La Comune di fronte agli anarchici

cine-de-desastres

Prima di illustrare gli episodi più salienti di questa rivoluzione che, pur rapida come una meteora, lasciò un solco così profondo, sarà pregio dell’opera riassumere brevemente i fatti da cui scaturì e che la legittimano anche al cospetto di coloro i quali – ben diversi da noi – non ritengono legittime contro qualsiasi forma di governo tutte le rivoluzioni popolari.

Ma noi dobbiamo fin da ora rilevare che l’insurrezione vittoriosa a Parigi conferì, secondo le tradizioni rivoluzionarie e governamentali, un carattere di regolarità al potere che, dopo la fuga di Thiers e dei suoi giannizzeri, si era costituito.

Non v’è dubbio: la Comune eletta dal popolo vittorioso fu il governo ufficiale; e che tale si ritenesse essa stessa è dimostrato dalla sua costante preoccupazione di legiferare. E se non esercitò la sua giurisdizione su tutto il territorio della Francia lo si deve soltanto al mostruoso accordo della Vandea versagliese e delle orde prussiane che, mantenendo il blocco intorno all’irrequieta capitale, gliene sbarrarono la via.

D’altra parte gli uomini che afferrarono per primi le redini del movimento – di cui non avevano del resto preso l’iniziativa – si mostrarono molto più solleciti a coprirsi di galloni che non ad estendere l’azione rivoluzionaria annodando subito colla provincia l’intesa senza di che si doveva affogare nell’accidia e nell’impotenza più disperate…

Durante i dodici giorni che seguirono il 18 marzo essi rimasero in uno stato di sbalordimento assoluto, come assorbiti dalla loro muta contemplazione, senza riflettere che Thiers raccoglieva a Versailles un esercito; che mandava a prendere alla banca di Francia in Parigi il soldo per le truppe; senza opporsi alla partenza di parecchi reggimenti che il 23 marzo stazionavano ancora ai giardini del Lussemburgo, alla stazione di Saint Lazare, in qualche punto interno delle fortificazioni; senza occupare neppure il forte del Mont-Valerien, di cui gli insorti di Suresnes e di Puteaux ad essi segnalavano l’inconcepibile abbandono.

Questi errori, molti altri errori anche più gravi, permisero a Thiers di preparare tranquillamente il massacro dei parigini.

Non anticipiamo: accerteremo più innanzi le responsabilità varie e gravissime, quelle soprattutto dei parecchi capi civili e militari i quali, invece di studiarsi a fronteggiare da ogni lato il nemico, passavano il loro tempo ad ispezionare i cori dell’Opera o a pavoneggiarsi – costellati di galloni e di chincaglierie fin sopra i capelli – ai concerti delle Tuileries e del Campo di Marte a braccetto colle eleganti mondane del giorno.

Lo diciamo con irremovibile convinzione: se tutti i capi della Comune avessero avuto il carattere di Delescluze e di Varlin, il coraggio di Flourens, di Duval, di Cipriani, il glorioso avanzo delle monarchiche galere italiane, se come questi avessero preferito il crepitar secco delle fucilate all’allegro scoppiettio delle bottiglie di Champagne, se fossero stati decisi a seppellirsi sotto le rovine di Parigi piuttosto che abbandonarla ai versagliesi, la Comune vittoriosa avrebbe potuto far impiccare Thiers, Favre ed i loro complici come traditori… ed i prussiani atterriti avrebbero, per ritirarsi, accettato condizioni meno umilianti per noi di quelle che i traditori del governo di Difesa Nazionale ci suggellarono tra gli occhi come una vergogna.

 

I

 

La guerra del 1870 fu causata dalla scellerata imbecillità di Napoleone III. Questo triste sire, la cui presunta intelligenza non era che perfidia, si lasciò stupidamente burlare da Bismarck, che mirava ad assegnarci la parte di aggressori per staccare da noi ogni alleanza nell’eventualità della guerra a cui si preparava da lunga mano.

Era evidentemente impossibile che un politico profondo come Bismarck pensasse seriamente ad innalzare sul trono di Spagna un principe tedesco. Egli doveva conoscere troppo bene l’odio tradizionale degli spagnoli contro ogni dominazione straniera e la loro tenacia patriottica, per andarsi ad ingolfare tra le popolazioni indocili che avevano cacciato il re Giuseppe e gli eserciti mandati da Napoleone I a sostenerlo.

