur Dudley – sconosciuto da tutti, amato da uno solo, il vecchio prof. Lind, per il quale lo Shelley serbò un’eterna venerazione. Qualche cosa di ombroso, di curioso e di pauroso distingueva il giovanetto da tutti i suoi compagni, e a vedere il suo strano modo di camminare, il suo sguardo vacillante e dolce e un non so che di sospettoso che si rivelava in tutti i suoi gesti, lo si sarebbe preso volentieri per un cerbiatto sfuggito alla profondità dei boschi. Tale idea venne un giorno ad alcuni compagni e subito echeggiò nella scuola quel terribile grido: Facciamo la caccia allo Shelley! A datare da quell’ora, la caccia allo Shelley fu tra le ricreazioni permesse. Ci si lanciava contro il disgraziato scolaro; ma difficilmente si poteva raggiungerlo, perché, dopo una corsa disperata, non potendo più resistere, si voltava mandando un ruggito che ci atterriva e ci faceva indietreggiare. Vivessi cento anni non potrei dimenticarlo quel grido; vi assicuro che vi avrebbe gelato il sangue; ed io ho sempre pensato che in quel momento lo Shelley doveva essere completamente fuori di sé».
Una vera persecuzione, una congiura di agenti provocatori: Eton finì col cacciarlo per sempre.
Il volgo della cattedra non poteva perdonare all’irregolare.
Dal collegio di Eton, lo Shelley passa all’Università di Oxford.
L’aquilotto sta sempre in alto, e le oche lo guardano con mal celata invidia.
Shelley ha già con sé ed in sé una cultura vasta, sconfinata. È famigliare con i Greci, intimo con Platone; padrone della filosofia inglese del secolo XVII, conosce la letteratura francese, e già ammira il genio italiano. Dante è fra i suoi preferiti, e, se mal non ricordiamo, fu detto che si era dato alla traduzione della Divina Commedia.
Conosceva il Saggio sull’intelletto di Locke; La Giustizia Politica del Godwin; Il Contratto di Rousseau; l’opera Dello Spirito di Helvetius; La Storia dell’Inghilterra di Hume; e la Filosofia di Voltaire.
L’umanitarismo della religione non lo convince: l’Umanità dà orrendo spettacolo della sua miseria sotto la protezione divina; la beatitudine del cielo è una pietosa menzogna che fa comodo solo ai privilegiati. E lo Shelley pensa e scrive sulla Necessità dell’Ateismo.
Fu un fulmine: lo studente di Oxford aveva colpito nel segno. I parrucconi dell’Università lo cacciarono via; il padre non lo volle più vedere, e gli tolse l’assegno che gli serviva per vivere; gli troncò la corrispondenza con la cugina Miss Grove, che il poeta sognava sposare.
Un dilemma si era posto davanti allo Shelley: la rinuncia del suo patrimonio ideale, in compenso di una vita di comodi e di effimeri piaceri, o l’idea gravata di stenti e di persecuzioni. Shelley, senza opporre calcolo, accettò la seconda condizione, perseguendo nella via crucis.
Ma né persecuzioni, né ingratitudini lo stancarono e lo vinsero, né egli rivolse mai lo sguardo verso il cielo per dire come l’uomo sul Golgota: «Padre, perché mi abbandoni?».
Shelley non fu un precursore del «Superuomo» nietzschiano, nel senso che non maledisse la folla; ma su questa non sperò per sé: ad essa diede tutto se stesso, e fu pago dell’opera sua.
Fu una creatura sensibile e non sensuale.
E qui sta l’abisso che divide d’Annunzio dallo Shelley, quantunque i critici del pescarese si ostinino a dare ad intendere una certa affinità di sentire fra i due poeti.
D’Annunzio, che a dire del Lucini, conosce tutti i plagi, fin’oggi non ci è riuscito con l’arte del poeta inglese. Shelley è un’arpa, che fedelmente riproduce le più delicate sfumature dell’animo e del cuore umano.
D’Annunzio rimane il novelliere di Terra Vergine, che sa solo dare la sensazione dell’acre odore delle ascelle e dell’inguine della donna sensuale, o i furori erotici di fra Cristoforo.