Napoleone non s’accorse dell’agguato che gli si tendeva, non comprese che la Germania a cui mancava una marina sufficiente, che non ha colla Spagna contatti limitrofi, non poteva esporsi all’eventualità di sostenere un principe tedesco in un paese in cui non poteva, senza il consenso della Francia, mandare neppure un soldato.

Ma, oltre a non possedere un grano di discernimento, l’uomo del 2 dicembre era nel 1870, come tutti i giocatori disperati, spaventato della crescente impopolarità del suo governo, e tentò la sorte anche col rischio di trascinar la Francia nella propria rovina. Un ufficiale gli aveva fatto credere, accarezzando le sue ridicole presunzioni in materia d’artiglieria, che con poche mitragliatrici segretamente fabbricate e sperimentate a Meudon si potevano distruggere gli eserciti prussiani colla stessa facilità con cui i mietitori falciano il grano maturo.

Contando unicamente su questi gingilli, Napoleone di contrabbando ebbe la follia di dichiarare la guerra. Ignorava che i prussiani possedevano cannoni capaci di lanciare la mitraglia a cinquemila metri mentre le sue mitragliatrici attingevano a mala pena i millecinquecento metri.

Tuttavia, per distrarre dal suo capo le responsabilità di una possibile disfatta, ebbe la perfidia di far urlare da qualche strillone salariato e dalla stampa greppaiola: A Berlino! a Berlino! tanto per poter dire, occorrendo, che a dichiarare la guerra l’aveva trascinato il popolo.

Parigi più direttamente minacciata dalle probabili avversità di simile follia trasse da questi preliminari le ragioni prime del malcontento, a cui s’aggiunsero più tardi quelle che in seguito vedremo e determinarono le insurrezioni del 4 settembre 1870 e del 18 marzo 1871.

 

II

 

I rovesci successivi del nostro esercito, l’attitudine ignobile dell’Imperatore a Sedan, irritavano tanto più il popolo che generali e ministri insieme col loro sovrano avevano più ostinatamente voluto la guerra, garantendo “a cuor leggero” che noi eravamo preparati a sostenerla colle migliori garanzie di buon successo.

La Francia intera fu stretta da una violenta indignazione; essa che la guerra stupida non aveva voluto si mostrò disposta a tutti i sacrifici per continuarla. Ripudiò la capitolazione vergognosa proposta in suo nome, e strappando agli artigli dell’impero la sua bandiera, proclamò la Repubblica.

Come nel 1848, a far la rivoluzione fu il popolo, non i politicanti che avevano brigato l’onore ed il mandato di farla. Gambetta ebbe l’impudenza di gridare agli invasori del Palazzo Borbone: Non fate la rivoluzione! Gambetta, che la sua elezione aveva sollecitato e raccomandato a formali impegni rivoluzionari!

Disgraziatamente, per una deplorevole incoscienza, si permise ai traditori – di cui si ripudiavano i consigli – di impadronirsi del potere, e la missione di difendere la Repubblica francese si commise a coloro che avevano puttaneggiato coll’Impero e gli avevano giurato fedeltà.

Cosa anche più strana, e che denunzia lo scompiglio suscitato dalla paura dei prussiani, Blanqui ed i suoi adepti offrirono «il loro concorso il più energico, il più assoluto» agli usurpatori della rivoluzione: ai Jules Fave, ai Picard, ai Glais-Bizouin, ai Garnier Pagès, ai Cremieux, ai Ferry, ai Gambetta, ai Jules Simon, agli Arago, ai Pelletan, ai Trochu, ai Rochefort; offerta di cui del resto non fu sdegnosamente fatto alcun conto.

I blanquisti, e Delescluze con essi, mostrarono in questa circostanza un’assoluta miseria di previdenza e di energia: non compresero che la Francia non poteva essere salvata che da un immenso impeto rivoluzionario di cui erano fatalmente incapaci i vassalli dell’Impero.

Imbevuti d’autoritarismo governamentale e preoccupati della difesa nazionale vollero ad ogni costo, anche a costo di veder truffata la rivoluzione, l’accentramento delle forze nelle mani di un governo purchessia; l’irrompere delle iniziative popolari, solo mezzo di salvezza, parve ad essi un pericolo, e non osarono provocarlo. Errore enorme che li condannò definitivamente all’impotenza, anche per opporsi al manifesto tradimento preparato dal Trochu, dal Favre, dal Ferry e dai loro consorti…

Tuttavia il 31 ottobre 1870, alla notizia del tradimento di Bazaine e della presenza di Thiers venuto per negoziare con Bismarck, un brivido di collera serpeggiò per le grandi arterie della capitale; ma né Flourens, né Blanqui, né Delescluze seppero profittarne… Padroni della situazione se ne lasciarono sloggiare da un battaglione delle guardie mobili…

Il 28 gennaio Parigi, dopo qualche tentativo d’insurrezione prontamente represso, capitolava… L’indomani 29 gennaio 1871 si leggeva sui muri di tutte le città francesi il dispaccio ufficiale che annunziava la convocazione degli elettori con «limitazione strettissima dei poteri dell’eligenda assemblea, alla questione della pace e della guerra»…

L’1 marzo i prussiani entravano a Parigi.

 

III

 

I cannoni erano sotto la custodia di pochi popolani, quando il 18 marzo 1871 dopo le quattro del mattino le truppe attaccarono il parco rivoluzionario d’artiglieria.

Parigi era ancora immersa nel sonno.

Il colpo di mano era riuscito così felicemente che Clemenceau alle sei s’affrettava a portare le sue felicitazioni ai generali che l’avevano audacemente osato.

Ma verso le otto un’onda immensa di popolo, donne e bambini invadono il colle, si disperdono fra i soldati impedendo che i cannoni già aggiogati siano portati via. Dopo qualche parziale conflitto le truppe sono respinte o fanno causa comune col popolo.

Il governo atterrito si decise ad abbandonare la capitale colle poche forze che gli restavano, abbandonò anche il forte Mont-Valerien.

Qui torna opportuna una limpida constatazione: senza l’iniziativa della folla anonima, senza l’insurrezione spontanea delle masse proletarie, Thiers sarebbe riuscito nel suo attentato, avrebbe disarmato il popolo.

Perché il Comitato Centrale non era all’erta, non aveva fatto nulla per evitare la sorpresa, non partecipò alla ripresa dei cannoni, al trionfo della Rivoluzione che metteva il governo in fuga.

Fu ancora la folla mischiata a pochi soldati che fece giustizia di Clement Thomas e di Lecomte che il Comitato Centrale e parecchi ufficiali della Guardia Nazionale volevano risparmiare malgrado l’ordine dato da questi due generali di massacrare la folla senza pietà.

Apprendendo la duplice esecuzione, ciò che a Parigi restava del governo scomparve. Tutto: ministri, generali, deputati filarono rapidamente a Versailles.

E, colpevole incuria, il Comitato Centrale che accaparrava già il potere li lasciò partir tutti non sognando che di ristabilire la calma, mentre avrebbe dovuto stimolare il pubblico sdegno a distruggere coloro che dovevano più tardi sgozzare i parigini.

 

L’indomani, 19 marzo, invece di spingere su Versailles la popolazione e le guardie nazionali, il Comitato Centrale perse il suo tempo a fare del parlamentarismo, a distribuirsi i ministeri. Non pensò che ad imbastire un nuovo governo, a bandire le elezioni. Tutto ciò mentre urgeva inseguire il nemico, rompere le trame che si ricostituivano. Le forze non mancavano: più di centomila uomini erano in armi, più di ottanta cannoni in ordine… mentre Thiers non aveva intorno a sé più di ventimila uomini!

Il Comitato si lasciò dominare da Clemenceau, da Malon, da Cournet, da Tolain che pur riconoscendo la legittimità dell’insurrezione reclamavano come deputati di Parigi la direzione del Movimento…

Dopo parecchi indugi si riuscì a fare le elezioni il 26 marzo; vi parteciparono 230 mila elettori ed il 28 marzo la Comune era costituita tra le acclamazioni di Parigi in delirio. Vedremo presto come la Comune abbia risposto a questi entusiasmi.

 

IV

 

I primi atti della Comune provarono subito che, come il Comitato Centrale, essa non aveva compreso l’urgente necessità di finirla coi versagliesi; essa non seppe neppure farsi rispettare dal Comitato Centrale  lasciandogli comprendere che la sua missione era finita.

Come quest’ultimo, la Comune non s’occupò affatto di mettersi in comunicazione colla Provincia: si mise ad accumulare decreti su decreti fino al momento in cui, il 2 aprile, gli obici che si erano lasciati accumulare a Versailles cominciarono a piovere su Parigi sorpresa e come uscita da un sogno.

Il popolo, sempre all’avanguardia, voleva marciare immediatamente su Versailles; centomila uomini sono pronti ma la Comune esita, discute in luogo di agire sotto l’impulso popolare; non comprendendo una jota di questioni militari deve riferirsene ai suoi generali d’occasione: Bergeret, Eudes e Duval di cui deve riconoscere ben presto l’insufficienza; e si decide allora a nominare Cluseret ministro della guerra.