Sentite l’arpa shelleyana:
«…Ella aspargeva chiara acqua del ruscello su quelli che languivano pei raggi del sole; e dal calice dei fiori appesantiti ella versava fuori la pioggia dei temporali. Alzava i loro capi con le sue tenere mani, e sosteneali di vergette e di lacci di vimini; se i fiori fossero stati i suoi propri bimbi, ella non avrebbe potuto curarli più teneramente».
E se andiamo all’Epipsychidion, il poemetto dedicato ad Emilia Viviani, le corde dell’arpa sembrano toccate da mano magica – anche se leggiamo le traduzioni in prosa, che tanto deturpano la bellezza del testo:
«Quest’isola e questa casa sono mie, ed io ti ho votata ad essere signora di questa solitudine. Ed io vi ho allestite alcune camere che guardano verso l’aureo oriente, e stanno a livello dei vividi venti che scorrono come onde di sopra alle vive onde inferiori. Io vi ho mandato libri e musica, e tutti quegli strumenti coi quali gli elevati evocano il futuro della culla, e il passato fuori della sua tomba, e fanno durare il presente in pensieri e gioie che dormono ma non possono morire, avvolti nella loro stessa eternità.
La nostra semplice vita abbisogna di poco e non prende al suo servizio quel pallido facchino che è il lusso, per guastare la scena che vorrebbe adornare; e perciò la tranquilla natura con tutti i suoi figli abita quell’altura. Il palombo, nell’edera pergolata, continua colà il suo lamento d’amore, e le civette svolazzano di sera sulla torre, e le giovani stelle scintillano tra gli agili pipistrelli nella loro danza crepuscolare; i maculati daini meriggiano al fresco chiarore della luna davanti alla nostra porta, e la pigra notte silenziosa è misurata nel respiro del loro placido sonno».
Qual meraviglia se questo giovane ebbe tutti i sorrisi, tutti i palpiti delle donne che incrociarono con lui lo sguardo?
La sua arte ha la malìa del fascino; il suo coraggio lascia ammirati; il suo culto per il bello, il vero ne fanno un vaticinatore; il culto per la giustizia; un annunziatore. Tutto ciò che è in lui, sfugge all’esame, ed incanta.
Tronca ogni relazione con Miss Grove, gli tende le braccia Felicia Hemaus, ma nemmeno a questa si unisce.
In casa dell’oste Westbrook stringe amicizia con la figlia di questi, Harriet, e la sposa: da questo matrimonio nacquero due figli. Nell’intimità si rivela l’abisso che separa, non i cuori, ma la sensibilità ideologica. L’animo di Shelley vive il tormento della penosa rivelazione. Egli non sa mentire, né sa decidersi ad un gesto di crudele necessità; tenta di avvelenarsi, ma fanno in tempo a salvarlo. Dopo alcuni giorni si separa da Harriet.
Dopo la separazione con Harriet, Shelley s’incontra con Maria Godwin: assicura l’esistenza ad Harriet e intraprende un viaggio con Maria Godwin.
Harriet frattanto si accompagna ad un altro, ma finisce col suicidarsi; la notizia addolora il poeta. La morte della moglie e la pubblicazione del poema La Regina Mab, ch’è una requisitoria contro l’aristocrazia inglese, gli scatenano addosso tutti i fulmini e tutte le maledizioni della casta dominante dell’Inghilterra, che gli toglie la tutela dei suoi figli, e lo costringe ad abbandonare per sempre il suolo inglese. L’anno 1817 coincide con la venuta in luce de La Rivolta dell’Islam.
Va in Italia, dove lo attende George Byron, col quale già si era incontrato a Ginevra.
Una relazione platonica ebbe anche, lo Shelley, colla contessa Emilia Viviani, che il padre, per andare a seconde nozze, aveva chiusa in un convento; a lei il poeta ha dedicato l’Epipsychidion, che gli aveva ispirato.

***

«Tutte le circostanze della vita dello Shelley – dice il Chiarini – attestano come in lui la poesia, la visione, l’idealismo (adopero queste tre parole come sinonimi, a significare una cosa sola) fossero, più che un bisogno dello spirito, il principale elemento costitutivo dell’esser suo. Egli non era un uomo come gli altri; era più che un uomo, uno spirito; tanto poco aveva di corporeo, di materiale…».
Il denaro non era il suo tormento, per lui non aveva valore; se ne aveva lo donava, se vedeva in altri la necessità.
Se, intento all’opera sua, lo chiamavano per il pranzo, si domandava se per caso avessero dimenticato di aver già desinato.
Un sognatore!
Ma, se un grido di libertà arriva al suo orecchio, egli interrompe il sogno e batte la terra.
In Inghilterra arringava la folla dalla tribuna popolare; in Italia, il suo animo batte all’unisono colle folle del 1820, che in Sicilia, a Napoli in Ispagna irrompono contro il servaggio.
Un giorno, che ha sentore che un suo amico è stato carcerato per reato di pensiero, propone di organizzare una spedizione armata per liberarlo.
Quanto si duole egli che gli uomini si mostrino tardi al loro interesse di libertà! Egli vorrebbe essere uno per tutti, pur di non subire la pena per la viltà altrui.
«L’uomo dall’anima virtuosa non comanda, né obbedisce. Il potere, come peste, contamina tutto quello che tocca; e l’obbedienza, rovina di ogni genio, virtù, libertà, verità, degli uomini fa tanti schiavi, dell’organismo umano una macchina, un automa.
…Guarda come le messi germogliano! Il sole infaticabile spande la luce e la vita; i frutti, i fiori, gli alberi crescono; tutte le cose dicono pace, armonia, amore!
L’universo, nella silenziosa eloquenza della natura, dichiara che tutti gli esseri compion l’opera di amore e di gioia, tutti… ad accezione d’un refrattario, l’uomo! Lui fabbrica il ferro che pugnala la pace; carezza i serpenti che gli rodono il cuore; glorifica il tiranno, che si rallegra de’ suoi dolori e si fa giuoco della sua agonia».
Questo, il poeta dice nella Regina Mab; nella Rivolta dell’Islam, il verso si arroventa sempre più:
«Oh dolore! Oh vergogna! vedere umani petti cozzarsi come bestie feroci assetati di sangue e scannarsi, armati da un uomo che se ne sta in disparte e ride!
…Passa l’orribile tiranno, circondato d’acciaio e d’assassini mascherati, a traverso la pubblica via, coperta di cadaveri; i suoi piedi sguazzano nel sangue fresco… Egli sorride! E dice: “Io sento ora che sono veramente re!”
E s’asside sul suo trono e fa portar la ruota di tortura ed il fuoco e le tenaglie e gli uncini e gli scorpioni, tutto quello che la sua malvagia anima ha potuto inventare per accrescere gli spasimi».
Ma quando il Prometeo ha già spezzato le catene e il vaticinio del poeta arride all’umanità, una rugiada di amore, di fratellanza e di umanità è scesa sulla terra.

Egoismo, viltà, odio, disprezzo
Non eran più sopra le fronti incisi.
Non torvi sguardi, non tremor; nessuno
Con paura sollecita il comando
Spiava nell’altrui fredda pupilla;
Nessun di schiavo altrui, mutando in peggio,
Schiavo faceasi al suo voler, che quale
Sgroppata rozza lo spronava a morte,
Non più le labbra ordivano parole
Ch’erano reti al ver; non più sorrisi
Che servisser di velo alla menzogna,
Che pronunziare non ardì lingua;
Non uom vivea, che con ghigno impudente
Calpestasse in cor suo della speranza
E dell’amor le faville a segno,
Che solo amara cenere restasse
D’un anima che tutta arse se stessa:
Tal che, larva d’un uomo, anzi vampiro,
Ei miseramente in tra le umane
Genti strisciasse, e alla sua tristezza
Tutto ammorbasse in guisa orrida il mondo.
. . . . . .
Caduta dall’uman volto la sozza
Larva, l’uom vero finalmente io vidi.
Non servo, non signor, ma onninamente
Libero, incircoscritto ed a sé pari;
Non più caste, tribù, genti, linguaggi,
Ma un’immensa famiglia, un popol solo
Disdegnoso di pompe e di terrori,
Giusto, savio, gentile, re di se stesso:
Non già di passion vedovo il petto,
Ma scevro al fin di colpe e di dolori;
Alla fortuna ed al morir soggetto,
Ma tal ch’à casi ed alla morte imperi,
E che, libero d’essi, oltre alla stella
Più sublime del cielo, al trono eccelso
Dell’alta immensità sorger potrebbe».

Ed è un secolo già, che così il poeta vaticinava. E se questo vaticinio di libertà, di amore, di verità, di giustizia, di eguaglianza, è tutt’oggi tenuto in conto di un orrore da pazzi, dai dominatori che non hanno smesso la persecuzione e la tortura contro gli eroi e i reprobi, che meraviglia, se un secolo addietro non fu risparmiato il divino cantore della nostra anarchia?
Ma il giovane audace non si avvilì, non disarmò, e il suo esempio – ch’è quello dei forti – fece scuola.
E il vaticinio non si arresta.

***

L’ardimentosa barca che l’8 luglio del 1822 salpò da Villa Magni, presso Lerici, per correre incontro ad un vinto e portargli la solidarietà, si dibatté ancora fra la procella del mare in tempesta, che continua a riversar vittime: i roghi ardono sempre.
Il legno lotta, ma non si arresta: la meta è lontana, ma sicura.
Noi che abbiamo fede la sentiamo, la vediamo, l’aurora invocata, e la salutiamo, perché essa sarà: Il trionfo della vita!

(L’Adunata dei Refrattari, anno VII, n. 19 del 19-5-1928 e n. 20 del 26-5-1928)