Ma tutti questi indugi avevano spezzato lo slancio della massa: 25.000 appena si misero in marcia, senza artiglieria quasi, e senza capi sperimentati.

Eudes si limitava a gridare: Avanti! Avanti!; Duval si moltiplicava, riusciva a far rinculare il generale Dubarrail, ma non giungeva che a farsi fucilare da Vinoy.

Durante questo tempo Flourens era sorpreso a Chatou da una pattuglia di gendarmi e periva miseramente per mano del capitano Desmaret, e così si compiva questa sortita del 3 aprile che, fatta il 19 o il 20 marzo, avrebbe dato la vittoria ai parigini.

La disfatta scatenò recriminazioni ardenti in seno alla Comune e contro il Comitato Centrale. In fondo la colpa era di tutti: gli uni erano colpevoli di non avere opportunamente utilizzato lo slancio del popolo costretto ad esaurirsi nell’inazione; gli altri di essere sortiti senza munizioni, senza un numero sufficiente di cannoni quando potevano disporre di oltre 250 pezzi d’artiglieria, con cui avrebbero potuto sbarazzare il terreno su tutto il percorso da Parigi a Versailles ed aprire così la marcia dei battaglioni sul nemico accampato a breve distanza.

Tuttavia Parigi non si sgominò, fece prodigi di valore per allontanare il nemico dai suoi bastioni, Dombrowski che aveva sostituito Bergeret ottenne successi importanti malgrado l’assoluta mancanza di direzione da parte di Cluseret e del Comitato che continuava a partorir decreti quando occorreva occuparsi soltanto di combattere e di fornire, senza interruzione, rinforzi e munizioni ai battaglioni impegnati col nemico. Lasciati in abbandono, i federati dovettero ancora ripiegare.

La Comune ebbe allora il torto di lasciarsi burlare da pretesi conciliatori che in suo nome aprivano trattative di componimento amichevole coll’unico risultato di veder diminuita la sua autorità morale, riaccesa la fiaccola delle intime discordie. I versagliesi approfittarono soli di questi atteggiamenti che a Thiers, il quale continuava a lanciar su Parigi bombe incendiarie, permisero di raccogliere un esercito di 125.000 uomini con trecento pezzi d’artiglieria.

Il progetto di un attacco generale da parte degli assedianti era ormai apparso manifesto. Malgrado quest’evidenza la Comune ed i suoi generali non presero alcun provvedimento per l’eventualità di un’irruzione del nemico in Parigi. Nessuno pensò ad utilizzare le mine su tutto il percorso che gli assalitori dovevano seguire prima d’arrivare nel centro della capitale. Si lasciò troppa licenza a Cluseret di trascinare la sua inutilità assoluta e le sue ridicole presunzioni attraverso i dicasteri della guerra di cui voleva soprattutto accaparrare – come aveva tentato già a Lione presso il Comitato Federativo – la direzione finanziaria.

Si lasciò andare insomma ogni cosa alla ventura, senza arrestare neppure il funzionamento delle amministrazioni anteriori che, in piena rivoluzione, non avevano più alcuna ragione d’essere. Si volle governare il popolo in luogo di sguinzagliarlo, e ciascuno pretese condurlo a suo modo…

 

V

 

Il 1 maggio 1871 si eleggeva il Comitato di Salute Pubblica nelle persone di Ranvier, Arnaud, Léo Meillet, Pyat e Girardin.

La Commissione esecutiva prima di cedere il posto al Comitato di Salute Pubblica aveva fatto giustizia dell’arroganza imbelle di Cluseret e gli aveva sostituito Rossel.

Il nuovo delegato alla guerra pareva animato dalle migliori intenzioni, ma si limitò a sterili agitazioni. Nulla fu disposto per la battaglia entro Parigi, l’unico punto ormai in cui si potessero vincere i versagliesi.

Riconoscendosi bentosto incapace malgrado l’aria di pretensione, Rossel dimissionò ributtando la colpa del disordine sulla Comune stessa e sui diversi comitati che si contendevano la supremazia…

Thiers era ormai padrone della situazione: aveva rimpinzato Parigi di  spie, di agenti provocatori che seminavano dovunque la confusione. Delescluze a cui si era affidata, in extremis, la direzione suprema delle cose non poteva più rimediarvi.

Allora si pensò a distrarsi demolendo al suono della Marsigliese la Colonna Vendôme, senza riflettere che sarebbe stato assai più utile preparare la distruzione degli eserciti versagliesi nel cuore di Parigi.

E Thiers bombardava ancora, bombardava sempre; pure, malgrado il breve numero dei difensori che stavano sui bastioni, la difesa era ostinata. Dombrowski faceva prodigi di tenacia. Ma sotto la pioggia assidua degli obici e della mitraglia la costanza vacillò ed i bastioni si sguarnirono abbastanza da permettere ad un miserabile, chiamato Decatel, di arrampicarsi sul bastione n. 64 alla porta Saint Cloud e di gridare agli assalitori: «Entrate dunque! non v’è più alcuno!».

In questa stessa ora in cui il nemico rientrava a parigi, Vaillant, membro della Comune, delegato alle Belle Arti, presiedeva una prova di cori dell’Opera come se in quell’ora ci fosse altra arte utile e bella all’infuori dela guerra e delle armi!

Alla Comune, che avrebbe dovuto occuparsi di minar Parigi, di costruire quanto meno delle barricate, si continuava a discutere, o piuttosto a recriminare.

Si lasciò che i soldati di Versailles penetrassero tranquillamente fra le mura malgrado gli sforzi eroici di Dombrowski a cui non si mandavano rinforzi, a cui si lanciava più tardi l’accusa di tradimento per scaricare dalle loro terribili responsabilità i diversi comitati e gli uomini dell’Hôtel de Ville [municipio].

Allora, ma allora soltanto, si pensò alle iniziative popolari, ad armare coloro cui si erano precedentemente ricusate le armi, ma era tardi.

Non racconteremo gli assassini, le stragi spaventevoli perpetrate dai soldati dell’ordine; nessuno ignora le istruzioni sanguinarie date da Thiers ai suoi giannizzeri, nessuno ignora come furono adempiute dai generali che dopo avere vilmente capitolato dinnanzi ai Prussiani vollero lavare la loro infamia nel sangue del popolo di Parigi, tradito, vinto e disarmato.

Noi abbiamo voluto dimostrare in questa sommaria relazione dei fatti che la responsabilità dell’inazione di Parigi dopo la vittoriosa rivoluzione del 18 marzo 1871; che le responsabilità della disfatta finale, incombono su uomini d’autorità che si sforzarono di accaparrare il movimento e le cui ambizioni rivali germogliarono le discordie e gli indugi da cui le forze rivoluzionarie si trovarono immobilizzate.

In noi è questo nudo desiderio, che il popolo nelle nostre parole attinga un ammonimento per la prossima rivoluzione: esso non deve contare che su se stesso, né soffrire mai che si arrestino i suoi impeti spontanei e generosi.

È bene che tutti lo sappiano: le aspirazioni della massa sfrenata sono sempre più conformi al vero interesse pubblico che non quelle degli ambiziosi e dei pedanti.

 

VI

 

Prima di finire, una parola sulle insurrezioni parziali dei dipartimenti.

Come la Comune di Parigi ebbe il torto grave di non annodare comunicazioni colla Provincia, o almeno colle città insorte, le Commissioni che diressero i diversi moti provinciali ebbero il torto di non tenersi in costante rapporto tra di loro per combinare un’azione comune. Quest’intesa avrebbe ispirato nelle popolazioni una maggiore confidenza ed avrebbe impedito le debolezze che si manifestarono particolarmente a Tolosa.

È vero che da Narbona furono inviati delegati alle vicine città per invitarle ad insorgere ma, disgraziatamente, ad eccezione di Perpignan non si trovarono che uomini, come Jules Guesde e Marcou per citare un esempio, i quali preferirono restare nell’inazione piuttosto che affrontare il pericolo in soccorso di una rivoluzione il cui successo non pareva loro troppo sicuro…

Per rivoluzionare la Francia e il Mondo, bisogna andare innanzi pertinacemente; l’azione, sempre l’azione! Non si tratta di morire eroicamente come Delescluze, Varlin, Vermorel, Burgeois, Ferré e tanti altri.

Si tratta di combattere senza tregua fino al giorno della vittoria.

Che il passato ci serva da lezione!

L’umanità è sfruttata da secoli, gli ambiziosi sono riusciti sempre a tradirla; il tradimento non si deve rinnovare.

Che il passato ci serva da lezione.

 

I gruppi anarchici di Bruxelles

 

 

Il presente articolo è estratto da un documento rarissimo – la dichiarazione che sulle gesta e sugli errori della Comune

pubblicarono allora i gruppi anarchici di Bruxelles molti dei quali, fra i più intelligenti e più attivi, erano rifugiati della Comune.

 

 

[da L’Adunata dei Refrattari, anno II, n. 6 del 17 marzo 1923]